Il governo e la sicurezza: welfare penale

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Nella recente kermesse di Atreju al Circo Massimo di Roma la nostra premier Giorgia Meloni ha abbandonato i toni abituali imposti dal ruolo istituzionale per sfogare aggressivamente la sua rabbia contro i “nemici”, i suoi asseriti «nemici», quelli che non sono come lei, perché appunto «non sono io il nemico, io sono una persona per bene».

Ora, che se la prendesse con leaders dell’opposizione, come Schlein, Conte, Boldrini se non con Prodi, Landini, Saviano, o più discutibilmente – con toghe, giornalisti, scrittori, attori o cantanti… transeat: diciamo che resta una questione di stile. Giorgia Meloni è una politica abile, intelligente, di esperienza. Può essere che additare i tanti nemici, lisciando il pelo al suo personale «popolo» e infiammando la politica per il popolo italiano, sia vantaggioso nella prospettiva del consenso.

Ma quello che più mi ha infastidito è stata l’intemerata nei confronti di oppositori e manifestanti contro il DDL Sicurezza. Mi ha colpito perché pure io mi sono ritrovato suo «nemico», per il solo fatto di essere uno dei tanti tecnici, tra accademici, magistrati e avvocati penalisti, che si sono impegnati a dimostrare l’abnormità di quelle previsioni normative, riservate alle fasce sociali deboli, con la pretesa di ripristinare in tal modo sicurezza ed ordine pubblici.

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Se prima ero allibito, ora sono preoccupato, perché il ricorso alla pura repressione con la penalizzazione – e per di più con pene stratosferiche ed il ricorso alla giustizia penale per comporre conflitti sociali – non solo è sbagliato, ma è controproducente.

Passare dal welfare sociale al welfare penale è la proposta che viene propinata. La pericolosità che si vorrebbe reprimere tocca manifestanti, imbrattatori, occupanti abusivi, questuanti l’elemosina, donne incinte o con figli piccoli, ma soprattutto – ed in modo scandaloso – carcerati e migranti.

Se ci si prende la briga di rileggere – o pregare – il salmo 146 ci si accorge che i presi di mira sono più o meno gli esclusi di qualche millennio fa: oppressi, affamati, prigionieri, stranieri, «curvati» dalla vita – e dalla storia – in genere.

Con quella che il Presidente degli avvocati penalisti italiani ha definito la «truffa delle etichette» si criminalizza, infatti, l’emarginazione, contrabbandandola come fonte della «insicurezza pubblica». Lo si fa con norme ampiamente illegittime per palese contrasto con la Costituzione – in estrema sintesi con l’art. 3 sull’eguaglianza, con l’art. 13 sulla libertà personale e soprattutto con l’art. 27 sulla responsabilità penale e sulla umanità delle pene -, ma in particolare lo si fa con norme inutili.

Il punto non si riduce alla constatazione che la questione sociale nella sua complessità giustifica in questi casi la prevenzione piuttosto che la repressione, ma all’ulteriore che, secondo esperienza, mai gli aumenti di pena, progressivamente spropositati, hanno portato a risultati apprezzabili.

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Viene spontaneo ricordare, con le parole del giornalista del Corriere della Sera Luigi Ferrarella, che se ci eravamo abituati alla leggi ad personam di berlusconiana memoria, si è ora passati alle più pesanti leggi ad personas: si è abolito l’abuso di ufficio, a vantaggio degli amministratori pubblici, si è derogato a norme relative alla sicurezza sul lavoro e alla tutela dell’ambiente, a favore di grandi gruppi industriali strategici, si continuano ad agevolare gli evasori fiscali, in nome degli oppressi dal fisco, si sono condonate le sanzioni ai no vax, per conclamare la libertà dalla scienza, e così via. Insomma, si sono stabiliti rapporti di forza eccentrici per renderli strabilianti, con la prospettiva della repressione del malessere sociale: tanto poco sembra importare la possibile tutela dei più deboli.

Si erano avute avvisaglie di ciò con vari decreti precedenti, in specie il decreto Cutro, allorché il Governo e dunque la nostra Premier si sono misurati con l’altro potere ordinamentale costituito dalla magistratura, definita poco incline alla «collaborazione» – sic! – con il potere esecutivo e con quello legislativo.

