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Pubblichiamo il primo dei tre capitoli nei quali abbiamo suddiviso il dossier del teologo spagnolo Jesús Martínez Gordo che ripercorre il cammino dell’Opus Dei, la simpatia di papa Giovanni Paolo II verso i “nuovi movimenti”, il Sinodo dei vescovi del 1987 e l’esortazione post-sinodale “Christifideles laici”.

Credo che quasi tutti noi siamo consapevoli – in particolare coloro che sono anziani – della sapienza che esprime un detto della Castiglia secondo il quale ciò che da giovane è una virtù, da vecchio è molto probabile che finisca per essere una rarità.

È il ritornello che mi è venuto in mente in questi giorni a un anno della lettera apostolica Ad charisma tuendum (2022) con cui papa Francesco ha modificato alcuni articoli della costituzione apostolica Ut sit (1982) con cui Giovanni Paolo II eresse l’Opus Dei a prelatura personale. E, soprattutto, quando ho visto la traduzione del titolo dato alla modifica apportata da Francesco: Ad charisma tuendum, vale a dire per «tutelare il carisma» di questa singolare organizzazione collettiva ed ecclesiale o – ed è lo stesso fine – per proteggere e difendere il dono, la grazia o il regalo di Dio che è l’Opus Dei, secondo il magistero pontificio.

Immagino ci sarà stato chi, leggendo questo primo paragrafo, avrà messo in dubbio la diagnosi della tipicità dell’Opus Dei da parte di Francesco come carisma, ricevuto, tra l’altro, da Giovanni Paolo II. E – nello stesso tempo – suppongo che avrà avuto problemi ad accettare non solo la parte di verità espressa dal ritornello castigliano, ma anche l’idoneità di questa originale associazione. Resta da vedere se papa Francesco ha dichiarato che l’Opus Dei è stato nei suoi primi tempi e, in particolare, negli anni ’70, ’80, e ’90 del secolo scorso e agli inizi del presente, un «carisma» o, come afferma il detto castigliano, una «virtù».

Chi ha reagito così sappia che il suo interrogativo non è privo di ragioni; e nemmeno la sua valutazione. E che, quindi, è altamente probabile che egli non sia solo nella sua diagnosi e nelle sue considerazioni, né per quelle di allora né per quelle attuali.

Ma bisogna anche sapere che, a volte, il linguaggio magisteriale e, soprattutto, giuridico, della Chiesa (costituzione apostolica, lettera apostolica, motu proprio, Codice di diritto canonico, canoni, carisma, prelatura personale ecc.), come anche quello della diplomazia più raffinata (“alla Versailles”), può creare confusione in prima lettura. E che, per cogliere il messaggio che viene effettivamente trasmesso in questa forma, non c’è altro modo che contestualizzarlo sia nel momento storico in cui era da tutti riconosciuto e utilizzato, sia in quello dell’istituzione (in questo caso, il papato) che, ai suoi tempi, ebbe un particolare interesse a riconoscere l’Opus Dei e, ora, nel modificarlo.

E, ovviamente, prendere sul serio le reazioni – sia quelle “alla Versailles” sia quelle vaticane – di coloro che sono direttamente interessati, sia quelle di coloro che – senza badare minimamente alle forme – hanno solo voglia di parlarne con quel linguaggio semplice e chiaro con cui uno parla al suo vicino.

È quanto cerco di fare in queste righe, sapendo che non è cosa semplice, tra l’altro, perché si tratta di sapere quale è stato e prevedibilmente quale sarà, d’ora innanzi, il ruolo e l’influsso dell’Opus Dei nella Chiesa cattolica e nel mondo.

Giovanni Paolo II, il papa dell’Opus Dei

Non credo di aggiungere nulla di nuovo se ricordo che Giovanni Paolo II è stato il papa che ha accolto e promosso l’Opus Dei al vertice della struttura gerarchica della Chiesa. E nemmeno se affermo che non mancano coloro che ritengono – con la conoscenza derivata dal tempo trascorso da allora – che lo ha fatto per la sorprendente “deriva” della Compagnia di Gesù durante il mandato di padre Arrupe (1965-1982), soprattutto, a partire dalla Congregazione generale dei gesuiti del 1974. Quella “deriva” non fu di suo gradimento, in particolare a causa della centralità che la giustizia e l’opzione per i poveri cominciarono ad avere tra i gesuiti in tutte le sfere dell’attività umana e il successivo ricollocamento del famoso quarto voto di obbedienza al papa in funzione di tali preferenze.

