Nella prima settimana di febbraio è stata presentato il Coordinamento dei genitori delle vittime di abuso («Coordinamento famiglie sopravvissuti»), che ha origine, ma è indipendente, dalla Rete l’abuso.
Il Coordinamento (contattabile a questo indirizzo email) non è un gruppo di mutuo aiuto, nel senso che non si pone come luogo in cui cercare di non farsi sopraffare dalle difficoltà nel gestire tali tragedie. Sarebbe cosa impossibile, visto che questo problema riguarda varie parti d’Italia e non solo. Vuole piuttosto ricercare una strada comune per rompere il muro di silenzio e di omertà che esiste ancora nel nostro paese sui casi concreti di abuso.
È un primo passo per cercare giustizia per i propri figli. E già l’esistenza di un gruppo come questo crea un luogo ospitale dove finalmente genitori e figli si sentono accolti e compresi.
La notizia potrebbe terminare qui, perché il coordinamento è ai suoi inizi e, dunque, non ha ancora programmato attività precise.
In ascolto dei genitori
Tuttavia, l’ascolto delle varie testimonianze ha fatto emergere un dato ovvio, ma poco evidenziato: chi è abusato vive in una famiglia, ha una famiglia. E questa, quando viene a conoscenza dell’abuso subìto, si trova a vivere un tragico “copione”, come lo definiscono i genitori che hanno raccontato il dramma vissuto.
Ci sono i genitori di figli che, abusati, non hanno retto allo sconvolgimento personale provocato dall’abuso e si sono suicidati.
Poi ci sono i genitori dei “sopravvissuti” che hanno dovuto elaborare la triste scoperta. Una coppia ricordava come, ignara, cercasse di giustificare agli occhi del proprio figlio il giovane prete che consideravano come uno di famiglia, il quale in pubblico maltrattava il loro figlio e poi ne abusava. Quella coppia si trova d’improvviso sola e isolata proprio da quella comunità di cui spesso sono membri attivi.
Il dolore, la fatica e il giusto desiderio di non lasciare impunito l’abuso sul proprio figlio/a spesso non è supportato dalla comunità, che, anzi, isola e talvolta anche si accanisce contro quei genitori.
Se poi tutto questo succede in un piccolo centro, l’isolamento dalla comunità ecclesiale è sinonimo di isolamento sociale.
C’è poi da prendere in considerazione anche la triste trafila di chi si rivolge al vescovo e non viene ascoltato. Si decide allora di chiedere l’intervento dell’autorità giudiziaria, accettando di vedere la vita del minore abusato passata al setaccio. E non è raro il caso che l’imputato ne esca impunito per la caduta in prescrizione del reato.
Due genitori che vivono questa situazione hanno testimoniato il loro interesse per la presenza del coordinamento proprio per non sentirsi soli nell’affrontare il difficile percorso da sostenere in totale isolamento.
E come dimenticare il dolore del figlio/a che hanno subito l’abuso?
È stato commovente sentire un genitore che non se l’è presa direttamente con Dio e suscita emozione pensare che queste persone oggi faticano ad entrare in una chiesa e non si sentono accolti dalla loro comunità.
C’è stata anche la testimonianza di una ex suora violentata e costretta al silenzio, finché non è uscita dalla congregazione. Con generosità ha preso in affido una giovane vittima. Nella sua testimonianza risuonava forte la “rabbia” per ciò che le era successo, per il silenzio che le era stato imposto e soprattutto perché il suo molestatore era il confessore di una casa di suore in formazione. Una novizia di queste si era suicidata: quante altre avranno subìto la stessa violenza e sono sopravvissute?
Reagire, nonostante tutto
È stata ascoltata anche la fatica dei genitori. Come ha sottolineato il dottor Dante Ghezzi, psicoterapeuta, il dolore è contagioso. Lo è per il terapeuta e tanto più per i familiari che vivono gli stessi sentimenti di angoscia, di paura, di desiderio di scappare. Molti di essi vivono un profondo tradimento: il proprio familiare ha subìto l’abuso e il fatto, anziché suscitare comprensione e solidarietà, si ritorce contro di loro.
I genitori che hanno parlato sono quelli che hanno trovato la spazio per alzare la voce, altri sono ancora schiacciati dal dolore e non hanno la forza di chiedere giustizia, perché la terapia psicologica è costosa.
Nell’introduzione, la coordinatrice del nuovo gruppo, Cristina Balestrini, ha detto: «Essere genitori non è facile. Essere genitori di una vittima o di un sopravvissuto è ancora meno facile. Attraversi momenti di sconforto, di rabbia, vuoi piangere, sei deluso, senti un dolore profondo che “gli altri” non capiscono…, ma in tutto questo c’è un filo conduttore: non puoi mollare! Tuo figlio, tua figlia, il tuo familiare è più importante di te».
Appare chiaro ancora una volta che si tratta di dar voce a queste grida di dolore, prendendo atto che parte della gerarchia e molte comunità sono lontane dall’affrontare seriamente la piaga dell’abuso.
La diocesi di Bolzano ha fatto un passo. Al netto di alcune critiche rivolte all’indagine, non bisogna tacere che in numero maggiore sono vittime femminili a subire gli abusi.
Sembra urgente la domanda: Bolzano resterà la prima e l’unica diocesi a indagare?







Spero che l’iniziativa possa andare avanti, è importante non mollare, malgrado tutto, anzi direi proprio perché tutto (a partire dalle dichiarazioni di circostanza e dalle iniziative di facciata promosse da molti vescovi, specie italiani) indurrebbero ad arrendersi allo sconforto. Come genitore, spero che la Chiesa diventi davvero uno spazio libero e sicuro per tutti coloro che lo frequentano, molto resta ancora da fare di concreto, a mio avviso. Un primo passo sarebbe forse proprio quello di accompagnare, proteggere e sostenere le vittime e le loro famiglie, senza più coperture per abusato e conniventi