L’esecuzione penale: dalla colpa alla persona

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carcere

Il 26 luglio 1975 veniva approvata la Legge n. 354, che definiva le Norme sull’Ordinamento penitenziario. In occasione del cinquantesimo anniversario della Legge, sono stati organizzati numerosi convegni con l’obiettivo di richiamare i principi di civiltà che lo fondano e, nello stesso tempo, constatare le inadempienze in capo alle diverse figure istituzionali. Riportiamo l’intervento del cappellano della Casa circondariale di Bologna proposto, in forma ridotta, durante il convegno organizzato dal Provveditorato dell’Emilia-Romagna, il 5 novembre scorso.

Da prete, obbedisco al comandamento, l’ottavo secondo la tradizione catechistica, che mi ingiunge «Non pronunciare falsa testimonianza» (Es 20,16). Da cittadino rispondo all’art. 372 del Codice penale che considera un reato doloso la falsa testimonianza.

Verrebbe da pensare che si dovrebbe arrestare in flagranza di reato chiunque afferma che «più carcere e più carceri uguale più sicurezza»: è una testimonianza dolosamente falsa, al riparo dall’art. 372 perché non viene resa in deposizione. I dati della recidiva lo confermano.

E, comunque, da prete e da cittadino propendo per un uso molto prudente dell’arresto. A me vengono i brividi ogni volta che spengo il computer, quando mi avverte «arresto il sistema». Ma ha ragione, perché è il «sistema» che dovrebbe essere «arrestato» per impedirgli di danneggiare la società.

Sarò ancora più prudente, perché come cappellano faccio parte del «sistema». Un sistema che l’Ordinamento penitenziario voleva non tanto «umanizzare» quanto «civilizzare», cioè rendere intelligentemente rispondente al dettato civile della Costituzione.

Deluderò forse le attese dei più, ma, da cappellano, non mi interessa appendere crocifissi nelle celle e tantomeno nelle aule; non mi interessa cospargere di acqua benedetta le chiavi che chiudono e nemmeno quelle che aprono. A me interessano le persone, dall’una e dall’altra parte del blindo.

Al centro sono le persone, non il sistema, nonostante i ripetuti tentativi – l’ultimo la Circolare del DAP del 21 ottobre – di centralizzare il sistema.

Come della salute ci si occupa al di là di ogni considerazione di merito, così della persona ci si prende cura per il semplice fatto che c’è, a prescindere dal fatto che l’ha portata in carcere.

L’art. 26 dell’Ordinamento penitenziario chiede al cappellano di occuparsi dell’«assistenza spirituale» delle persone detenute, qualunque sia il credo nel quale si riconoscono, e anche di chi in carcere presta servizio professionale.

Ogni spirito è però vivo in un corpo. L’assistenza dovuta sarà perciò a tutta la persona, pena l’inefficacia.

Un di più di umanità: speranza

Rispondendo al dettato della nostra bella Costituzione, la funzione del carcere come forma più comune della pena, è «quella di contribuire alla trasformazione degli individui, e in questo senso… è richiesto un dipiù di “umanità”», non solo agli operatori del carcere, ma a tutta la società.

Il mio contributo di cappellano non è quello di aggiungere il sacro all’umano, piuttosto quello di collaborare perché sia rispettato, custodito e alimentato il sacro che c’è nell’umano. È questo il dipiù di umanità.

Il mio contributo di cappellano non è nemmeno soltanto quello – peraltro nobile – di lenire la sofferenza della reclusione.

Papa Francesco, a Regina Coeli, ebbe a dire: «Non si può concepire una casa circondariale come questa senza speranza. Qui, gli ospiti sono per imparare o fare crescere il “seminare speranza”: non c’è alcuna pena giusta – giusta! – senza che sia aperta alla speranza. Una pena che non sia aperta alla speranza non è cristiana, non è umana! … Seminare speranza. Sempre, sempre. Il vostro lavoro è questo: aiutare a seminare la speranza di reinserimento, e questo ci farà bene a tutti. Sempre. Ogni pena dev’essere aperta all’orizzonte della speranza».

Un carcere prevalentemente afflittivo non è né civile, né umano e nemmeno «italiano», perché non risponde a quanto abbiamo sottoscritto nel patto fondamentale della nostra cittadinanza.

Da prete, dovrei conoscere meglio le parabole, ma permettetemi un’iperbole. L’etimologia greca delle parole «diavolo», «diabolico», indica qualcuno o qualcosa che divide.