Secondo questa interpretazione, è molto probabile che tale riposizionamento – percepito come una deriva sbagliata da parte di Giovanni Paolo II – avrebbe fatto sì che il servizio fino ad allora fornito al vescovo di Roma dalla Compagnia di Gesù sarebbe stato affidato all’Opus Dei, ovviamente con gli opportuni adattamenti.

Si condivida o meno questa interpretazione, la verità è che, a parte il problematico rapporto di Giovanni Paolo II con i gesuiti (si ricordi il suo intervento nella nomina di padre P. Dezza nel 1982 come suo delegato personale alla guida della Compagnia), il servizio, fino ad allora da loro prestato, verrà affidato in primo luogo all’Opus Dei e, successivamente, ai cosiddetti «nuovi movimenti».

Ciò che penso giunge al suo compimento con due decisioni molto importanti del suo pontificato: la promulgazione della costituzione apostolica Ut sit (1982) e il riconoscimento pontificio dei «nuovi movimenti» dopo il Sinodo del 1987.

La costituzione apostolica «Ut sit» (1982)

Giovanni Paolo II – dopo aver riconosciuto che l’Opus Dei si è impegnato a illuminare e a realizzare «la missione dei laici nella Chiesa e nella società umana» e a promuovere la «santificazione attraverso il lavoro professionale» – sottolinea che la Società sacerdotale della santa Croce ha aiutato «i sacerdoti diocesani a vivere la stessa spiritualità, nell’esercizio del loro sacro ministero».

In seguito, dopo averne verificato la diffusione «in un gran numero di diocesi nel mondo, come organismo apostolico formato da sacerdoti e da laici», ritiene che bisogna «conferire una configurazione giuridica adeguata alle sue peculiari caratteristiche».

Papa Giovanni Paolo II ritiene opportuno rispondere a tale richiesta che, formulata nel 1962 dal fondatore dell’Opus Dei, assume la forma di prelatura personale «col nome di Santa Croce e Opus Dei o, in forma abbreviata, Opus Dei», erigendo, allo stesso tempo, «la Società sacerdotale della santa Croce come associazione di chierici intrinsecamente legata alla prelatura».

Indica poi che la prelatura deve essere normata sia dal Codice di diritto canonico e da quanto è decretato in questa costituzione, sia «dai propri Statuti, che ricevono il nome di Codice di diritto particolare dell’Opus Dei».

Nel passaggio successivo, il papa ricorda che «la giurisdizione della prelatura personale si estende ai chierici in essa incardinati» e, ugualmente, «ai laici che si dedicano ai compiti apostolici della prelatura». Sia gli uni che gli altri «dipendono dall’autorità del prelato per l’attuazione del compito pastorale della prelatura».

Com’era prevedibile, il vescovo della prelatura, scelto «secondo quanto stabilisce il diritto generale e particolare», sarà confermato dal successore di Pietro In questo caso, la prelatura dipenderà dalla Sacra Congregazione per i vescovi e, a seconda della materia in questione, spetterà a detta Congregazione gestire il problema «davanti agli altri Dicasteri della Curia Romana». Da parte sua, il prelato della prelatura «presenterà al papa, tramite la suddetta Congregazione, una relazione sulla situazione della prelatura e il suo sviluppo apostolico».

Il risultato immediato di questa costituzione apostolica fu che Álvaro del Portillo, eletto Presidente generale dell’Opus Dei nel 1975, sarà confermato e nominato prelato della prelatura personale della Santa Croce e Opus Dei. Si proseguirà, quindi, con un processo, già iniziato da tempo, di istituzionalizzazione di un carisma (con il rischio intrinseco della sclerotizzazione che ne deriva) e, allo stesso tempo, di una strana e atipica “normalizzazione” nella Chiesa cattolica, con battezzati – sacerdoti e laici – che, pur risiedendo in una Chiesa locale, dipendevano da un vescovo che presiedeva la prelatura personale, con un diritto proprio che li abilitava come membri della struttura gerarchica della Chiesa e avevano una propria strategia pastorale, indipendente da quella della diocesi in cui risiedevano.

Non sorprende che, in seguito a questa decisione, ci siano stati molti prelati con enormi difficoltà ad accettare di buon grado quella costituzione apostolica. E neppure sorprende che la maggioranza dei cattolici abbia percepito la creazione di questa prelatura personale come il progetto di alcuni dei maggiori editorialisti al servizio di un modello di Chiesa (quella di papa K. Wojtyla) che già da allora cominciava ad essere percepito come difficilmente compatibile con quello approvato dalla maggioranza nell’aula conciliare e ratificato da Paolo VI.

