
Confesso di essermene stupita, e questa è sicuramente la prova che essere boomer è un condizionamento inesorabile. Ho fatto infatti una certa fatica a capire il senso e soprattutto la necessità del Giubileo dei missionari digitali e influencer cattolici che avrà luogo il 28 e il 29 luglio.
Perché riservare un evento giubilare a questa categoria specifica quando poteva forse rientrare in quello degli addetti alla comunicazione?
Non entro nel programma, che ha certamente un suo interesse specifico, dato che mira ad affrontare il tema della missione al tempo delle reti digitali, oltre che a richiamare a responsabilità il crescente numero di missionari digitali anche cattolici (cf. qui). Vorrei solo prendere lo spunto da qui per una riflessione a margine che non ritengo però marginale.
Quanto mi fa pensare è il repentino passaggio di testimone che c’è stato dalle agenzie educative – la famiglia, la scuola, le Chiese – agli influencer. Figure che non sono certo nate oggi, anche nelle Chiese. In molti abbiamo fatto l’esperienza di parroci che si servivano delle omelie domenicali per suggerire precise indicazioni di voto o di cardinali che hanno convinto a non andare a votare a un referendum.
Il cortocircuito fra libertà e aggressione
Che la propaganda sia una delle forze che muovono il mondo non è certo invenzione dell’era digitale, mentre lo è l’illusione che i propagandisti di ieri fossero schiavi di un’ideologia mentre quelli di oggi sarebbero liberi e aprono strade di libertà.
Non intendo qui, però, inoltrarmi nel complesso tema della propaganda. Quanto mi interessa è che il mondo della comunicazione, sia quello della carta stampata sia quello del web, è diventato il luogo privilegiato del cortocircuito tra libertà di espressione e aggressività verbale.
E ha creato una sorta di “grande fratello influencer”. Più che per le cose che comunica, per “come” le comunica. Non coincide con una persona, ma è piuttosto un clima, una sottile ma potente forza motrice di modi di pensare e di sentire collettivi.
A una diffusa “malaeducazione” digitale che non soltanto distorce la realtà, ma inquina anche la comunicazione perché istilla false pretese e paure, paghiamo ogni giorno un prezzo molto alto.
Mi limito a un esempio, che però mi sta particolarmente a cuore perché riguarda un personaggio pubblico a cui sono legata da un’amicizia carica di stima. È però solo uno tra i tanti, e riferirmi a lui mi permette soltanto di mettere a fuoco il meccanismo perverso che viene oggi contrabbandato come libertà di espressione.
Mirare al bersaglio: Antonio Spadaro
Nel giro di due giorni, diversi quotidiani (Il Giornale, Libero, Il Tempo, Il Foglio) e alcuni siti cari al tradizionalismo cattolico (Silere non possum, Stilum curiae) hanno preso di mira padre Antonio Spadaro, il gesuita che è stato negli ultimi dodici anni il reporter privilegiato di papa Francesco, il primo papa gesuita della storia.
Affinità, amicizia, reciproca stima hanno fatto sì che padre Spadaro mettesse il suo mestiere di giornalista a servizio di un pontificato come quello di Bergoglio il cui magistero si è articolato in un ricco intreccio di parole e gesti.
La capacità interpretativa di Spadaro ha provato a rendere conto di questo intreccio e soprattutto del suo impatto, ma anche di rintracciarne l’ispirazione e suggerirne le finalità. Si può ritenere discutibile il modo in cui Spadaro ha assolto questo compito e io stessa ho avuto più volte occasione di discuterne con lui. Ma il problema non è questo.
Quello che colpisce è che, con precisione quasi chirurgica, un gruppo di soggetti accreditati all’informazione e, per di più, all’informazione vaticana, più vicini però ai mitici “leoni da tastiera” che non a genuini opinion makers, abbiano coinciso nei tempi e nei modi per lanciare un’offensiva contro Spadaro che gli riservava, di fatto, solo insulti.