Proprio in questo frangente si è levata la voce libera dell’avvocatura, in particolare penalistica, che ha sostanzialmente e benevolmente detto a Giorgia: «guarda che non funziona così», i poteri sono divisi e le libere decisioni dei magistrati vanno salvaguardate.

Questo imprevisto compattamento dell’avvocatura con la magistratura si è consolidato, cementificato direi, nella critica al DDL 1660 sulla sicurezza. Perciò è il caso di ricordare che magistratura e soprattutto accademia ed avvocatura comprendono anime di diversa inclinazione politica; come si suol dire sono gruppi associati trasversali: eppure si sono manifestati uniti nel dissenso a una futura legge del tutto illiberale, platealmente ignara dei principi consolidati tipici dello Stato di diritto. Questo è un fatto che dovrebbe davvero far riflettere la premier.

Non si può condividere dunque il ritorno al diritto penale del tipo di autore, non a caso definito diritto penale del nemico; né si può accettare una perniciosa pan-penalizzazione, la stessa che il compianto ed illustre Prof. Filippo Sgubbi aveva tanto e profeticamente criticato negli anni, da ultimo nel 2019 col memorabile libretto Il diritto penale totale. Non è questo il sistema, non è questo lo Stato democratico nato con la Repubblica.

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Come contraltare logico, il DDL sulla sicurezza – e non solo questa iniziativa legislativa – intendono rafforzare il ruolo delle Forze dell’ordine per affermare il necessario rispetto dello Stato e cioè della sua forza. Giusta tutela, ma non certo con simili strumenti. Come, d’altra parte, appare giusta la finalità di dare ordine alla sicurezza urbana, ma non certo partendo dal mezzo penale.

Lo Stato è inadempiente o quanto meno molto carente in diversi settori, compreso quello della prevenzione e delle risposte alla domanda sociale. La politica non può lavarsene le mani affidando ai  – tanto vituperati – giudici il compito di supplire, prendendosela con i più deboli. Il diritto penale ha uno scopo diverso dalla pretesa soluzione dei conflitti sociali, così come il processo penale non può essere il mezzo di contrasto delle emergenze sociali. La prevenzione compete ad altri, che sono dotati dei poteri appositi. La innaturale torsione imposta allo strumento penale è incompatibile con il nostro vivere civile.

Si vuole aprire allora il fuoco sulla Croce Rossa? E che cosa genera di positivo questo fuoco? Nulla, se non mostrare i muscoli dello Stato che così copre le sue inadempienze, le sue evidenti inefficienze.

La volontà espressa dal Governo di andare comunque avanti col DDL sulla sicurezza preoccupa particolarmente, perché sottintende un preciso percorso, in via di sviluppo col medesimo fondamento politico-criminale: sono troppi i segnali in questa direzione.

Dunque, male ha fatto la nostra Premier ad additare come «nemico» chiunque manifesti liberamente il proprio pensiero dissonante. Se l’On. Giorgia Meloni vuole definirsi «una persona per bene» non può implicitamente tacciare del contrario chiunque la contrasti.

E se la Presidente del Consiglio dei Ministri vuole, come deve, interloquire con i cittadini, non può porsi lei per prima come “nemica”. Invece di pensare a riempire le pessime patrie galere o i centri per il rimpatrio – al cui confronto le patrie galere risultano accettabili pensioni a due stelle – pensi a non considerare nemici i carcerati e gli irregolari, pensi a non mischiarli con accattoni dell’elemosina, occupanti abusivi, giovani manifestanti o imbrattatori, donne madri ed emarginati di ogni tipo. Pensi, cioè, a farsi i cittadini – tutti – amici, in una società migliore, della quale le verrebbe reso il merito.

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6 Commenti

  1. Giuliano Minelli 15 gennaio 2025
  2. Piergiorgio Bortolotti 14 gennaio 2025
    • Aldo Ciaralli 14 gennaio 2025
  3. Aldo Ciaralli 14 gennaio 2025
  4. Christian 10 gennaio 2025
  5. Marco 10 gennaio 2025

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