Portogallo-abusi: Chiesa e società

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Sulle pagine di SettimanaNews abbiamo informato circa le scelte della Chiesa portoghese in ordine al dramma degli abusi (Abusi nella Chiesa portoghese; Portogallo: rapporto sugli abusi). «In 486 pagine il Rapporto sugli abusi nella Chiesa portoghese raccoglie le violenze sui minori fra il 1950 e il 2022. Dopo un anno di lavoro, la commissione, presieduta da Pedro Strecht, ha identificato 4.815 vittime. Le testimonianze raccolte a livello nazionale sono state 564, di cui considerate valide 512». Quando l’abuso si esercita all’interno di una comunità ecclesiale, importano relativamente le dimensioni del fenomeno; quello che conta è maturare la coscienza delle devastazioni che produce a cascata e assumerne la responsabilità. Anzitutto nei confronti delle vittime, per offrire loro il riconoscimento e il sostegno di cui possano avere bisogno. Abbiamo parlato del Rapporto con mons. Ornelas José Carvalho, vescovo di Fatima e presidente della CEP, per approfondire le scelte di fondo che hanno portato alla costituzione e guidato il lavoro della Commissione indipendente, raccogliere gli echi della presentazione del Rapporto (13 febbraio) e conoscere l’agenda della Conferenza episcopale in risposta.

– Mons. Ornelas, cosa è successo dopo la presentazione del Rapporto sugli abusi e l’assemblea dei vescovi, in particolare il rinnovamento delle commissioni diocesane, la discussione sui preti coinvolti nel Rapporto e la convocazione in Parlamento?

Sapevamo che ci sarebbe stata una certa reazione in occasione della pubblicazione del Rapporto sugli abusi. Noi vescovi eravamo in prima fila durante la presentazione. È stato dato un rilievo molto grande alla testimonianza delle vittime: gradito, ma molto duro. Alcuni lo hanno visto come una forma di spettacolarizzazione o di sfruttamento a scopi mediatici, un’esibizione di cattivo gusto.

Altri hanno temuto che le vittime, ascoltando il racconto delle loro sofferenze, se le vedessero acuire. È stato molto duro, però è stato importante ascoltare anche nei dettagli la testimonianza delle vittime. Molti nella Chiesa ancora non si rendono conto della gravità di quello che succede negli abusi sui minori. È stato un pugno nello stomaco ma credo faccia parte di quel processo necessario a prendere coscienza della gravità di questi abusi.

Nella Chiesa ci sono ancora molti negazionisti, altri che minimizzano.

In via generale, è stato riconosciuto il coraggio della conferenza episcopale e della Chiesa, che, per prima nel Paese, ha condotto uno studio del fenomeno con le impostazioni che ci siamo date.

Il testo del comunicato è chiaro ed equilibrato, anche come programma. Alcuni avrebbero voluto veder cadere delle teste, le dimissioni di qualche vescovo… Non è accaduto niente di tutto questo. Ciò che è accaduto è una ponderazione calma e serena delle responsabilità.

È la natura stessa del Rapporto e del pregevole lavoro svolto dalla Commissione indipendente ad avere permesso questo risultato.

Le commissioni diocesane e un coordinamento nazionale erano state costituite sul finire del 2019, ma le denunce sono state pochissime. Abbiamo capito che difficilmente una vittima si sarebbe presentata a sporgere denuncia là dove in commissione era presente un suo vicino di casa. Le commissioni avranno un ruolo importante, ma non a questo scopo. Già adesso vengono percepite diversamente, ma non sono lo strumento idoneo per censire il fenomeno.

Molte vittime al solo pensare alla Chiesa hanno una reazione di rifiuto. Bisogna comprendere il significato realmente drammatico nella vita di queste persone.

Non c’è altra scelta: se vogliamo andare incontro alle vittime, dobbiamo individuare i modi per accoglierle con dignità e rispetto. La Commissione si è detta fin dall’inizio che i lavori sarebbero proseguiti fin quando si fosse sentita libera di attuare il proprio programma.