Forse, per questo motivo – e anche per altre prassi ecclesiali, vincoli politici, opzioni economiche e posizioni culturali, molto comuni, da tempo, tra una parte dei suoi membri – prese corpo e cominciò a espandersi il poco lusinghiero riconoscimento dell’Opus Dei – cosa abbastanza normale prima di quella costituzione apostolica – come una «santa mafia».

Ma la decisione papale, essendo la più autorevole, non fu l’unica a imporsi durante il pontificato di Giovanni Paolo II, il papa che, oltre ad essere un grande estimatore dell’Opus Dei, lo fu pure dei cosiddetti «nuovi movimenti», come apparve evidente nel Sinodo ordinario del 1987.

Nel corso di quel Sinodo e, soprattutto, nel tempo immediatamente successivo alla sua conclusione, si capì che l’istituzione pontificia, legata, com’era ancora, alla comprensione dell’autorità ricevuta dal Vaticano I (1870) (essere,  cioè, il vescovo del mondo) e non da quella approvata nel Concilio Vaticano II (1964), aveva bisogno di gruppi che, fino ad allora carismatici, fossero disposti a mettersi ai suoi ordini e, quindi, felici di essere istituzionalizzati, proprio come lo era stato l’Opus Dei.

Il sinodo ordinario del 1987

Prevista per il 1986, la celebrazione del 7° Sinodo ordinario fu interrotta dall’Assemblea straordinaria (1985) dedicata «all’applicazione del Vaticano II alle nuove esigenze della Chiesa».

Questo sinodo, dedicato ai laici, si svolse, per decisione papale, nell’autunno del 1987, consentendo una migliore preparazione su un tema che era considerato – così come era formulato – vastissimo: “Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a 20 anni dal Vaticano II”.

Anche se le questioni sollevate nella fase preparatoria si erano concentrate su una grande varietà di temi, il sinodo si sviluppò attorno a tre preoccupazioni principali:

  1. Cosa si intende per “laico”
  2. ­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­La loro preminenza nei «nuovi movimenti» e il loro rapporto con il ministero episcopale
  3. La presenza corresponsabile della donna nella comunità cristiana.

Non mancarono interventi che sottolineavano la scarsa presenza dei laici in settori come la cultura, la politica e la comunicazione sociale, ma la questione non riuscì ad assumere un ruolo significativo nel corso dei dibattiti sinodali e, nel documento post-sinodale, sarà accolta più con fatica che con soddisfazione. I centri di interesse e le grandi preoccupazioni non percorrevano questa strada.

Negli interventi che si succedettero dal 3 al 13 ottobre (204 orali e 38 scritti; presenti 20 ascoltatori, per lo più laici) si possono cogliere chiaramente due tendenze di fondo: una, più preoccupata di salvaguardare il ruolo del ministero ordinato e, la seconda, favorevole a sostenere una maggiore presenza dei laici.

Lasciando per un’altra occasione le questioni relative alla mancata definizione di ciò che si intende per “laico” e la presenza corresponsabile della donna nella comunità cristiana, qui mi interessa ricordare il dibattito svoltosi nell’aula sinodale sui cosiddetti «nuovi movimenti» e la decisione presa al riguardo da Giovanni Paolo II nell’esortazione post-sinodale Christifideles laici (1988).

I «nuovi movimenti» e il loro rapporto con il ministero episcopale

Il tema centrale di quel Sinodo riguardò i difficili rapporti tra i «movimenti» e le gerarchie diocesane, variante aggiornata di un’altra tensione che attraversa tutta la storia della Chiesa tra carisma e istituzione.

Fino a non molto tempo fa, queste tensioni sorgevano tra gli ordini religiosi cosiddetti «esenti» e i vescovi. La novità era che, adesso, tale tensione si poneva tra i vescovi e i movimenti apostolici, in particolare quelli di natura sovradiocesana.

Si tratta di associazioni e di movimenti nazionali e internazionali più agili e vitali della tradizionale Azione cattolica. Hanno un nome e un percorso consolidati nella Chiesa postconciliare: sono, oltre all’Opus Dei, il «Movimento dei Focolari», il «Rinnovamento carismatico», le «Comunità neocatecumenali», la «Legio Mariae», le «Équipes Notre Dame», il «Movimento di Schoenstatt», «Comunione e Liberazione», l’«Istituzione teresiana» e molti altri.

