
C’è un rischio in agguato alle spalle di ogni atto comunicativo – si chiama «fraintendimento». Per mettersi al riparo da questo rischio, l’emittente che attiva la comunicazione deve affinare il più possibile le arti della chiarezza, mentre il ricevente, cui la comunicazione è destinata, è chiamato a rinforzare le competenze di analisi e a percorrere con onestà un tragitto interpretativo che non agisca meccanismi proiettivi.
Se nella comunicazione faccia a faccia la comprensione, da parte del ricevente, degli intendimenti dell’emittente è supportata e facilitata da elementi non verbali quali l’intonazione della voce e la gestualità, ma anche dalla conoscenza stessa di chi sta parlando, della sua vita e della sua storia – , la comunicazione scritta paga dazio ad una maggiore complessità delle operazioni di codifica e decodifica del messaggio.
Torno su un mio articolo pubblicato qualche giorno fa su SettimanaNews, giacché diverse fra le reazioni suscitate mi sembrano aver almeno in parte frainteso la provocazione in esso contenuta.
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Uso con intenzionalità il termine «provocazione», perché in uno dei commenti sono stata definita, con simpatia mi pare, una donna cristiana «provocatrice»; non mi ero mai pensata in questi termini, ma – e ringrazio chi ha scritto quel commento – ho meditato sulla parola e mi ci sono ritrovata: pro-vocare significare «chiamare fuori, chiamare in avanti», e se quello che scrivo può essere un piccolo contributo a portare avanti pensieri e a stimolare riflessioni, sono contenta.
Su cosa volevo dare il mio contributo di pensiero nell’articolo dedicato alla grammatica come testimone inattendibile? Il titolo dell’articolo lo dichiarava in modo esplicito: volevo comunicare una mia riflessione in merito al fatto che la grammatica non può essere considerata un testimone affidabile quando, laddove la pluralità è definita utilizzando il maschile, si fa ricorso (anche) ad argomenti grammaticali per sostenere l’assenza di presenze femminili. Tutti, infatti (tutti… maschile inclusivo!), sappiamo che è consuetudine e norma, nella nostra come in tante altre lingue, classiche comprese, che il femminile non venga esplicitato ma sia ricompreso nel cosiddetto maschile inclusivo o sovraesteso.
La lunga divagazione tra i verbali dei consigli di classe aveva, dunque, l’intenzione di spiegare proprio questo. Non so se è perché mi sono spiegata male io o perché cogliere il senso di uno scritto alla luce del fulmen in clausola chiede di saper ritornare sul testo nella prospettiva del suo percorso complessivo, non limitandosi ad un singolo passaggio, fatto sta che quello che voleva essere un invito a destrutturare alcune categorie di precomprensione grammaticale nell’approccio ai testi evangelici è stato frainteso come una battaglia a favore dello schwa – benché non dello schwa io volessi parlare, né del politically correct del linguaggio ecclesiale, né, tanto meno, delle volpi maschio o del fatto che se dico alberi includo anche le palme.
Ringrazio chi, nei commenti, ha citato Marinella Perroni e il suo intervento al Centro di Informazione Biblica di Carpi del 25 febbraio 2024 – parole illuminanti a dimostrazione di come la grammatica, la filologia e uno studio consapevole dei testi possano diventare potenti strumenti di liberazione del pensiero[1].
Nel mio percorso personale ha contato molto la lettura di In memoria di lei di Elisabeth Schüssler Fiorenza, un’opera che mi ha aiutato a ripensare dal profondo le categorie con cui per anni ho letto e ascoltato interpretazioni del testo biblico. Questo libro mi ha fatto conoscere l’ermeneutica del sospetto – l’attitudine a subspicere, a guardare sotto la linea del visibile e della superficie dei testi, per cogliere il sottinteso, il sottaciuto, il mistificato, per riconoscere i meccanismi di silenziamento, di arretramento sullo sfondo, di distorsione e annullamento delle presenze femminili. Meccanismi che le operazioni letterarie e storiografiche da sempre hanno messo e ancora mettono in atto, quando si parla di donne.
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Tra la storia che c’è o che c’è stata, e la storia che si racconta, il differenziale vira tutto a sfavore delle donne.
