Le berte e l’utero in affitto

di:
berta

Foto di Rodolfo Mari su Unsplash

Le Strofadi, o Strivali, sono due minuscole isole incastonate nelle acque del Mediterraneo, a una trentina di miglia dall’isola di Zante e dalla costa del Peloponneso. Lo sguardo, spaziando in ogni direzione, abbraccia distese sconfinate di blu: ovunque mare, cielo, solitudine. Fino a qualche anno fa, Stamfani, l’isola più grande, ospitava un solo abitante, un monaco, unico custode di un antico monastero oggi completamente abbandonato.

Arpia, l’isoletta più piccola – poco più di uno scoglio –, è da sempre disabitata. Qui, lontano dai circuiti del turismo di massa e dalle pretese della civiltà, la natura ha potuto conservarsi incontaminata. Qui, tra gli anfratti e le cavità delle falesie, a primavera nidificano le berte.

Sonorità misteriose

Quando, dopo il tramonto, l’oscurità comincia a scendere, il canto corale delle berte che rientrano ai nidi portando il pasto ai loro pulcini riempie la notte di sonorità misteriose: simile ad un pianto di disperazione o ai vagiti di un neonato, la voce delle berte ha dato vita alla leggenda secondo cui sulle isole Strofadi vivevano un tempo le mostruose arpie, divinità dei venti impetuosi e delle tempeste, dal volto femminile su corpi d’uccello.

Anche il nome scientifico della berta maggiore – Calonectris diomedea –, cela una leggenda: Diomede, mitico eroe dell’impresa di Troia, a guerra conclusa, raggiunse l’Adriatico e le coste italiche, morendo su un’isola disabitata. I compagni, disperati, alzarono lamenti attorno al suo cadavere e la dea Afrodite, che ne ebbe compassione, li trasformò in uccelli marini.

Ancora oggi, sulle isole Tremiti – o Diomedee –, nelle notti estive le berte rinnovano il pianto addolorato dei compagni del valoroso eroe greco.

Uccelli pelagici dotati di una straordinaria capacità di resistenza nel volo, le berte nidificano su isole deserte, lontane dalla presenza umana: in Italia le Tremiti, l’isola di Montecristo, Linosa. Percorrono a volo distanze incredibili sulle rotte migratorie o inseguendo i banchi di pesci di cui si nutrono, e possono restare per settimane intere lontane dalla terraferma.

Ma quando, a primavera, la coppia, reciprocamente legata e fedele al luogo di nidificazione, fa ritorno alla propria isola per deporre il suo unico uovo, la cura del pulcino impone ai genitori di raggiungere il nido quotidianamente per portare il cibo al piccolo.

Così è stato, di anno in anno, per secoli e millenni, per generazioni e generazioni di berte.

A rischio d’estinzione

Oggi le berte, come tanti altri uccelli marini del Mediterraneo, sono a rischio d’estinzione. Dal momento che la pescosità dei mari che circondano le isole in cui nidificano è il fattore decisivo per garantire lo stato di buona salute delle colonie, la sopravvivenza delle berte si vede messa a repentaglio dall’indiscriminata diffusione di pesca a strascico e itticoltura, che incidono sensibilmente sulla riduzione del numero e della consistenza dei banchi di pesce.

Le enormi reti utilizzate nella pesca a strascico catturano in modo indifferenziato e in elevate percentuali crostacei e pesci giovani, di taglia piccola e per varie ragioni non commerciabili, che vengono scartati e ributtati a mare ormai morti; le reti, trascinate sui fondali, distruggono le praterie sottomarine di Posidonia e devastano i sedimenti, liberando in mare e nell’atmosfera enormi quantitativi di CO2; il sovrasfruttamento degli stock ittici e l’inquinamento causato dagli scarichi delle navi da pesca fanno il resto.

Tra parentesi, data l’incidenza elevata del costo del carburante, la pesca industriale si mantiene competitiva sul piano economico solo grazie a massicci sgravi fiscali.

Altra parentesi: lo scorso mese di marzo, mentre in Commissione Europea, nell’ambito del pacchetto “pesca sostenibile”, veniva lanciato un progetto per vietare la pesca a strascico nelle aree marine protette del Mediterraneo entro il 2030, il governo Meloni, nella persona del cognato ministro Lollobrigida, non ha mancato di esternare parole sfavorevoli al piano UE.

Il venir meno del prezioso equilibrio degli ecosistemi marini è legato anche alla inesorabile espansione dell’itticoltura che, mentre impoverisce la biodiversità, impone ai consumatori pesci e crostacei provenienti da allevamenti intensivi industriali.

Negli spazi ristretti delle gabbie dell’acquacoltura le condizioni igieniche precarie portano alla diffusione di malattie infettive e di parassitosi, che vengono combattute utilizzando in modo massiccio antibiotici e prodotti chimici per disinfettare l’acqua. Con buona pace della salute dei consumatori e di tutto l’ambiente marino.