Diversi di questi avevano cambiato struttura giuridica e, da istituti secolari, si erano trasformati in «prelatura personale» (come l’Opus Dei) o in semplici «associazioni laicali». Si calcolava che il numero di affiliati/e a tutti questi movimenti avesse raggiunto la cifra di venti milioni di persone. Le loro presenza nelle diocesi era molto varia, oscillando tra passività e autonomia.

Non poche di queste istituzioni avevano orientamenti elitari e conservatori, e persino fondamentalisti. Tutto ciò generava tensioni con molti vescovi. Alcuni di quei movimenti avevano nell’aula sinodale i loro fondatori e i loro direttori e, non senza ragione, si consideravano i prediletti del papa.

Il dibattito su questi movimenti indusse molti sinodali a riconoscere che le parrocchie, in particolare quelle presenti nelle grandi città, pur esercitando una mediazione pastorale di prim’ordine, erano connotate dall’anonimato e non riuscivano a far fronte a tutta l’attività pastorale.

Nell’aula emersero due linee di valutazione, parallele e, spesso, divergenti: la prima, che manifestava le sue riserve nei confronti di questi «nuovi movimenti» e, la seconda, di aperto sostegno e di difesa.

A. Lorscheider (OFM) elogiò, a nome della maggioranza della Conferenza episcopale brasiliana, l’esistenza di questi «movimenti», ma attirò l’attenzione, soprattutto, sulla necessità del loro inserimento organico nella pastorale locale dal momento che la comunione con il Pastore Supremo comportava la comunione con il pastore della Chiesa particolare. E, in secondo luogo, sul rischio di chiudersi in sé stessi e di sentirsi soddisfatti vivendo all’ombra di una spiritualità intimistica che non si apriva alla vita sociale né ai problemi locali, specialmente quelli relativi ai poveri.

Il giorno dopo, parlò L. Giussani, fondatore di «Comunione e Liberazione», designato dal papa a partecipare al Sinodo. Egli, dopo aver sottolineato che questi «movimenti» erano una manifestazione dello Spirito nella Chiesa», disse che era necessaria la loro accoglienza da parte della Chiesa locale perché anche il vescovo riconoscesse le peculiarità di quel «movimento». Egli fece appello al Sommo Pontefice come soluzione alle tensioni che avrebbero potuto sorgere.

A Giussani succedette, nella difesa dei «nuovi movimenti», il vescovo tedesco P.J. Cordes, vicepresidente del Pontificio consiglio per i laici, il quale sostenne che nei «movimenti» c’erano solo aspetti positivi, nonostante alcuni vescovi fossero scettici e li avessero proibiti, probabilmente perché bypassavano la loro autorità. Bisognava assumere – dichiarò – un atteggiamento spirituale e non politico, senza dimenticare che il papa è il garante della comunione tra le Chiese.

Questa difesa non gli impedì di riconoscere che, a volte, questi «movimenti» provocavano tensioni e difficoltà, ma era il vino nuovo che rompeva i vecchi otri. Fece esplicito riferimento ai «Focolari», a «Comunione e Liberazione», al «Rinnovamento carismatico» e ai «Neocatecumenali». Non espresse alcuna riserva nei loro confronti. Questa, in pratica, fu una inequivocabile presa di posizione “ufficiale” a loro favore.

La polemica però non si concluse con la difesa dei «movimenti». Due giorni dopo, fece un ampio intervento il cardinale arcivescovo di Milano, C.M. Martini, presidente a quel tempo delle Conferenze episcopali europee. Ricordò la responsabilità del governo pastorale diocesano per discernere sia le persone sia gli ideali, sia le ideologie sia le prassi di tali «movimenti». Tracciò un elenco dei diversi discernimenti: dottrinale e pastorale. Insistette sulla necessità di verificare gli autentici carismi nella Chiesa e che, con Pietro e sotto Pietro, i pastori erano i maestri di sala che distribuivano il vino nuovo che, certamente, non sarebbe mai mancato alla Chiesa.

La stampa, conoscendo le tensioni che c’erano state a Milano, vide in questo intervento una risposta a L. Giussani e insinuò che fosse anche una chiara risposta all’intervento di P.J. Cordes.

