
Guardo una trasmissione dal titolo “Cosa si può ancora dire?”. Attorno a un tavolo rotondo, imbandito per una cena e immerso in una luce accogliente, si sono riunite persone che portano con sé esperienze e opinioni molto diverse rispetto alla domanda iniziale: un’attrice che quasi non riceve più proposte di lavoro da quando ha reso pubblico di non credere all’efficacia del vaccino anti-Covid e di rifiutarlo; un infermiere di terapia intensiva, nella cui unità le persone morivano una dietro l’altra nel momento più critico della pandemia; un comico che respinge con decisione l’accusa secondo cui in Germania la libertà di espressione sarebbe limitata; una giornalista che dice di essere, diversamente dal mainstream, piuttosto conservatrice e collocata a destra del centro – e che per questo può accedere a persone che si esprimono al di fuori dei media tradizionali.
Si parla del periodo del Covid, di migrazione, di temi di genere, di autodeterminazione sessuale. Le differenze emergono rapidamente. E penso: potrebbe essere così anche in una delle comunità della mia congregazione. O meglio: vorrei che succedesse così anche nelle nostre comunità. In tutta la durata dei 45 minuti del documentario diventa chiaro: tutti desiderano rimanere in dialogo, nonostante le differenze. Ancor più: ho l’impressione che alcuni evitino di dire certe cose proprio per poter restare nel dialogo, nella relazione. Non si ricorre a punte retoriche lanciate in modo aggressivo. Perché il bene supremo non è la propria convinzione, non è superare, smascherare o inglobare gli altri, ma il vivere insieme nella diversità.
Diversamente dalle comunità religiose, i partecipanti alla trasmissione, terminati i 45 minuti di discussione, possono ritornare alle rispettive vite. Diversi da prima?
Polarizzazioni durante il lockdown
Nel periodo del lockdown vivevo con un confratello che era un classico e convinto negatore del Covid. Le tante bare – naturalmente quasi tutte vuote. L’idrossiclorochina – la cura contro il Covid, comprovata da una lista di oltre cento “studi” in tal senso. Certo, dentro di me scuotevo la testa vedendo come una persona così intelligente potesse perdersi in simili vicoli ciechi. Nemmeno noi ci avvicinammo molto sul piano dei contenuti. Ma non era questo ciò che contava.
La nostra relazione non solo ha superato il tempo della crisi; già durante il lockdown siamo riusciti a rimanere in dialogo. Oggi, a posteriori, il mio confratello dice: «La nostra comune vocazione alla vita religiosa come sacerdoti del Sacro Cuore ci ha aiutato e ha mantenuto viva la nostra relazione».
Io, piuttosto, parlerei di rispetto e interesse per l’altro, e in questo caso concreto anche di simpatia. In generale, la parola interesse ha acquisito per me grande importanza negli ultimi anni. Traduce i termini comunità ed essere insieme su un piano concreto e quotidiano. È decisiva soprattutto nelle relazioni non sorrette dalla simpatia. L’interesse per la vita dell’altro, per le sue gioie e sofferenze, per il suo ambiente familiare, per i suoi hobby, sono elementi di un essere insieme che si dimostrano efficaci nei tempi difficili e conflittuali e che possono evitare una rottura.
«Voglio continuare a camminare insieme a te». Questa frase non deve necessariamente essere detta ad alta voce nei momenti difficili. Ma dovrebbe guidare il mio impegno per la relazione. Mentre la simpatia difficilmente può essere “allenata”, rispetto e interesse possono essere coltivati attivamente e consapevolmente.
La liturgia come intimità conflittuale
Per quasi dieci anni ho vissuto a Roma in una comunità estremamente variegata: tra 50 e 60 confratelli provenienti da circa 20 Paesi. La mia esperienza è questa: se la diversità deve diventare un elemento qualificato della vita comunitaria interculturale, occorrono volontà, tempo e misure concrete per progredire: incontri comunitari, condivisione biblica, gite insieme, serate in cucina, formazione, elaborazione del progetto comunitario annuale, e così via.
