
Potente è la metafora rinascimentale e, soprattutto, di Giordano Bruno dell’ombra. Il regno delle ombre non è l’Ade, bensì il nostro, sospesi tra le tenebre dell’ignoranza e la luce della sapienza e del divino.
Bruno, nel dialogo De gli eroici furori, ripropone una versione del mito classico di Atteone: egli, cacciatore sagace ed espertissimo, arriva a scorgere in un anfratto la sagoma nuda di Diana, dea della caccia. Non Apollo, suo fratello gemello, bensì un riflesso incarnato di lui. La bellezza di lei come incantevole ombra della sapienza apollinea. La dea si sente violata e lo punisce trasformandolo in cervo, sbranato dai suoi stessi cani, i volitivi mastini e i fini veltri. Il cacciatore, dunque, diviene preda: ha in sé, specie dopo la visione di Diana (che pure, da cervo, non può condividere con alcuno), ciò di cui era alla ricerca.
Attenzione, però: la dea vive a sua volta in una dimensione umbratile, come gli umani. E la luce stessa resta una metafora. Atteone, per certi versi, è divorato dalle metafore, da similitudini (prive del secondo termine di paragone). Apollo, Artemide, il furioso Atteone possono rappresentare, questo sì, delle cifre del divino, come direbbe Karl Jaspers. Una sorta di segni. Ma non coincidono con esso.
In realtà il Dio biblico, l’unico che io conosca, non si fa afferrare proprio in quanto totalmente altro. E il “totalmente” non suoni eccessivo. Un Dio altro da noi non vuol dire soltanto diverso, né tantomeno estraneo. È però un Dio che non si lascia catturare neppure dalle nostre metafore. Il “gioco” rinascimentale e bruniano di luce e penombra ben rende la condizione umana, certo, ma non quella divina.
Descrive i nostri affanni, i nostri tormenti, la nostra interminabile ricerca, non il mistero di un Dio che, pur nella sua umanità, anzi: proprio in essa, è rispetto a noi totalmente altro. Un Dio che non ci è dato codificare; con il quale, piuttosto, ci possiamo relazionare. Innanzitutto attraverso la Parola. E le nostre prove di dialogo con Lui si nutrono principalmente di silenzi, di silenzio. Ed ecco risuonare la lezione inimitabile di André Neher. Secondo le Scritture, del resto, la voce di Dio si dà “in un sottile mormorio del silenzio”, né è lecito a noi umani farcene immagine alcuna.