Posso supporre che, se fosse ancora tra noi, papa Francesco direbbe al suo confratello «se la prendono con te, ma ce l’hanno con me». Fatto lampante, peraltro, perché gli stessi giornalisti non hanno lesinato offese verbali tanto gravi quanto grevi anche nei suoi confronti durante il suo pontificato: Francesco è stato il primo pontefice a confrontarsi frontalmente con la manipolazione della realtà al soldo di interessi settari tipica dell’epoca dei social e con un complottismo che, per quanto ridicolo, è stato però quanto mai penetrante.
Una situazione con cui anche Leone XIV dovrà presto fare i conti e che in fondo ha, però, anche un suo lato illuminante. Ha infatti svelato il segreto profondo di molti cuori, dato che anche chi si è sempre professato difensore ad ogni costo della figura in quanto tale del Pontefice romano, perché a lui solo va tributato onore e riconosciuta obbedienza, si è trasformato in professionista del dileggio, della provocazione, dell’oltraggio nei confronti di un papa che si permetteva di non rispondere alle sue aspettative. Ma torniamo a Spadaro.
I suoi detrattori sono partiti tutti nello stesso momento e tutti con lo stesso tono. Poco importa se spinti da una medesima occasione, l’annuncio della prossima uscita di un suo libro, oppure per un ordine di scuderia dato che, in fondo, nessuno di loro è entrato nel merito del libro, ma tutti si sono limitati solo a insultarne l’autore.
Il tentativo di Spadaro di rilevare una linea di continuità tra Bergoglio e Prevost a partire dal magistero del primo e da interessanti dichiarazioni fatte dal secondo in un’intervista di alcuni mesi fa può essere legittimamente giudicato una pretesa inconsistente.
Sappiamo tutti infatti che l’assunzione di un ruolo può determinare un cambiamento decisivo nelle persone ma, soprattutto, dodici anni di pontificato non sono un’unità di misura paragonabile a idee espresse in un’intervista, per quanto seria essa possa essere.
Io stessa, d’altro canto, ho discusso con Spadaro sulla sua pretesa, eccessivamente cattolica a mio avviso, di stabilire sempre e comunque legami di continuità anche quando farebbe invece molto bene riflettere su decisivi elementi di rottura: mi aveva già lasciata perplessa, in fondo, l’opinione di Benedetto XVI quando, parlando con il clero romano, aveva sostenuto che l’ermeneutica della continuità e non quella della discontinuità dovevano guidare il giudizio sul Vaticano II.
Le idee di Spadaro sono del tutto discutibili, ma magari, prima, è necessario leggerle e ancora più necessario è provare ad elaborare un’argomentazione critica.
Ma proprio qui viene il punto che mi sta a cuore mettere in risalto. Perché si passa dalla legittima, anzi del tutto necessaria, possibilità di discutere i punti di vista alla precisa volontà di offendere le persone? E ci si trasforma in mestatori che volutamente hanno come unico scopo quello di sfregiare l’immagine di una persona?
Si tratta di un processo che dovremmo cercare di mettere sempre più a fuoco in questa nostra epoca in cui in troppi pretendono di influenzare i sentimenti prima ancora che le idee.
Quando il livore detta legge
Il caso Spadaro mi sta a cuore per amicizia, ma soprattutto perché è indicativo del clima che, purtroppo, sta diventando tossico anche nella mia Chiesa. Alla base di questo meccanismo perverso che sposta l’attenzione dalla discussione sulle idee all’oltraggio delle persone c’è un incontenibile livore.
Nei confronti di papa Francesco ha accompagnato tutti i giorni del suo pontificato e alimenta la damnatio memoriae che ha avuto inizio il giorno stesso della sua morte. Un livore che deve essere cresciuto a dismisura durante il silenzioso quanto imponente abbraccio di folla che ha accompagnato il suo ultimo viaggio in papamobile verso il luogo della sua sepoltura.
Se per molti ha prevalso la commozione, per alcuni specialisti dell’odio seriale ha invece prevalso il livore, e il livore, si sa, ha grande forza di collante. Creare un nemico e riservargli sarcasmo, disprezzo, sfregio è chiara attestazione della volontà di annichilire ciò (o chi) con cui non si sa avere a che fare.
Le nostre cronache, d’altro canto, sono piene di sfregi, siano essi nei confronti delle pietre di inciampo o di monumenti alla memoria di chi è stato ucciso per le sue idee. Vige il principio: non sei in grado di costruire nulla, sfregia ciò che qualcun altro ha costruito, non sei in grado di rendere ragione dei tuoi valori, sputa su quelli di altri.