Il primo passo: lo studio

Abbiamo posto alla guida della Commissione una persona che ha scelto la propria équipe, gente credibile a livello nazionale, e ha lavorato secondo una metodologia autonomamente definita.

Ora continuiamo il programma deciso nell’Assemblea straordinaria del 3 marzo, al termine della quale è stata convocata una conferenza stampa.

In quella sede la comunicazione non ha funzionato e me ne assumo le responsabilità di moderatore. Le aspettative erano di misure immediate, mentre noi abbiamo dichiarato di volerci riservare un tempo ulteriore per valutare le scelte operative.

Pur nella diversità di opinioni dei vescovi, tutte le decisioni, compreso il comunicato finale e la roadmap, sono state adottate in solido, ma il loro significato non è stato colto dai più. In un’intervista che ho rilasciato al settimanale L’Espresso, ho cercato di chiarire meglio il percorso in programma.

Il 14 marzo c’è stata la riunione del Consiglio permanente alla quale ha fatto seguito un comunicato che è stato accolto positivamente, anche perché preannuncia alcune conseguenze pratiche riguardo alle responsabilità. Ciononostante, l’immagine della reazione della Chiesa al Rapporto sugli abusi non ha ricuperato nei media. Ci vorrà la messa in atto dei provvedimenti previsti, che sono in fase di effettiva organizzazione.

Alcune diocesi hanno già preso misure. 12 preti sono stati allontanati precauzionalmente dal ministero e sono state indicate pubblicamente le diocesi coinvolte. È ormai consolidata una consapevolezza che permette di prendere le decisioni con fermezza.

A monte, prezioso il lavoro svolto negli archivi delle curie diocesane e degli istituti religiosi. È l’espressione più chiara del nostro impegno e della volontà di affrontare il tema. Abbiamo lavorato insieme. Avevamo preparato un questionario e una lista delle indagini da condurre presso i nostri archivi. Hanno fatto un lavoro preziosissimo, grazie anche alla competenza archivistica e storica di chi lo ha condotto, anche se orientato allo studio quantitativo e qualitativo: identificare le costanti del fenomeno, le dinamiche riconoscibili, la condizione delle vittime, i luoghi…

Hanno dedicato molto tempo a ripulire il Rapporto sui casi dagli elementi di identificazione personale. La maggior parte delle testimonianze non riferiscono il nome dell’abusatore, gran parte delle vittime non vogliono essere identificate, tuttavia la Commissione si è data gli strumenti per riconoscere quando la situazione potesse essere giudicata credibile.

Alcuni nomi non ci sono, altri sono morti. Hanno conservato i nomi di persone decedute, perché le vittime sono ancora vive. Non per pubblicarli, ma a conferma che non abbiamo cancellato la memoria.

Dal punto di vista dell’attribuzione di responsabilità, la Procura – alla quale è stato inviato l’elenco – esclude i morti, chiede sia identificata almeno una vittima o chi depone e si prende il tempo di incrociare i dati con quelli già in suo possesso.

Le diocesi più grandi sono in difficoltà, anche perché in molti casi l’identificazione del delitto non è ancora perfezionata.

Ci sono due obiettivi diversi: quello dello studio e quello dell’identificazione dei casi penali. I risultati ottenuti sono il frutto di una collaborazione che sta continuando.

Anzitutto le vittime

– Come intende dare spazio nella Chiesa alla voce delle vittime? Ci sarà un segno pubblico di richiesta di perdono?

Anche nel nostro comunicato la questione delle vittime ha il primo posto. È questione di attenzione, di rispetto e di riconoscimento del male causato. Non dovrebbe essere accaduto da nessuna parte, tanto meno nella Chiesa. Riconoscimento necessario, ma non sufficiente.

Come riconoscimento, si è decisa una memoria celebrativa (20 aprile, a conclusione dell’Assemblea episcopale). Un segno molto chiaro sarà dato alla GMG. Si farà anche un memoriale ancora allo studio.

La cosa più importante è l’appoggio incondizionato alle vittime. È stato affermato fin dall’inizio, benché non sia del tutto passato nell’opinione pubblica, ed è stato ribadito in questi giorni.

