Afghanistan

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Abbiamo chiesto ad Emanuele Giordana – giornalista e redattore dell’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo – di aggiornarci su situazioni troppo spesso dimenticate o visionate con una sola ottica. Qui ci parla di Afghanistan. L’intervista è di Giordano Cavallari.

  • Emanuele, cosa ritieni importante, oggi, farci sapere dell’Afghanistan?

Mi sembra importante trasmettere un appello che – attraverso Antonio Donini (già responsabile dell’OCHA, l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari) – ho ricevuto da da Against Inhumanity. Donini, avendo frequentato i Talebani, li conosce molto bene e conosce molto bene i livelli oscurantisti a cui sono giunti e a cui possono ancora arrivare.

Eppure, ci fa notare che non dovrebbe bastarci prendere posizione sui diritti negati alle donne afgane: cosa che va, peraltro, giustamente fatta. Dobbiamo pure rompere il silenzio sulle responsabilità occidentali. Già ne abbiamo parlato circa un anno fa, dopo il terremoto (qui), ma la cosa è presto caduta nel dimenticatoio internazionale. Against Inhumanity cerca di riportarla all’ordine del giorno: ci sono 10 miliardi di dollari della Banca Centrale Afghana “congelati” nelle banche occidentali.

Tre miliardi stazionano in banche europee; forse qualcosa sta nei Paesi del Golfo; mentre 7 miliardi – questo è sicuro – sono in mani statunitensi.

Di questi 7 miliardi, una metà è stata, arbitrariamente, posta a garanzia dei risarcimenti del processo intentato da famigliari delle vittime alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 avverso i Talebani. I famigliari chiedono un risarcimento in denaro. Ma, come mette in evidenza Against Inhumanity, non è mai stato provato un coinvolgimento diretto dei Talebani in quell’attentato. Altro discorso è, evidentemente, l’ospitalità prestata ad Osama Bin Laden.

Parte degli stessi famigliari delle vittime rifiuta di ricevere soldi da parte di chi non c’entra nulla, direttamente, con l’attentato. L’altra metà dei 7 miliardi si trovano – pare – in un fondo messo a disposizione della popolazione afgana, ma sottratto alla disponibilità del governo dei Talebani: una cosa piuttosto oscura e ben lontana da poter andare a “buon fine”.

Sono passati, quindi, due anni e questi denari non sono stati restituiti agli afghani.

Restituzione
  • Perché è una cosa grave?

È facilmente spiegabile. Dieci miliardi non sono pochi per un Paese come l’Afghanistan che esce da 40 anni di guerre. Ricevere dieci miliardi di dollari significherebbe poter contrastare il principale problema in cui questo Paese è precitato: la fame.

I soldi servirebbero per sfamare la gente, ancor prima di pensare alla sanità o alle scuole. Due terzi della popolazione si trova allo stremo: c’è chi si deve far bastare un pezzo di pane e una tazza di thè al giorno. Per i bambini in sviluppo ciò vuol dire compromissione delle facoltà fisiche e mentali: un disastro umanitario ed economico, pensando anche al futuro di questo Paese.

  • Questi beni andrebbero dunque restituiti alla Banca Centrale Afghana?

Sì, andrebbero restituiti subito. Secondo Against Inhumanity – e anche secondo me – è senz’altro giusto che noi occidentali ci diamo da fare per i diritti delle donne, ma è altrettanto giusto che ci diamo da fare per la restituzione di questo denaro all’Afghanistan, quale che ne sia il governo. Altrimenti, come possiamo riempirci la bocca delle parole del diritto internazionale?

Situazione interna
  • Si può ora dire che l’Afghanistan sia un Paese pacificato, in cui non si combatte più?

Sostanzialmente sì. I Talebani sono penetrati territorialmente ovunque. Sino a qualche tempo fa, si sapeva di sacche isolate di resistenza nella regione del Panjshir: ora non se ne sente più parlare. Direi che non ci sono più le condizioni di possibilità per una resistenza armata al regime dittatoriale dei Talebani: tutte le armi – e in abbondanza – sono nelle loro mani.

  • Da dove vengono tutte queste armi nelle mani dei Talebani?

È molto semplice: in buona misura, sono state lasciate dai militari occidentali della NATO che, dall’oggi al domani o quasi, se ne sono andati con gli americani, con una enorme ingenuità, a mio modo di vedere.

La strategia occidentale, dopo il tentativo di controllo con le armi, è diventata quella di soffocare economicamente il Paese. Ma soffocare l’economia del Paese, col suo regime, vuol mettere, appunto, la gente alla fame.

  • Avvengono tuttora attentati jhadisi – o di altra natura – in Afghanisan?

Il numero di attentati è, di fatto, diminuito notevolmente. Sussiste tuttavia una questione aperta tra Afghanistan e Pakistan a proposito dei Talebani pakistani ospitati da quelli afgani. Tra loro sono “cugini”, ma le loro agende politiche sono diverse. Sono una spina nel fianco per il Pakistan, ma non costituiscono un pericolo per la popolazione dell’Afghanistan.

  • La gente afghana da che parte sta? Coi Talebani?

È forse troppo dire questo. E tuttavia, per gran parte della popolazione, la cosa buona è che è davvero finita una guerra infinita. La fine di una guerra significa la fine dei morti – dai 200 ai 300 al mese – e di tante mutilazioni, all’ordine del giorno “sino a ieri” e, per fare un esempio, banale, significa la possibilità di fare due passi senza essere presi di mira. Non è cosa di poco conto per la popolazione. Perciò io penso che i Talebani godano, oggi, fatalmente, di un certo consenso, specie nelle zone rurali: la stragrande parte.

Diverso è il discorso a Kabul e per qualche città ove è più penetrata la presenza occidentale. Quando noi vediamo e sentiamo parlare qualche donna afgane che protesta, vediamo e sentiamo solo una piccola parte: quella che emerge con la consapevolezza del caso, rispetto all’occidente. Non sempre e ovunque è così.

Ora il problema di tanta gente, come ho detto, è la fame: può darsi che questo faccia perdere rapidamente ai Talebani quel consenso che c’è. Ma può darsi anche con ciò non avvenga o persino che si esasperi gli animi a loro favore. Mettere una popolazione alla fame è sempre un grande azzardo politico, oltre che un misfatto.

  • Quali prospettive, dunque, tu auspichi? 

Secondo me, la strada è sempre quella che porta al disgelo dei rapporti e al tentativo del dialogo.

L’applicazione ultraradicale della Shaari’a da parte dei Talebani è anche un modo per coprire le loro difficoltà e lo stato di grave disagio economico in cui versa il Paese. È chiaro a tutti i musulmani avveduti – anche a loro – che il Corano è un libro della fede e non un manuale politico da applicare.

“Metterli con le spalle al muro”, evidentemente, non giova a nessuno: finisce per favorire l’ala più radicale e impedisce alle élite d’avanguardia di emergere, in qualche modo, in una dialettica che possa dirsi, anche solo lontanamente, democratica.

Ripeto: secondo me, andrebbe tentato il disgelo e il dialogo anche coi Talebani, riaprendo, ad esempio, le ambasciate e riportando un serio aiuto umanitario – di cui i 10 miliardi di dollari di cui ho detto – potrebbero costituire un buon primo viatico.

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