Vita consacrata: la seduzione dell’eccezionalità

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Le narrazioni sul lato oscuro della Chiesa, quello fatto di abusi, molestie, soprusi, manipolazioni spirituali, psicologiche, espongono e mettono in luce il punto di vista delle vittime nel momento in cui raccontano le dinamiche degli abusi e il dolore subìto. Vicende esposte per lo più secondo una netta polarizzazione tra “vittime” e “aguzzini”.

La narrazione di come vittima e aguzzino possano convivere nella stessa persona, seppur in tempi differenti, è la prospettiva del tutto nuova che si intravede nel racconto autobiografico di Fabio Barbero, Undicesimo non pensare. Anatomia di un plagio nel mondo cattolico, pubblicato di recente dalla Queriniana.

L’autore fu, infatti, per 24 anni (1985-2009) monaco nella “Famiglia monastica di Betlemme dell’Assunzione della Vergine Maria e di San Bruno” dove ricoprì il ruolo di formatore e di vicario del priore generale che, per un periodo, sostituì nel governo della congregazione.

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In realtà, il tema della responsabilità nella gestione del “sistema” –  e non dimentichiamo che ogni “sistema” sociale è un insieme di individui che interagiscono tra di loro e non un’astratta realtà metafisica – è appena accennato e sostanzialmente eluso.

Certo, si riconosce che «per lunghi anni sono stato responsabile di comunità, ho formato tanti giovani a quel sistema che oggi deploro e aborrisco. Ho acquisito tecnica e maestria nel praticare raffinate tecniche di manipolazione della mente e della coscienza… Sono stato un aguzzino? Un aguzzino sa quello che fa, io non lo sapevo… ero complice di un sistema che inoculava la morte a piccole dosi. Ho fatto tutto in perfetta buona fede, con entusiasmo, slancio e passione. Sono stato anch’io un aguzzino?» (p. 145).

Se lui ha agito in buona fede, perché non dovrebbero averlo fatto anche coloro che lo hanno accettato, plagiandolo fin dall’inizio? Perché loro dovrebbero essere plagiatori e lui no?

Pur eludendo un nodo di fondamentale importanza, il testo rimane interessante e meritevole di essere letto in quanto permette di cogliere attraverso una “storia di vita” alcune delle dinamiche istituzionali presenti nella Famiglia monastica di Betlemme e, con molta probabilità, in diversi movimenti e le realtà ecclesiali sorte negli ultimi 50-60 anni. Dinamiche che le rendono simili e, nello stesso tempo, in concorrenza in quanto «ognuno si considera l’unica davvero evangelica, apostolica, figlia del concilio… cristiana» (p. 142).

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Esperienze di vita cristiana che, anche quando si confrontano con la tradizione della vita consacrata e monastica, di fatto la interpretano in modo molto selettivo, in funzione della loro intuizione spirituale e non si fanno problema, in particolare a livello celebrativo, ad assemblare elementi delle più diverse provenienze, purché esteticamente gradevoli.

L’insieme delle dinamiche istituzionali che a Barbero appaiono come specifiche della sua congregazione in realtà richiamano l’analisi sulle “istituzioni totali” che Ervin Goffman propose negli anni ’60. Tipiche, da questo punto di vista, le azioni volte a controllare, rieducare, custodire le persone separandole dal contesto con la giustificazione di proteggerle da una società malvagia/corrotta/ostile, finalizzando il tutto al bene di chi subisce.

Attribuire a plagio, ovvero ad una manipolazione profonda e sistematica, le richieste di entrare e di essere accolto in una realtà totalizzante come può essere la realtà religiosa descritta da Barbero, sembra davvero eccessivo e trova pochi riscontri proprio nella narrazione che egli ne fa.

C’è un punto di partenza che illumina le dinamiche successive: «Sono ancora molto giovane, inesperto, eppure tante cose mi hanno deluso» (p. 34). Deluso per l’impegno politico, per gli ambienti di Chiesa, per l’università e, parallelamente, «quel che manca è l’autenticità» (p. 35).

Non si può, non si vuole essere come coloro che patteggiano con sé stessi, che scendono a compromessi. No, si deve essere “autentici”, ossia pienamente veri nella realizzazione di sé stessi, capaci di dare corpo a un ideale, ad una visione della vita, ma in modo radicale, gettandosi a capofitto e, se necessario, anche tagliando con ciò che si è stati fino a quel momento.

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Di qui l’altro elemento: l’eccezionalità, nitidamente espressa in quell’«avrei voglia di partire per la legione straniera» (p. 35). Se tutti possono essere fanti o bersaglieri, la legione straniera è per pochi, solo per coloro che hanno un fisico e una tenuta psicologica “straordinaria” possono farci parte.