Non eviteremo nessuna delle nostre responsabilità. Non possiamo riavvolgere il tempo e cancellare il dolore, però quello che è possibile fare oggi lo faremo. Anche dal punto di vista economico; ad esempio sostenendo le spese necessarie per aiutare le vittime a risanare il proprio vissuto e assisterle nelle loro necessità.

Non imponiamo noi le modalità. Le scelte vengono adottate in collaborazione con le associazioni delle vittime. La costituzione recente di alcune di queste lo leggiamo come riconoscimento della nostra buona volontà e dell’intento di collaborare. Cerchiamo effettivamente ogni modo per venire incontro alle vittime.

C’è stata una polemica sull’indennizzo. È una questione individuale e specifica. Noi però abbiamo assicurato di non volerci sottrarre.

Non possiamo identificare il valore economico di un dolore, ma vogliamo fare il possibile, anzitutto in ordine al riconoscimento del male.

Volontà ecclesiale, collaborazione civile

– Cosa distingue il compito della Commissione Strecht da quello della Commissione francese?

La nostra commissione è stata creata come volontà espressa della conferenza episcopale però nella completa autonomia sia nella composizione sia nella definizione del metodo. Non sono in grado di fare comparazioni.

Anche per quanto riguarda il conteggio dei numeri, ci siamo trovati alla fine che erano di più di quanto riportato, avendo incluso anche i casi identificati da noi stessi, nei nostri archivi e nelle indagini da noi promosse.

C’è sempre stata una  stretta collaborazione con la commissione, nel pieno rispetto dell’autonomia, anzitutto nell’apertura degli archivi, che ha coinvolto tutti i vescovi. Tante norme o cavilli burocratici sono stati superati quando erano di ostacolo all’accertamento della verità. Fare giustizia alle vittime è sempre stato il primo obiettivo.

L’estrapolazione dei numeri – 4.815 casi, se non sbaglio – non è solo un fatto aritmetico, ma risponde alla volontà di ascoltare le vittime. È successo che lo studio di un caso aprisse un varco su situazioni analoghe e collegate (ad esempio, classi di un seminario) impossibili da censire compiutamente.

Ci si è posti la questione del metodo. Il calcolo parte sempre dalla testimonianza dalle vittime e non è un calcolo aritmetico. Non tiene conto di abusi che sono proseguiti per mesi e anni, perché non si è cercato il computo degli episodi, ma anzitutto delle persone.

Dagli episodi al sistema

– Nel Rapporto sugli abusi si parla di “occultamento sistemico” nei confronti degli abusi, ma non di una “questione sistemica” per l’intera Chiesa. È così? Può spiegarlo?

Nel Rapporto si dice chiaramente che, per quanto riguarda gli abusi sui minorenni, la coscienza è recentissima. Prima si riferivano gli abusi al VI comandamento, ma questo non aiuta. La legislazione civile li classificava tra i comportamenti immorali o socialmente inammissibili. La vittima era esclusa. Dall’una e dall’altra parte si considerava soltanto l’immoralità del comportamento: «È venuto meno a un comportamento accettabile». La sofferenza della vittima non era tenuta in conto, anche perché non si conosceva scientificamente l’effetto disastroso che l’abuso ha sul bambino.

L’abuso causa solitamente un’incapacità di parlarne anche con i più prossimi. Il primo occultamento dipende dalle vittime stesse. Alcuni hanno parlato per la prima volta in questa occasione. Alcuni avevano addirittura rimosso l’episodio dalla memoria.

La coscienza della vastità del male è recente. Nell’ordinamento giuridico portoghese si parla delle vittime soltanto sul finire degli anni ’80; la denuncia è diventata obbligatoria solo dopo il 2000 e, per ora, a norma di legge, riguarda soltanto i dipendenti pubblici.

Nella prassi della Chiesa, si considerava l’abuso come infrazione del VI comandamento, si impartiva una penitenza, si assolveva e, per non causare scandalo, si andava oltre. Questo ha di fatto consolidato una forma di occultazione, per difendere l’immagine della Chiesa.