Se poi teniamo conto del fatto che le berte, che di per sé non hanno predatori naturali, in tante isole dove hanno nidificato per secoli vedono la vita dei loro piccoli messa a repentaglio dai ratti, portati dalle navi mercantili e dai conseguenti processi di antropizzazione, non è difficile ricondurre le cause del rischio di sopravvivenza di questa, come di molte altre specie, ad un unico fattore: il fattore umano. Ça va sans dire, benvenuti nell’Antropocene.

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La sesta estinzione di massa

Una nuova era geologica è da poco iniziata: si chiama Antropocene. È un’era geologica caratterizzata dalle irreversibili alterazioni degli equilibri naturali causate dall’uomo e dall’impatto devastante della presenza umana sugli ecosistemi: sovrasfruttamento delle specie, delle acque, del suolo; introduzione di specie invasive, omogeneizzazione della biogeografia, diffusione di pandemie; degrado e perdita di habitat naturali, scomparsa delle foreste, cementificazione; uso indiscriminato e sovradimensionato di fertilizzanti, immissione di gas serra nell’atmosfera, inquinamento; riscaldamento globale; riduzione della biodiversità.

Come ricorda Stefano Mancuso, siamo nel mezzo della sesta estinzione di massa (cf. qui su Settimana News). Nel tempo lungo della storia del nostro pianeta, altre cinque grandi estinzioni si sono verificate. Ma oggi c’è una differenza, e non di poco conto: se tutte le estinzioni precedenti si sono distese in un arco temporale di due-tre milioni di anni (milioni di anni!!!), questa sesta estinzione, provocata da noi Sapiens, si sta consumando nel tempo brevissimo – meno di un battito di ciglia, sul piano geologico –, di pochi decenni.

Nell’edizione 2022 del Living Planet Report del WWF, i dati mostrano un calo medio del 69% dell’abbondanza delle popolazioni di specie di vertebrati – mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci – analizzati, in meno di una vita umana.

Non c’è da dormire sonni tranquilli. Il report ci avvisa in modo molto chiaro: A meno che non conserviamo e ripristiniamo la biodiversità e limitiamo il cambiamento climatico indotto dall’uomo, quasi nessuno degli SDGs (Sustainable Development Goals – obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030) potrà essere raggiunto: tra questi, in particolare, la sicurezza alimentare e idrica, la buona salute per tutti, la riduzione della povertà e un mondo più equo.

Tra le cause che hanno concorso a ridurre in modo esponenziale la biodiversità, che, in natura, è uno dei fattori decisivi per il mantenimento di quella cosa miracolosa che si chiama “vita”, ci sono allevamento e agricoltura intensiva.

Ancora una volta, i dati parlano chiaro: oggi, il 96% dei mammiferi del nostro pianeta sono o uomini o animali allevati dall’uomo; l’85% degli uccelli sono pollame d’allevamento; fra cinquant’anni da mari e oceani scompariranno i pesci, e resteranno solo pesci fabbricati in acquacoltura.

Fabbricare la vita, ovvero la fine della Natura

Da ospite a padrone: è questa la parabola dell’Homo Sapiens, nell’arco dei 300.000 anni della sua permanenza sul pianeta terra. Un padrone che ha fatto della massimizzazione del profitto, spacciato per progresso, il criterio dominante delle sue scelte e che, proprio in nome di questo millantato progresso, si è arrogato il diritto di distruggere e fabbricare la vita a suo piacimento.

Eliminare il selvatico è la mission possibile: la natura piace se e in quanto è addomesticata, sottomessa, sfruttabile – cartolina plastificata in cui godere di paesaggi debitamente turistizzati, merce di consumo sterilizzata e sottovuoto, prefabbricata in allevamenti destinati alla produzione seriale di uova, petti di pollo, latte, pomodori e filetti di salmone.

L’era della vita prefabbricata: questo è l’Antropocene. Ne abbiamo fatta di strada da quando Stephan Ludwig Jacobi, alla metà del Settecento, fecondò artificialmente delle uova di trota. Erano gli anni in cui anche il gesuita Lazzaro Spallanzani, dedicandosi alla confutazione delle teorie sulla generazione spontanea, riusciva a fecondare uova di rana e di rospo e sperimentava la fecondazione artificiale su una cagnetta spaniel.

Da questi primi, rudimentali tentativi sugli animali, in epoca illuminista, alla nascita di Louise Brown, concepita in provetta attraverso fecondazione artificiale e nata nell’ospedale di Oldham, nel Nord dell’Inghilterra, il 25 luglio 1978. Dalle sperimentazioni sul congelamento degli embrioni bovini alla crioconservazione degli embrioni umani. Dall’inseminazione artificiale alla fecondazione artificiale omologa, alla fecondazione artificiale eterologa, all’utero in affitto. Senza soluzione di continuità.