Il modo “naturale” e spontaneo di trattare la diversità nei nostri ambienti è piuttosto l’evitarsi o il vivere individualistico. Crescere separati accade quasi da sé; vivere insieme nella varietà è invece un programma – e normalmente un cantiere aperto.
Abbiamo fatto poi un’altra esperienza: nessun ambito è così sensibile come la liturgia. E non si tratta della questione se, oltre all’organo, possano essere utilizzati strumenti provenienti, ad esempio, dall’Indonesia o dal Camerun. Tre o quattro volte l’anno una celebrazione eucaristica con una processione offertoriale danzata, con canti molto più lunghi provenienti dall’India o dalla Repubblica Democratica del Congo – questi momenti raramente generavano conflitti. E quanto era forte la tentazione di congratularci con noi stessi per l’arricchimento offerto dalla nostra diversità interculturale.
No, i problemi e i veri banchi di prova risiedono nella quotidianità liturgica: si possono usare anche orazioni del giorno che non figurano nel Messale? La benedizione eucaristica deve essere sempre impartita con il velo umorale sulle spalle e sulle mani? In un determinato giorno si può sostituire l’Eucaristia con una forma liturgica alternativa? Posso concedere al confratello che mi proponga uno stile di preghiera che non è il mio – e che tuttavia io accetto e sostengo?
L’interculturalità favorisce senza dubbio tali processi di apprendimento. In definitiva, si tratta del modo in cui ci confrontiamo con la diversità, con l’essere-altro proprio nei campi che per me sono sacri.
La resistenza cattolica alla diversità
I cattolici sono, in larga misura, socializzati in modo resistente alla diversità. Nonostante il Concilio Vaticano II, permangono idee di unità – nella dottrina, nella vita religiosa, nella liturgia, ecc. – che tendono a promuovere e richiedere uniformità. Ad alcuni passi verso una unità plurale è stato opposto il sospetto di protestantizzazione.
Ogni comunità (religiosa) vive di slogan identitari che, nonostante le tendenze alla conservazione, devono essere continuamente ripensati e approfonditi. Nella mia congregazione due parole ricorrono: Sint unum (Gv 17,11) – “che tutti siano uno”. Probabilmente non percepiamo che queste parole non sono un comando rivolto ai discepoli, ma la preghiera che il Gesù ormai prossimo alla morte rivolge al Padre.
In molti dibattiti ecclesiali tutto viene percepito come bianco o nero, tutto o niente. Nei testi liturgici, anche nella preghiera più apparentemente insignificante, si tratta di nulla di meno che della redenzione totale, almeno di tutta l’umanità. Quanto al tempo, ovviamente, non meno di “nei secoli dei secoli”, fin dalle lodi del mattino.
Se un minuscolo granello di sabbia argomentativo si insinua nell’ingranaggio della dottrina, l’intero edificio – di solito la redenzione – vacilla. Questo ha favorito non solo una certa scrupolosità cattolica. Quando si tratta sempre del tutto, ogni differenza e ogni confronto con essa viene immediatamente caricato di forte tensione. “Si dovrebbe pur…” è l’inizio di una catena nefasta di messaggi in cui sia i protettori dello stile sia i custodi dell’identità osservano con sospetto ideologico persino il piacere di una tazza di caffè.
Un nuovo modo di ascoltare
Negli ultimi mesi ho fatto più volte esperienza di ciò che talvolta viene chiamato “conversazione sinodale” o “conversazione nello Spirito”, talvolta anche “dialogo dell’ascolto”. Io spero molto che questo modo di stare insieme diventi culturalmente formativo nella Chiesa e oltre. Di più: credo che sia proprio la modalità giusta di ascolto e dialogo nel nostro tempo segnato da molteplici polarizzazioni.
Ciò implica un ascolto plurale: di me stesso, degli altri, di Dio. Richiede inoltre una premessa teologica fondamentale, che diventa palpabile soprattutto nei piccoli gruppi: ciascuno, proprio quello che sta alla mia destra e quella seduta alla mia sinistra, come anche la persona davanti a me, è portatore dello Spirito Santo – al 100%. Proprio come lo sono io.