La comunità di Betlemme è – e più ancora sarà per Barbero – la legione straniera dello Spirito. Non è di tutti svegliarsi alle 3,25 del mattino, lavarsi con l’acqua gelida, stare ore in una chiesa gelida dove si può resistere solo se imbottiti in sette maglie, magiare cibi insipidi, pulire fornelli, pavimenti e sbucciare verdure di scarsa qualità, troncare con gli amici, lasciare anche quel direttore spirituale che aveva garantito essere la comunità di Betlemme il «solo posto, oggi, nella Chiesa dove la vita cristiana e monastica è vissuta con autenticità» (p. 40-65).

Una vita dura, esigente, per certi aspetti traumatica, ma che, in compenso, dà identità, appartenenza forte, senso di appagamento, «una certa fierezza – orgoglio forse ci starebbe meglio – di essere chiamato a far parte di una comunità così eccezionale» (p. 52). Appagato dalla consapevolezza che «solo io, tra tutti i miei amici, ho avuto il coraggio di fare una scelta simile. Questo orgoglio mi sostiene nei momenti difficili. L’orgoglio di appartenere ad una élite di tiratori scelti, in prima linea nella lotta della Chiesa» (p. 74). Per cui «mi alzo ogni mattina con la certezza di trovarmi al mio posto, con quella sensazione gratificante di essere riuscito a dare un senso alla vita» (p. 77).

Poi, c’è qualcosa di più sottile e profondo: il fascino, la seduzione, il coinvolgimento estetico. Illuminante è, al riguardo, la descrizione del primo incontro con sr. Marie, la fondatrice, la quale «si avvicina a me. Mi fissa negli occhi. Non riesco a sostenere il suo sguardo che mi entra troppo dentro. Poi con un immenso sorriso di dice: “Mi piacerebbe tanto incontrarla”». (p. 49). Sono occhi di fascino, capaci di attrarre a sé, di creare legami sottili e profondi, vissuti in un contesto dove «tutto è bello, troppo bello, curato alla perfezione» (p. 47) nei tessuti liturgici, nei profumi, negli incensi, nei canti ove affiorano melodie latine, orientali, esotiche.

C’è, nell’azione della Famiglia monastica, come in realtà istituzionalmente analoghe, la capacità di intercettare la domanda di senso spirituale, di armonia, di appartenenza presente in realtà giovanili, certo minoritarie ma significative dal punto di vista della ricerca spirituale, dando una risposta declinata in termini di eccellenza spirituale, creatività pastorale, coraggio nella testimonianza della carità.

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Di conseguenza, il successo vocazionale, in un contesto ove i seminari languono e gli Istituti religiosi faticano sempre più a dare continuità alla presenza sul territorio, viene di fatto vissuto e presentato come il riscontro che conferma la positività della proposta carismatica e istituzionale e la capacità di governo.

Il nodo vocazionale rimane, quindi, centrale in questa fase della Chiesa italiana e vede movimenti e nuove forme (talvolta, specie nel monachesimo, semplicemente “re-invenzioni” dell’antico) capaci di farsi attivamente presenti in quelle realtà di vita cristiana ancora frequentate dai giovani attingendovi nuove vocazioni.

In un tempo di secolarizzazione e di conseguente emarginazione del discorso religioso, è facile cedere alla suggestione di potenza che trasmettono queste realtà ecclesiali che sanno riempire le comunità di persone e di volti giovani, senza più di tanto chiedersi come tali persone vengano accompagnate all’incontro personale con il Signore a attraverso quale formazione teologica e spirituale ciò avvenga.

Che poi, nel tempo, maturino delusioni fino a divenire conflitti, rotture, allontanamenti più o meno traumatici, rivela i limiti di un approccio ove la “straordinarietà” promessa si palesa nel corso degli anni più ordinaria e simile nelle sue dinamiche al “vecchio” modo di agire delle istituzioni ecclesiali.

Da questo punto di vista, un maggior discernimento e accompagnamento ecclesiale del “nuovo” che veniva emergendo avrebbe con ogni probabilità, se non evitato, almeno contenuto il trauma seguito alle rivelazioni sui molti “abusi” realizzati e ridotto quel ricorso a visite apostoliche, commissariamenti pontifici, accompagnamenti capitolari e post-capitolari, scioglimento di realtà precedentemente approvate (e spesso lodate) che, nell’insieme, trasmettono il deprimente messaggio che, mentre le “vecchie” istituzioni declinano, le “nuove” falliscono.

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6 Commenti

  1. Lorenzo M. 30 luglio 2025
    • Lorenzo M. 30 luglio 2025
      • Renata Patti 31 luglio 2025
        • Lorenzo M. 31 luglio 2025
  2. Renata Patti 29 luglio 2025
  3. Silvia 29 luglio 2025

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