Tante volte, a commento delle pagine evangeliche dedicate alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, ho ascoltato omelie in cui il sacerdote non ha mancato di sottolineare come i testi evangelici, nel momento in cui indicano il numero di cinquemila uomini (in greco ἄνδρες, cioè uomini maschi, non ἄνθρωποι, maschile sovraesteso) senza enumerare le donne, sono specchio fedele della mentalità del tempo: dal momento che a quel tempo le donne non contavano nulla a livello sociale, contarle non aveva senso e men che meno aveva senso raccontarle.
Matteo, invero, parla anche delle donne e dei bambini, che però non conta – Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini/ ἄνδρες, senza contare le donne e i bambini (Matteo 14,21) –; ma negli altri Vangeli donne e bambini, depennati con l’inesorabilità del silenzio, scompaiono brutalmente dalla trama narrativa, inghiottiti nell’insignificanza:
Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini/ ἄνδρες (Marco 6,44)
C’erano infatti circa cinquemila uomini/ ἄνδρες (Luca 9,14)
Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini/ ἄνδρες (Giovanni 6,10)
Ora, mi chiedo. Se, a partire da questo lavoro di lettura consapevole dei testi che ci permette di andare oltre il pedissequo omaggio alla lettera grammaticale, siamo in grado di ricostruire la compagine variegata, per genere e per età, della folla che seguiva Gesù, perché davanti alla narrazione di quelli che sono considerati momenti costitutivi, e quindi istituzionali, del cristianesimo, un approccio ermeneutico che restituisca visibilità alla presenza delle donne viene bollato di eresia o, al meglio, considerato ideologico?
Ma, capisco. Dopo tutti questi secoli in cui le precomprensioni, non solo grammaticali, ci hanno portato a leggere i testi – e di conseguenza a declinare la vita ecclesiale – in quel certo modo, è molto più semplice restare nella comfort zone de «I dodici Apostoli, quelli che parteciparono all’Ultima Cena quando è stata istituita l’Eucarestia, erano tutti uomini». Maschi, naturalmente.
[1] Intervento di Marinella Perroni al Centro Informazione Biblica di Carpi, 25 febbraio 2024 (YouTube)






http://www.laici.va/content/laici/it/sezioni/donna/recensioni/pietro-e-maddalena–il-vangelo-corre-a-due-voci.html
Mi sono ricordata di un libricino che aveva consigliato Bergoglio nei primissimi tempi del suo pontificato. Al netto della tesi dell’autore (più o meno condivisibile) analizza tutte le voci femminili presenti nel Vangelo.
https://www.giuntina.it/catalogo/schulim-vogelmann/le-matriarche-108.html
Anche questo testo di una studiosa ebraica è molto interessante, pur se dedicato all’antico testamento. Poi uno può trarne le proprie conclusioni, ma non mi sembra corretto lasciare intendere che la presenza femminile nella Bibbia sia tenuta nascosta da artifici grammaticali. Le donne ci sono, giocano spesso un ruolo chiave (pensiamo all’audacia di Rut e Noemi) .
Comunque posso dire? grazie che l’ha aiutata la lettura di una femminista storica, è come dire che se leggo Marx divento marxista o se leggo i Chicago boys divento liberista. Al massimo bisognerebbe trovare un aggancio più solido alla propria teoria al di fuori di testi che prevedibilmente la appoggiano, pena cadere in un cortocircuito fideistico.
Nel vangelo non mancano certo le figure femminili espressamente citate, Maria, Elisabetta, Marta, le donne che accorrono al sepolcro. Perchè si parla espressamene di donne e non si utilizza un più generico maschile sovraesteso in quel caso?
Lei continua a lavorare in modo ambiguo sulla questione; bastava citare, come dicevo commentando l’altro contributo, Lc 8,1-3. E invece no…
La mia domanda resta: a che fine tutta questa tiritera?
È un modo per argomentare contro Ordinatio Sacerdotalis (tanto per dirla “papale papale”)?
Infatti, rasoio di Occam, a che serve introdurre una spiegazione che complica la lettura quando quella semplice (le donne quando compaiono sono espressamente citate) è sotto gli occhi di tutti?
Molto interessanti entrambi i contributi, grazie.