Trovo che un’amministrazione della giustizia ignorante l’Ordinamento Penitenziario porti in sé qualcosa di diabolico, qualcosa che la divide, che la rende schizofrenica quando si prefigge di educare al futuro, ma è ingessata sul passato, quando ha per obiettivo il reinserimento e lo persegue con l’isolamento, è chiamata a favorire l’inclusione e vuole assolvere il compito attraverso l’esclusione e la reclusione.

Non si può camminare in avanti guardando indietro. Non si costruisce futuro limitandosi a sentenziare il passato. Certo, il passato criminale è pesante e nessun futuro può essere fondato senza tenerne conto. In questo senso, la giustizia se non è riparativa in ogni sua forma non è giustizia.

Un carcere prevalentemente punitivo risponde a logiche di vendetta che contraddicono il nostro senso civile e, peraltro, non possono né vantare né promettere maggiore sicurezza per tutti.

Rispondere al male infliggendo altro male non risponde alla vocazione alta della giustizia e rinforza il circolo vizioso del male.

E non risponde nemmeno al grido delle vittime, che soltanto la logica perversa dell’audience e del consenso elettorale svilisce in sete di vendetta. Le vittime sono d’animo ben più nobile delle nostre narrazioni semplificatorie e domandano umanità, non disumanità.

L’esecuzione penale non ha di mira la colpa, ma la persona. L’esecuzione penale vuole rendere giustizia alle persone, non giustiziare le persone. E nessuno può venire identificato con la propria colpa né col proprio passato. Vocazione del carcere, come di ogni altra istituzione (scuole, ospedali, tribunali…), è quella di «mantenere viva la speranza rafforzandone il fondamento».

A questa speranza mi sento chiamato come cappellano, insieme ad altri due contributi.

Un modello di relazione gratuita

Primo: l’offerta di un modello di relazione gratuita.

A partire dal radicamento della mia fede nell’esperienza di sapersi amati per il semplice fatto di esistere, prima e dopo ogni fatto, vado incontro alle persone, in qualunque condizione e senza alcuna condizione.

Molte delle persone che incontro in carcere hanno conosciuto, spesso dall’infanzia, relazioni strumentali: vali per quello che mi dai e se non mi dai niente non vali niente.

Quando riesco a farmi credere nel dire che sono lì soltanto «perché mi interessi tu», senza altri interessi, vedo un effetto dirompente.

Sono cappellano di una Chiesa alla quale posso appartenere non perché giusto, ma proprio perché peccatore e amministro un sacramento – quello della confessione – nel quale il riconoscimento della propria colpa è condizione necessaria e sufficiente per essere assolti.

Promuovere l’accoglienza

Secondo contributo: incoraggiare la comunità cristiana e civile all’accoglienza.

Una pena che vuole soltanto punire la colpa è uno spreco di risorse e di umanità, perché non rende migliore né chi la subisce né chi la impone.

Solamente passando dal dito puntato contro la colpa alla mano tesa per l’assunzione di responsabilità vale la «pena» di limitare la libertà per portare a rivedere il proprio passato.

Non è saggio né utile scaricare tutto sul carcere, tanto meno pensare il carcere come una discarica sociale. La cultura dello scarto è una cultura de-sperata. Altrettanto, un carcere che scarica la tutta la responsabilità sul colpevole, lasciandolo da solo, non aiuta né il condannato né il popolo italiano, in nome del quale è stata emessa la sentenza, ad assumersi la responsabilità di costruire un futuro responsabile. Possibile solo insieme.

Da discepolo di Gesù so bene che non mi salvo da solo e ricevo la salvezza come un dono. Da cittadino di questa Bella Italia sono certo che nessuno si salva da solo. Non chi ha sbagliato senza di noi, ma nemmeno noi facendo a meno di loro.

Non mi riconosco in sentenze di condanna, pronunciate in nome del popolo italiano, che «scaricano l’intera responsabilità» sul condannato. Mi sento parte di un popolo maturo che, nel momento in cui priva un suo cittadino della libertà, si assume la responsabilità di porre le condizioni perché quel cittadino possa tornare libero nella società, cioè capace di assumersi la responsabilità con me del bene comune. Speranza per lui, speranza per noi.

L’Ordinamento penitenziario vuole dare fondamento e spessore alla dignità dei colpevoli e al benessere degli innocenti, perché l’una non va senza l’altro, né il secondo a discapito della prima.

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3 Commenti

  1. Fabrizio M. 16 dicembre 2025
  2. Davide 14 dicembre 2025
  3. Luciano Maiano 13 dicembre 2025

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