Il diritto penale cattolico

di:

libro VI

In un post a cui rimando qui, dedicato alla “riforma” del Libro VI del Codice di Diritto Canonico, Umberto del Giudice ha puntualizzato una serie di questioni che meritano di essere riprese, una per una, perché riguardano non solo il tema della legge penale canonica, ma anche una serie di evidenze teologiche ed ecclesiali di prima importanza.

Riprendo i punti fondamentali del suo discorso e cerco di approfondirli sul piano sistematico.

Le premesse storiche

La prima osservazione riguarda una duplice premessa necessaria a comprendere il nuovo testo e le sue ragioni. Anzitutto l’iter recente, degli ultimi decenni, che già poco dopo il nuovo codice del 1983 richiedeva una “sistemazione” di alcuni capitoli e titoli, che risultavano problematici. Per questo una “sinossi” degli 89 canoni che compongono il libro VI può essere illuminante sulle soluzioni adottate e sui criteri sistematici utilizzati per l’adattamento.

Tuttavia, e in secondo luogo, la valutazione del testo del 2021 non può avere come “criterio” solo il testo del 1983, ma anche quello del 1917 e persino la tradizione precedente. Come è accaduto per “Amoris Laetitia”, per apprezzarne il testo non si può fare riferimento soltanto al suo omologo precedente (in quel caso a Familiaris Consortio), ma a tutto il magistero tardo-moderno (da metà ottocento in poi), così è necessario anche per la tradizione penale, dove alcuni “riflessi condizionati” della tradizione ottocentesca sono ancora radicati ed efficaci.

Primo fra tutti la ossessione per la “autonomia”. Come vedremo, è proprio questa autonomia a bloccare ogni vera riforma al servizio dei “fatti nuovi”. D’altra parte, come ho cercato di chiarire in un post precedente, una delle evidenze dell’”antimodernismo” che ha ispirato il Codice del 1917, è la radicale opposizione alla convinzione “liberale” con cui si afferma, secondo la formulazione del Sillabo del 1864, che “Il diritto consiste nel fatto materiale; tutti i doveri degli uomini sono un nome vano, e tutti i fatti umani hanno forza di diritto” (59).

Per opposizione a questa lettura esasperata e caricaturale del liberalismo, la irrilevanza dei “fatti umani” diventa una delle cause della nuova cecità a proposito degli abusi. E non se ne esce, se non si modifica il principio di autonomia del diritto dai fatti – che corrisponde, storicamente, alla autonomia anche “penale” della Chiesa dallo Stato. Principio non certo infondato, ma che in determinati casi, quando venga esasperato, diventa limite grave, per non dire motivo di scandalo.

Lessico e canone

Un secondo aspetto, che la lettura sinottica offerta da Umberto Del Giudice ci permette di comprendere, è che la rivisitazione dei testi dal can 1311 al can 1399 ha introdotto nuove terminologie quasi soltanto a livello di “titoli”, ma poco ha inciso su ciò che per il diritto penale è decisivo: sanzioni e procedure di garanzia.

Certo, se l’abuso commesso da un chierico o da un religioso o da un laico viene compreso ora nella categoria dei “delitti contro la vita, la dignità e la libertà persona”, anziché in quella dei “delitti contro obblighi speciali “, la cosa ha obiettiva rilevanza. Ma se il canone è dominato da una comprensione che potremmo chiamare “premoderna”, che vede la sanzione come orientata a tre fini, che Del Giudice ricorda efficacemente: “assicurare l’unità della Chiesariparare agli scandali e correggere il “reo”, allora è evidente che in un tale sistema la voce della vittima, i suoi diritti e le sue legittime aspettative vengono considerati solo “eventualmente”.

Non è sufficiente una pur importante trascrizione del delitto in una “regione sistematica diversa”, se la mens con cui viene perseguito rimane legata ad una prospettiva puramente interna, potremmo dire “autoreferenziale”: se il foro “esterno” rimane puramente intraecclesiale, il terzo come “vittima” non ha reale voce in capitolo.

E qui, come è evidente, non gioca semplicemente una questione di diritto penale, ma di diritto “costituzionale”. Una istituzione che non conosca una reale “divisione dei poteri” entra in crisi proprio quando ne avrebbe un disperato bisogno.