Ciò che ci unisce non è allora un accordo tematico cognitivo, né un consenso ideologico (come il mio ideale di vita religiosa), ma un legame indisponibile, un dono – con conseguenze molto concrete per il nostro modo di relazionarci.
Alla “conversazione nello Spirito” appartengono diversi livelli di ascolto: la riflessione personale, i piccoli gruppi di ascolto, eventualmente la grande assemblea. Le pause di silenzio servono a dare spazio alla conversione decisiva: da “ascolto l’altro per capire come convincerlo” ad “ascolto l’altro e presto attenzione a ciò che in me viene toccato e mosso”, forse anche verso nuove intuizioni e vedute.
La domanda fondamentale è: riesco a credere che Dio voglia dirmi qualcosa attraverso l’altro – anche quando l’altro ragiona in modo del tutto diverso da me?
Dal consenso all’acconsentire
Dopo che negli anni passati nella nostra comunità molte decisioni importanti erano state prese a maggioranza, rimaneva spesso un sapore amaro. Il termine “voto di battaglia” lo descriveva piuttosto bene: un gioco di numeri e dinamiche di potere, con vincitori e vinti, molto terreno.
Poi è cominciato – parallelamente alla riscoperta della comunità come valore – il faticoso tempo della ricerca del consenso: tutti devono essere coinvolti. Così, tra l’altro, i processi decisionali si prolungano molto e talvolta non portano ad alcun esito.
Adattandosi alla cultura del dialogo sinodale, negli ultimi anni anche negli ambienti ecclesiali si è diffuso il metodo della decisione che accossente. Quando si discute una proposta, non si chiede: “Sono d’accordo?”, ma: “Non ho motivi gravi per oppormi?”. Safe-enough-to-try è il motto. Forse ho alcune riserve sulla proposta. Forse ci sarebbero aspetti da migliorare. Ma non sono così gravi da rendere per me la proposta del tutto inaccettabile. Il latino consentire significa permettere. Non ne sono entusiasta, ma posso permetterlo.
Non senza gli altri
È evidente fin dall’inizio: il tema della polarizzazione nella Chiesa non si colloca in un vuoto sociale – tutt’altro. “Polarizzazione” è oggi candidata, nel dibattito politico e culturale, a essere parola (o non-parola) dell’anno, a seconda del punto di vista.
Chi ama la democrazia considera la polarizzazione un fallimento nella gestione della diversità. Chi simpatizza con le autocrazie, vede nella polarizzazione il trattamento adeguato dell’ambiguità: chi non è con me è contro di me.
Le polarizzazioni in ambito teologico, spirituale e liturgico indicano un fallimento della cattolicità. Nell’immagine della polarizzazione entra in gioco la massima distanza e, soprattutto, la fissazione di posizioni che non permettono alcun movimento – tanto meno un movimento reciproco.
Giustamente Christoph Benke parla della “forza della sintesi” come dinamica originaria del cattolicesimo; che, ben lungi da ogni uniformità, cerca una convivenza differenziata e armonica. Perché questa forma del cattolicesimo possa diventare realtà, le diverse scuole di sinodalità ci offrono numerosi strumenti.
Sostanzialmente significano un cambiamento di cultura, una conversione del nostro modo di relazionarci, nella consapevolezza che una maggiore fede e una maggiore comprensione non nascono dalla perpetuazione e rafforzamento del già-proprio, ma dall’incontro quotidianamente esercitato con l’altro.
Che ciò comporti inizialmente un’esperienza di estraneità non sorprende: alla luce dei vangeli pasquali, è anzi un segno che siamo sulla strada giusta.
- L’autore è superiore provinciale dei dehoniani tedeschi. Prima pubblicazione: Tertünte, Stefan. Polarisierung versus Synodalität, in: Geist und Leben 4/2025, S. 382-387, Echter Verlag Würzburg 2025.






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