La protezione dell’immunità
Ma c’è qualcosa di ancora più distruttivo, a mio avviso, in questo modo di fare l’influencer all’arma bianca ed è l’assoluta immunità da cui ci si sente protetti in nome di un vero e proprio simulacro della libertà di espressione. Un’immunità che fa pensare.
Quella parlamentare, prevista dalla Costituzione a tutela dal rischio di ingerenze dittatoriali, si è ormai trasformata in un privilegio di casta tanto scontato quanto pericoloso.
L’immunità digitale, invocata come espressione del più alto valore democratico, la libertà di espressione, si sta trasformando in un non meno pericoloso corrosivo della tenuta sociale.
La libertà di espressione è e resta certamente un diritto fondamentale, ma la grammatica e la sintassi dell’espressione sono e restano uno dei primi doveri delle istituzioni, che devono farsene carico.
Nessuno pensa a una censura imposta dal padrone di turno, ma certamente l’anarchia delle parole non tutela la libertà né costruisce la responsabilità, ma anzi è preludio, a volte anche ben orchestrato, di pericolosi irrigidimenti del potere.
E sono convinta che la legittimazione silenziosa dell’immunità digitale contribuisce a trasformare un gruppo umano in un branco, dominato dalla pretesa di ciascuno di avere ragione piuttosto che dalla capacità di ciascuno di discutere le ragioni di tutti.






Sono perfettamente d’accordo sull’abbassamento della qualità che della quantità del contenuto informativo che la figura unica dell’influencer in quanto agenzia culturale viene a veicolare al posto di quella scolastica o, per quello che riguarda ad esempio la teologia, di altri apporti più specifici a partire dalla Chiesa. Nella messaggistica sui social si tratta facilmente di un tentativo di imbonimento ignorante che come minimo aggredisce la coscienza utilizzando una mediazione “povera” basata su slogan, di per sé volti più all’ istigazione che alle spiegazioni. Nemmeno mi pare sorprendente che l’assunzione di una mentalità simile possa degenerare nei comportamenti offensivi del branco; devo però aggiungere che su queste pagine non ricordo di avere mai trovato attacchi né alla “Civiltà cattolica” né a padre Spadaro. Diversamente per quanto riguarda le numerose critiche anche sleali e comunque spesso assai poco condivisibili nei confronti di papa Francesco, che d’altra parte finché è stato in vita ha mantenuto con forza la sua linea di pensiero.
Per quello che riguarda i tratti di continuità o di discontinuità presentatati nel proprio magistero dal suo successore a me sembra presto per valutarli, indipendentemente dalle diverse storie personali il confronto con il contesto complessivo ha già dato luogo a problematiche diverse o aggravate le precedenti nei loro sviluppi. (Sostanzialmente mi pare che sul tema dei vari eventi bellici e soprattutto in Terra Santa Leone XIV abbia per ora amplificato il discorso sull’unitaria necessità di pace insistendo sugli argomenti fondanti del continuo richiamo di Francesco nello stesso senso).
Sull’essere contro qualcuno (nella fattispecie Antonio Spadaro) non condivido: nessuno può e deve essere messo alla gogna, nessuno! Sulla necessità di fare un giubileo per chi lavora nel mondo digitale mi sento anche io boomer: non ne vedevo e non ne vedo l’esigenza. Anche perché Cristo non è virtuale, ma reale! Il digitale mi può stimolare ma, poi, Cristo va incontrato nella vita e non su uno schermo! Mi è dispiaciuto che il Papa nel suo discorso non abbia fatto alcuni accenno a riguardo.
Se non sbaglio in realtà ne ha parlato sottolineando l’importanza della “carne”, come faceva Francesco. Da una parte sarebbe più facile commentare le parole dell’attuale Papa con qualche articolo su di lui e non di Perroni che parla di Spadaro criticando Prevost, ma alla fine meglio così un po’ di understatement al Papato farà solo bene..