Un linguaggio contraddittorio

Restando su questo piano, non è sfuggito ad alcuni osservatori – soprattutto alle donne – che il cambiamento di “titolo” non corrisponde al cambiamento di linguaggio dei canoni. Per capire il problema dobbiamo fare una analisi più precisa di questo cambiamento.

A) Nel codice del 1983, alla fine del dettato normativo, ci sono due categorie di delitti:

I) Delitti contro gli obblighi speciali (1392-1396)

Qui si trovavano anche i delitti di un “chierico concubinario”, o di altro chierico che commetta azioni scandalose contro il VI comandamento. Vi sono compresi anche i casi di violenza, di minacce e di commissione del fatto “con” un minore di 16 anni.

II) Delitti contro la vita e la libertà dell’uomo (1397-1398)

Comprendono il caso di omicidio, rapina, violenza, frode, lesioni (1397) e l’aborto (1398)

B) Nel nuovo testo del 2021 i titoli sono leggermente modificati ma i contenuti sono stati ridistribuiti:

I) Delitti contro obblighi speciali (1392-1396)

Da questa sezione, oltre ad una aggiunta iniziale sull’ illegittimo abbandono del ministero, sono stati eliminati soltanto i riferimenti ai minori. Per il resto la struttura e la articolazione resta la medesima.

II) Delitti contro la vita, la dignità e la libertà dell’uomo (1397-1398)
Qui avviene il cambiamento maggiore. Il titolo è integrato dalla parola “dignità”: in effetti se prima si parlava solo di omicidio, rapina, lesioni e aborto, ora la divisione della materia è diversa: il can 1397 assorbe in sé tutti i contenuti della normativa precedente, mentre il can.1398 è integralmente nuovo, ma in un senso piuttosto limitato.
Infatti si è fatto, in parte, un “copia e incolla” dal vecchio canone 1395 della sezione precedente. Certo, non mancano importanti contenuti nuovi (che tematizzano la induzione alla pornografia o la conservazione e trasmissione di immagini pornografiche e la estensione anche ai religiosi e ai laici della normativa) ma la formulazione del “delitto” è sorprendentemente contraddittoria con il titolo. Avendo infatti conservato la formula del “delitto contro il sesto precetto del Decalogo”, non si considera in primo luogo la lesione della dignità della vittima minore, ma la sua compartecipazione – condizionata – ad un atto obiettivamente disordinato e illecito.
Il modo di pensare non “vede” la questione più bruciante, perché inforca ancora gli occhiali vecchi: la violazione del VI precetto è superiore alla lesione della dignità del minore. Questa è una piccola dimostrazione di come il modo di pensare l’atto sessuale e le categorie di riferimento tradizionali sui “vizi della castità” non siano alla altezza del problema e lo affrontino in modo solo indiretto e piuttosto marginale.
Il foro esterno e il foro interno: pena e sacramento

Un terzo punto qualificante della questione è la interferenza continua, nell’ordinamento ecclesiale, tra foro interno e foro esterno, ossia tra “gestione spirituale/segreta” e “gestione istituzionale/pubblica” dei peccati/crimini.

Qui si devono notare due livelli di interferenza, che toccano direttamente il principio della “certezza della pena” e dei “diritti degli accusati e delle vittime”. Su entrambi questi versanti la Chiesa era e rimane sguarnita. Sia perché la gestione dei livelli tra foro interno ed esterno resta ancora largamente discrezionale; sia perché le logiche del perdono, che per la Chiesa sono evidentemente qualificanti, interferiscono talora pesantemente sulle esigenze di giustizia verso i terzi.

Se un Vescovo, come è capitato alcune volte, esercitando le sue funzioni di giudice, di fronte ad abusi commessi da un prete, ne gestisce il delitto semplicemente mediante l’arma dell’allontanamento e del trasferminento, e la correzione fraterna si limita a questo, egli, utilizzando il foro interno e in parte il foro esterno, aumenta la ingiustizia anziché diminuirla, e crea indirettamente la possibilita di nuove vittime.

Il difetto di visione sistematica

La risistemazione del libro VI, mettendo insieme cose vecchie e cose nuove, crea nuove categorie generali, dentro le quali, però, infila cose molto, troppo diverse. Il caso del delitto di “tentata ordinazione di una donna” – fattispecie penale inventata tra il 2001 e il 2010 e che comporta una pena superiore all’abuso su minore, essendo letta come “attentato al sacramento” – utilizza la sanzione penale per creare una sorta di blocco al dibattito ecclesiale, che tocca direttamente alcune realtà diverse, che la norma penale non distingue.