C’è una tragica cecità nell’assumere come questione morale l’utero in affitto, senza riuscire anche solo ad intravedere il profondo legame che salda in un tutt’uno inscindibile il tema della dignità della vita umana e quello della estinzione delle berte – la cecità del moralismo che non vede che le vasche per l’acquacoltura in cui crescono pesci imbottiti di antibiotici e i grattacieli di ventisei piani per l’allevamento automatizzato dei maiali raccontano la stessa storia raccontata dalle surrogazioni di maternità: siamo ormai arrivati alla fine della Natura.

Fabbricare la vita: un’analisi linguistica

La lingua dice sempre la verità, al di là delle intenzioni di chi la usa. Un esercizio di analisi linguistico-lessicale comparativa tra testi che parlano di riproduzione di animali in allevamenti industriali e testi che si occupano di riproduzione umana mette in evidenza come la terminologia utilizzata sia, inequivocabilmente, la stessa – una terminologia legata al concetto di vita non come mistero o come dono, ma come “prodotto”.

Si dice, in questi testi, che gli embrioni possono essere creati, selezionati, utilizzati, inutilizzati, scartati, conservati, che possono essere freschi o crioconservati.

In siti web di cliniche spagnole – in Spagna la fecondazione eterologa è legalizzata dal 1998 – si parla di donatrici selezionate attentamente e di embrioni accuratamente scelti e di ottima qualità. Leggiamo che i frozen embryos, derivati dai residui del processo di sovrapproduzione, possono essere congelati come embrioni di riserva, da destinarsi eventualmente ad usi futuri.

Sospesi nel tempo ghiacciato di un deposito ospedaliero, gli snowbabies possono rimanere ibernati per decenni prima di venire scongelati – il record attuale è di ventisette anni. Cosa ci vieta di pensare che potrebbero essere conservati in stato di ibernazione per secoli, o che potrebbero essere lasciati in eredità a figli o nipoti?

La destrutturazione del processo riproduttivo, iniziata con le trote di Jacobi e la cagnetta di Spallanzani, ha reso fluide le parentele e le ha trasformate in variabili aperte ad ogni genere di manipolazione. Oggi l’etica, divenuta bioetica, si deve misurare con frontiere inimmaginabili fino a pochissimi anni fa. Eppure, la letteratura ci aveva avvertiti per tempo.

berta maggiore

Spalanzani

L’uomo della sabbia (Der Sandmann) è un racconto di E.T.A. Hoffmann datato all’anno 1815; protagonista del racconto è il giovane Nathanael, innamorato perdutamente di Olimpia, una ragazza bellissima e perfetta, che, in realtà, è un automa, una bambola meccanica costruita da un certo professor Spalanzani. Il nome di questo personaggio vuole essere, evidentemente, un chiaro riferimento al sacerdote emiliano considerato il padre della fecondazione artificiale.

Il professor Spalanzani di Hoffmann e il dottor Frankestein di Mary Shelley, protagonista dell’omonimo romanzo scritto nello stesso torno d’anni, sono espressione delle paure nei confronti della pervasività della scienza che cominciavano a prendere forma in età romantica. Spalanzani e Frankestein raccontano il sentimento di angoscia provato dall’uomo di fronte a una scienza che stava spingendo il suo desiderio di emulazione della Natura fino alla volontà di porre fine alla Natura stessa.

Ma se, nella finzione letteraria di Hoffmann e di Shelley, la volontà di potenza degli scienziati, il loro farsi arbitri e artefici della vita e della morte, lambisce e sfocia nelle zone oscure della follia, la storia di oggi ci dice che quella volontà di potenza è ormai divenuta quotidiana normalità.

I greci, ascoltando il canto notturno delle berte, avevano immaginato creature prodigiose e divine – monstra. Monstrum, dal verbo monere, è il monito – la parola, l’accadimento, la presenza – che ci ammonisce, che ci dà degli avvertimenti, che ci indica di avanzare con cautela: non ciò che fa orrore, ma ciò che non posso permettermi di assoggettare e sottomettere alla mia volontà, ciò che mi intimorisce e mi incute un sacro timore.

Arpie e sirene, e i compagni di Diomede trasformati in uccelli marini, raccontano una relazione con la Natura nutrita di rispetto, consapevole della presenza di un’alterità portatrice in sé di un seme divino.

Mentre per noi la finestra di opportunità per ripristinare la relazione con la Natura si va restringendo sempre di più, mentre il tempo a nostra disposizione si sta facendo sempre più limitato e ogni giorno che passa il cambio di paradigma e l’inversione di rotta si fanno sempre più difficili, cosa ci resta ancora da sperare?

Forse soltanto che una radice di gramigna, aggrappata ad un po’ di polvere in una crepa dell’asfalto, tenga viva la Vita quando l’uomo l’avrà del tutto annientata.

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6 Commenti

  1. Gian Piero 3 maggio 2023
    • Anima errante 4 maggio 2023
  2. Antonio Cecconi 3 maggio 2023
  3. Salfi 3 maggio 2023
  4. Giorgio Vivoda 2 maggio 2023
  5. Maria Luisa Fappiano 2 maggio 2023

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