Concordo molto con l’autrice, fa una fotografia inquietante e lucida dei “medium/messaggeri” digitali. Forse un’imprecisione andrebbe segnalata: Benedetto XVI ha parlato profusamente di un’ermeneutica della discontinuità nella continuità, ribadendo l’anima riformatrice della Chiesa nella storia, senza mai scadere in facili dualismi. Congratulazioni.
Interessante riflessione di Marinella, la quale però ci spiega che parla per amicizia con Antonio Spadaro. Una domanda, al di là di tutte le considerazioni, soffermarsi sul tema dell’attacco no? Il fatto che Spadaro abbia affermato il falso in una copertina di un libro?
Vero, la copertina può dare adito all’equivoco (che sia un’affermazione del falso mi sembra troppo). Non mettere il nome dell’intervistatore è stato per far credere che sia Spadaro stesso . Strategia di vendita della casa editrice a cui l’autore si è piegato? Basta leggere comunque le righe di presentazione (e si spera che un giornalista, anche se proprio non vuole leggere il libro, almeno quelle le legga prima di parlare) dichiarano con chiarezza che “arricchiscono” il testo di Spadaro tre altri pezzi, in quest’ordine: due di Bergoglio e un’intervista inedita al cardinale Prevost (ben precedente quindi all’elezione). Poiché il libro esce domani, non lo ho e non posso rispondere se l’intervista sia anonima, se Spadaro ne dichiari la fonte o, tutto sommato, giochi volutamente sull’equivoco… Bah… Io non lo ho pensato, ma la mia sprovvedutezza non fa testo. Gli insulti, comunque, non sono mai buona merce di scambio!
Mi lascia perplesso questa lunga digressione. Perché non ammettere – e dire – che in molti casi domina l’invidia? Ad esempio nei confronti del gesuita citato: perché non dire chiaramente che le critiche sono dettate dall’invidia, che nasce e si nutre da un certo desiderio di protagonismo del sacerdote stesso? Si tratta di sentimenti umani, molto umani, che nella Chiesa spariscono. Che c’entra?, diranno i lettori e l’Autrice dell’articolo. C’entra, perché è lo stesso meccanismo degli “influencer”: desiderio di protagonismo, di farsi vedere e conoscere, diventare “famosi” per un giorno o un momento. Se non leggiamo questi meccanismi emotivi in profondità, non ne usciamo. Serve una comunicazione del Messaggio coordinata e continuativa, all’interno di una visione globale della comunicazione e del suo significato. Questo sì, su questo sono d’accordo con l’Autrice: uno specifico Giubileo per (pseudo) comunicatori digitali non ha molto senso. Ma cosa ha senso? Un esempio personale. Il Presidente attuale del Dicastero per cui lavoro come responsabile della comunicazione (ancora per poco, per fortuna…) e il Presidente di prima, mica me lo dicevano/dicono se rilasciano interviste. Lo scopro monitorando i media, perché loro non lo dicono, appunto. E dirlo sarebbe in fondo semplice e anche normale, visto che un ufficio stampa ce l’hanno e pagano anche. Allora: di che stiamo a parlare? I massimi sistemi sull’importanza della comunicazione naufragano tragicamente sulle piccolezze della comunicazione stessa che non funziona dentro gli stessi enti cattolici. E se non funziona all’interno, come potrà mai funzionare all’esterno? E si torna all’inizio: non sarà narcisismo digitale e non vero desiderio di annunciare un Messaggio?
Invidia o no, fare una critica a Spadaro per la sua onnipresenza sui media non è un insulto, anzi, se argomentata può essere un critica utile anche a lui. Anche certe trasmissioni televisive sono quotidiane e la “libertà di telecomando” ci salva. Pure io non ce la faccio mai a stare dietro allo Spadaro quotidiano. Seleziono quello che mi può inetressare. Che la sovraesposizione, invece di aiutare la sua immagine, possa lederla, è del tutto lecito pensarlo, dirlo e dirglielo. La questione sono però gli insulti, alcuni aggettivi che lasciano solo trasparire il godimento per l’offesa lanciata. Questo lo trovo preoccupante, ma è il linguaggio che ormai informa la nostra comunicazione social.
A occhio Spadaro da fastidio da qualche mese perchè prima la sua onnipresenza andava benissimo.