L’enciclica post-sinodale «Christifideles laici» (1988)

L’esortazione post-sinodale Christifideles laici è uno dei documenti più lunghi (se non il più lungo) di tutto il magistero pontificio. Attira l’attenzione perché raccoglie l’essenziale delle proposizioni formulate dai vescovi nel Sinodo dell’anno precedente e, soprattutto, perché procede a una rilettura della teologia conciliare sui laici a partire dall’immagine della Chiesa come comunione: «Solo all’interno della Chiesa come mistero di comunione si rivela l’“identità” dei fedeli laici, la loro originaria dignità. E solo all’interno di questa dignità si può definire la loro vocazione e missione nella Chiesa e nel mondo» (n. 8).

Come si può vedere, scompare ogni riferimento alla Chiesa come Popolo di Dio. Questa assenza segnerà tutta la riflessione sui laici e sulla Chiesa nei successivi decenni. Curiosamente, questa opzione ecclesiologica è preceduta da una diagnosi in cui si analizzano le due tentazioni alle quali i laici non sempre hanno saputo sottrarsi nel post-concilio. La prima, manifestare un interesse così accentuato per i servizi e le mansioni ecclesiali che spesso ha portato ad un pratico abbandono delle loro responsabilità specifiche nel mondo professionale, sociale, economico, culturale e politico.

La seconda legittimare e dare per buona «l’indebita separazione tra fede e vita, tra l’accoglienza del Vangelo e l’azione concreta nelle più diverse realtà temporali e terrene» (n. 2).Tuttavia, la segnalazione di questi due problemi, posti quasi all’inizio dell’esortazione, non avrà la debita trattazione nel corpo del documento. Le questioni relative alla presenza del laico nella Chiesa faranno la parte del leone al punto da rendere quasi irrilevanti – lo si può constatare – i numeri dedicati alla sua presenza nel mondo o nell’approfondire l’«indole propria» della sua secolarità.

Di fatto, il corpo dell’enciclica sarà occupato dai problemi affrontati dai padri sinodali quali: la questione dei ministeri laicali, il problema del rapporto dei nuovi movimenti con i vescovi e le parrocchie e il ruolo delle donne nella Chiesa.

Nei numeri riferiti ai «nuovi movimenti» – dopo aver riconosciuto l’importanza capitale delle parrocchie e senza ignorare i limiti e gli ambiti che esse non possono raggiungere (cf. nn. 25-28) – Giovanni Paolo II rileva che diverse forme aggregative (associazioni, gruppi, comunità, movimenti) hanno conosciuto negli ultimi anni un singolare impulso. La Chiesa sta attraversando una nuova epoca associativa dei fedeli laici, frutto dello Spirito.

Questa proliferazione è, da un lato, espressione del «diritto» di associazione dei fedeli laici e della libertà di tutti i battezzati, ma, dall’altro, pone la necessità di stabilire dei «criteri» di discernimento sull’autenticità ecclesiale di questi modi di associarsi (n. 29).

Continuando, l’esortazione propone cinque criteri che aiutano nel discernimento di questi nuovi movimenti: – il primato della santità (tutte le associazioni di fedeli laici, e ciascuna di esse, devono essere strumento di santità nella Chiesa, favorendo e incoraggiando l’unità tra fede e vita pratica); – la piena confessione della fede cattolica in obbedienza al magistero della Chiesa che la interpreta autenticamente, e la formazione in questa fede; – la comunione con il papa, centro perpetuo e visibile di unità nella Chiesa universale, e con il vescovo nella Chiesa particolare, nonché il riconoscimento della legittima pluralità delle forme associate dei fedeli laici nella Chiesa e, al tempo stesso, la disponibilità alla collaborazione reciproca; – lo spirito missionario per essere soggetti di una nuova evangelizzazione e favorire la santificazione degli uomini potenziando la formazione cristiana della loro coscienza e impregnando le diverse comunità e ambienti di spirito evangelico;– infine, la presenza impegnata nella società umana (cf. n. 30).

Da questo momento, Giovanni Paolo II avrà un gruppo numeroso, sia presbiterale sia laicale, che colmerà pienamente il vuoto lasciato dalla Compagnia di Gesù e conoscerà una crescita insolita.

È il trionfo di un modello di Chiesa e di papato che – più in sintonia con l’ecclesiologia del Vaticano I che con quella approvata nel 1964 nel Vaticano II – ha bisogno di «cinghie di trasmissione», opportunamente istituzionalizzate, in buona parte delle 5.000 diocesi esistenti nel mondo intero.

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3 Commenti

  1. angelo di marzo 22 agosto 2023
    • Barbara Dalena 23 agosto 2023
  2. Fabio Cittadini 22 agosto 2023

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