Non si conosceva e non si considerava la difficoltà di superamento delle tendenze. Il fatto era considerato soltanto dal punto di vista morale, come peccato. Non conoscendo le modalità di contrasto delle tendenze, si pensava che lo spostamento fosse sufficiente. Si trattava di un’ignoranza che riguardava la prassi sia ecclesiale sia civile.

Con le conoscenze di oggi non possiamo sottrarci al dovere di una lettura ben diversa e responsabile. Se il segreto degli archivi protegge le persone, non è per nascondere le malvagità, ma per fare giustizia con dignità e adeguatezza alla singolarità di ogni caso.

«È la Chiesa sinodale in cui credo»

– Quali delle raccomandazioni finali ritiene più urgenti?

L’appoggio alle vittime anzitutto. E poi raccomandazioni alla Chiesa circa la formazione, l’organizzazione alla vita ministeriale, l’accompagnamento dei preti che si trovano spesso soli nel ministero.

Sono previste, nelle nostre linee programmatiche, la costituzione di un luogo e una collaborazione professionale per ricostruire le persone in difficoltà. È programmata anche la revisione delle norme in capo alla conferenza episcopale; abbiamo posticipato la pubblicazione della Ratio fomationis nei seminari, in modo da includere le raccomandazioni della Commissione.

Per la formazione, la prevenzione e l’educazione sono molto importanti le commissioni locali. Sono composte e dirette da laici; i preti vi partecipano non come membri ma come consulenti spirituali.

Continua ad avere il suo ruolo una commissione che abbia credibilità verso le vittime, e possa poi accompagnarle con l’aiuto di cui hanno bisogno.

La commissione auspica che qualcosa di simile faccia anche lo Stato. La commissione è stata ascoltata da tre ministri (salute, welfare, giustizia), i quali hanno chiesto che, a livello civile, si faccia qualcosa di analogo a quanto fatto dalla Chiesa.

Non si vuole togliere nulla alla più grave responsabilità della Chiesa, ma il problema non si limita alla Chiesa.

– Come hanno reagito al Rapporto sugli abusi l’opinione pubblica e la politica portoghesi?

Come dicevo prima, c’è stata una delusione in riferimento a quello che è stato percepito dai media. Le cose stanno migliorando. Il Parlamento ha chiesto all’unanimità che lo Stato faccia qualcosa e si aprano canali anche in appoggio alle vittime (a cura del Ministero della salute, ad esempio).

Hanno approvato di chiamare il presidente della conferenza episcopale e altri per riferire in Parlamento. Quando arriverà la convocazione, io ci andrò molto volentieri, per ribadire quanto ci interessa essere parte di questa collaborazione e per trasmettere il tesoro di esperienza.

– Rifaresti tutto?

Non ho dubbi, anche se ci sono molte resistenze nella Chiesa. «Vi siete ficcati in un imbroglio troppo grande… chi paga sono i preti…».

Quello che è successo nella Chiesa non rende ragione dell’enormità del fenomeno nel Paese. Da parte della Chiesa è passato il messaggio che, di fronte a ogni episodio che è successo o succederà, si adotteranno risposte concrete. È una questione che riguarda non soltanto i preti, anche se alcuni preti mi hanno detto: «Mi sento più sollevato». Non vogliamo confondere l’albero con la foresta, ma non vogliamo nemmeno che nessuno si senta inascoltato.

– Il lavoro della Commissione portoghese ha raccolto apprezzamento di parte italiana e internazionale.

Non sono stati tempi facili. La Chiesa portoghese non sarà più la stessa. Sono caduti molti pregiudizi nei confronti della Chiesa, ma ne sorgono altri. Bisogna adesso confermare le intenzioni con le azioni.

Non è tutto, ma anche come vescovi, nella definizione della roadmap, abbiamo capito che il cammino andava fatto e che non sarebbe stato possibile se non fossimo stati uniti e convergenti. Questa è la Chiesa sinodale in cui credo.

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