Jon Fosse, Nobel per la letteratura

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Parlare di letteratura, in questi giorni segnati ancor più del solito dal sangue su diversi fronti su scala internazionale, può apparire un esercizio inutile, fuorviante e persino fuori sincrono rispetto allo spirito del tempo.

Eppure, scrivere vuol dire in primo luogo cercare di mettere ordine al caos che regna nel mondo; e sforzarsi di farlo, inoltre, con armi deboli: il linguaggio scritto (e potenzialmente letto), parole ben dosate, un uso sapiente degli spazi bianchi e delle interruzioni del discorso.

E, dato che ogni testo letterario – poetico, romanzesco, teatrale – è un’opera aperta, esso richiede inevitabilmente la collaborazione dei lettori, il loro porsi in gioco, disposti a loro volta a farsi leggere da quel testo: che così si rinnova continuamente, quando qualcuno ne assume la scommessa di fondo.

È questo intreccio miracoloso che giustifica l’occuparsi ancora di letteratura, dicendo, fra l’altro, la gioia di poter celebrare il premio Nobel di quest’anno, assegnato allo scrittore, poeta e drammaturgo norvegese Jon Fosse: va detto, a differenza di quanto è accaduto altre volte, registrando un consenso unanime per il suo riconosciuto valore letterario.

Fosse, infatti, è uno dei maestri della letteratura scandinava e autore sia prolifico sia poliedrico, quanto mai emblematico della scena teatrale contemporanea, tanto da essere definito il «Samuel Beckett del XXI secolo».

Tratti di vita

Di carattere schivo e appartato, è nato nel 1959 a Haugesund, un piccolo villaggio sulla costa occidentale norvegese, e cresciuto a Strandebarm, sullo spettacolare fiordo di Hardanger, dove in gioventù ha suonato diversi anni la chitarra in una band, e si è laureato presso l’Università di Bergen in letteratura comparata.

Da allora ha iniziato a darsi a tempo pieno alla scrittura, insegnando a lungo all’Accademia di scrittura di Hordaland, e oggi vive a Oslo, in una residenza concessagli dal re di Norvegia per i suoi meriti letterari.

Fra le motivazioni dell’attuale riconoscimento, concesso «per le sue opere teatrali e la prosa innovativa che danno voce all’indicibile», c’è una produzione «che abbraccia una varietà di generi ed è costituita da una ricchezza di opere teatrali, romanzi, raccolte di poesie, saggi, libri per bambini e traduzioni».

Tradotto in quaranta lingue, in particolare vanno segnalati i suoi testi teatrali, messi in scena in tutto il mondo, grazie ai quali si è affermato come autore di opere intense che danno voce, con lucida analisi, al disagio comunicativo esistente fra gli uomini e le donne del nostro tempo, fra figure di età diverse e spesso disunite da vincoli familiari in crisi, o fra soggetti vivi e ombre di scomparsi.

In Italia, tra i suoi romanzi, sono stati tradotti da Fandango Melancholia (2009, dedicato al pittore ottocentesco Lars Hertervig e alla sua incapacità di vivere) e Insonni (2011, favola moderna dai toni agrodolci); più di recente, è stata La nave di Teseo ad avviare la pubblicazione dei primi due volumi della sua Settalogia (nel 2021 e quest’anno).

Nella mia scrittura c’è pace

In occasione del Nobel, la maggioranza della critica ha ripetuto come un mantra che la caratteristica più rilevante dell’opera di Fosse sarebbe la sua capacità personalissima di dare voce all’indicibile e di custodire il mistero: principi che – a ben vedere – stanno alla base di due esperienze chiave della vicenda umana, accomunate dalla loro assoluta gratuità, la preghiera e la poesia.

Una sottolineatura non secondaria, in riferimento alla storia personale di Fosse: nel 2012, infatti, egli si è convertito al cattolicesimo, e ciò si è inevitabilmente riversato sulla sua opera. «Sento che nella mia scrittura – ha detto al riguardo in un’intervista al New Yorker c’è una sorta di riconciliazione. O, per usare una parola cattolica o cristiana, di pace»; e ancora: «La Chiesa è l’istituzione più importante, a mio avviso, della teologia anticapitalista. La letteratura e l’arte sono un’altra istituzione, ma non sono forti come le chiese».

Nei Saggi gnostici (Cuepress 2018), redatti fra il 1990 e il 2000, del resto, già scriveva, in un passaggio chiave e decisamente ispirato:

«Almeno per me, esiste un nesso, per esprimermi un po’ imprecisamente, fra ciò che altri provano in diverse congregazioni religiose (c’è pure chi afferma di provare certe esperienze nella natura), e quel che io stesso posso provare quando scrivo; in altri termini, è la scrittura che mi ha aperto la prospettiva religiosa e mi ha trasformato in una persona religiosa, e alcune delle mie esperienze più profonde possono, come ho compreso a poco a poco, essere definite esperienze mistiche. E queste esperienze mistiche sono connesse alla scrittura. Per quanto mi riguarda, né ciò di cui ho fatto esperienza della vita né ciò di cui ho fatto esperienza della morte mi ha smosso dal mio tranquillo ateismo; la scrittura invece l’ha fatto, giorni e anni di scrittura, giorni e anni totalmente a confronto con lo scritto; nei momenti felici, non a confronto, ma dentro lo scritto. È la scrittura che mi ha trasformato e ha dissolto la mia riprovevole certezza, sostituendola con un’umile sicurezza di essere consegnato all’altro e nelle mani di quel ch’è altro. Ciò che io sono, io stesso, è quindi un io nella condizione della grazia dell’uno e di quel ch’è altro».

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