Come poter serenamente discutere sulla “ordinazione diaconale della donna” – argomento che non è riservato a gruppi di “carbonari”, ma per il quale è stata addirittura istituita una Commissione pontificia – se la categoria “ordinazione della donna” è pensato come un crimine “contro i sacramenti”? E la stessa categoria di “delitti contro i sacramenti” in che misura può essere davvero plausibile?

È davvero simile “profanare una particola” o “assolvere senza essere preti” o “ordinare una donna”? Questo titolo generale è una novità di questo testo, ma sembra più raccogliere fattispecie eterogenee che unificare una medesima esperienza. Un piccolo supplemento di riflessione sistematica avrebbe giovato agli estensori.

Soprattutto, se si pretende di usare la sanzione penale in modo sproporzionato: infatti, quando l’ordinamento ecclesiale può leggere gli abusi su minori o la attribuzione di responsabilità ministeriale alle donne come crimini simili, dimentica una delle scoperte moderne più importanti, che C. Beccaria ha così espresso: “Ogni pena che non derivi da assoluta necessità, dice il grande Montesquieu, è tirannica” (Beccaria, Dei delitti e delle pene, c.2).

Un uso tirannico del diritto penale è l’ultima delle cose di cui ha bisogno una Chiesa che voglia “uscire” verso un nuovo paradigma.

La riforma della Chiesa e lo spirito del Vaticano II

In ultima analisi, le preziose osservazioni che leggiamo in U. Del Giudice permettono di considerare un ultimo aspetto, ancora più radicale. Non si deve dimenticare, infatti, che il progetto di revisione del Codice del 1917 era nelle intenzioni del primo progetto conciliare, già il 25 gennaio del 1959, quando papa Giovanni XXIII disse: “Venerabili Fratelli e Diletti Figli Nostri! Pronunciamo innanzi a voi, certo tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito, il nome e la proposta della duplice celebrazione: di un Sinodo Diocesano per l’Urbe, e di un Concilio Ecumenico per la Chiesa universale. 

Per voi, Venerabili Fratelli e Diletti Figli Nostri, non occorrono illustrazioni copiose circa la significazione storica e giuridica di queste due proposte. Esse condurranno felicemente all’auspicato e atteso aggiornamento del Codice di Diritto Canonico, che dovrebbe accompagnare e coronare questi due saggi di pratica applicazione dei provvedimenti di ecclesiastica disciplina, che lo Spirito del Signore Ci verrà suggerendo lungo la via. La prossima promulgazione del Codice di Diritto Orientale ci dà il preannunzio di questi avvenimenti“.

A distanza di tanti anni, dopo la riforma del 1983, è difficile parlare, per questo testo del 2021, di una riforma. Si tratta di una riformulazione e di una integrazione, che resta però profondamente segnata da alcune caratteristiche della tradizione penale della Chiesa che nuovi fatti hanno messo duramente alla prova e che richiede un intervento non cosmetico, ma strutturale.

Proprio in ragione del mutare del rapporto tra Chiesa e mondo, sancito dal Concilio Vaticano II, la Chiesa può anche imparare dalla esperienza civile e dialogare più profondamente con essa. Ci sono “segni dei tempi”, anche in ambito penale. C’è una “giustizia riparativa” in cui lo Stato può imparare dalla tradizione ecclesiale: una riflessione sui limiti della pena carceraria e sulla sua efficacia è cosa doverosa, per tutti.

Ma c’è una certezza della pena e una tutela delle vittime in cui è la Chiesa a dover imparare dallo Stato, riflettendo sui limiti di una gestione troppo “discrezionale” di quasi ogni questione.  Senza una profonda revisione delle categorie di fondo del diritto canonico, il nuovo paradigma conciliare resterà sul piano del lessico, ma non diventerà canone.

È il “paradigma codificatorio”, inventato nel 1917, ad aver perduto la sua plausibilità ed efficienza, come dice lucidamente M. Neri, nel suo Fuori di sé. La Chiesa nello spazio pubblico, EDB, 2020 (soprattutto cap.3, dedicato al Codice). L’aria viziata di una sistematica giuridica inadeguata non permette alla riforma della Chiesa di diventare forma di vita.

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