
Intervento del vescovo emerito della diocesi Ouagadougou nel Burkina Faso, card. Philippe Ouedraogo, in occasione del X anniversario della sezione coreana dell’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre.
Eminenze, eccellenze, onorevoli partecipanti al simposio, signore e signori,
vorrei innanzitutto rivolgere alla nostra assemblea un cordiale saluto dall’Africa, dal Burkina Faso, in particolare dalla Chiesa famiglia di Dio di Ouagadougou, di cui sono arcivescovo emerito dal 16 dicembre 2023.
Permettetemi di salutare in modo particolare Sua Eminenza Andrew Cardinal Yeom Soo-Jung, arcivescovo Emerito di Seul. Creati cardinali insieme il 22 febbraio 2014 da Papa Francesco, siamo rimasti amici. Con lui rendiamo grazie a Dio per la fruttuosa cooperazione missionaria tra l’arcidiocesi di Seul e quella di Ouagadougou.
Al Reverendo Padre John PAK e a tutti gli organizzatori esprimo la mia sincera gratitudine per il gentile invito a partecipare al decimo anniversario della sezione coreana dell’associazione “Aiuto alla Chiesa che soffre”.
«La Chiesa in Burkina Faso, testimone di speranza di fronte alla persecuzione da parte dell’estremismo islamico violento» è il tema proposto per il mio intervento. Sincera gratitudine per l’interesse che dimostrate verso le sofferenze dell’umanità, della nostra casa comune.
Sono qui tra voi per testimoniare – come figlio e pastore di una terra martoriata dal terrorismo violento in Burkina Faso, nel Sahel dell’Africa occidentale. Sono venuto per portare la voce di un popolo senza voce, che soffre ma lotta per rimanere in piedi con dignità e vera pace.
La mia testimonianza si articolerà in diverse prospettive:
- La tragedia della violenza terroristica in Burkina Faso
- La missione e la testimonianza della Chiesa cattolica
- L’appello alla coscienza mondiale.
La tragedia della violenza terroristica in Burkina Faso
Da quasi un decennio, il Burkina Faso è diventato suo malgrado teatro di una violenza multiforme, persistente, mortale, metodica. Una violenza che si è insediata e si diffonde in modo cieco tra la popolazione.
Il Paese è progressivamente precipitato in un ciclo di instabilità caratterizzato da attacchi mortali, rapimenti, distruzione di infrastrutture statali e private, spostamenti massicci di popolazioni, senza dimenticare i successivi colpi di Stato militari… Diverse regioni del Paese sono colpite.
Le cifre sono sconcertanti. Secondo i dati dell’UNHCR, dell’OCHA e delle relazioni incrociate di ONG nazionali e internazionali nel 2024:
- Più di 8.000 persone sono state uccise in attacchi mirati, scontri armati o omicidi di civili innocenti. Senza contare i dispersi, i feriti, i mutilati fisici e psicologici.
- Ad oggi sono stati registrati oltre 2,2 milioni di sfollati interni, la maggior parte dei quali sono donne, bambini e anziani. Intere famiglie vivono in condizioni precarie, in campi improvvisati, senza accesso stabile all’acqua, al cibo, all’istruzione e alle cure mediche di base.
- Si contano oltre 35.000 rifugiati burkinabè fuggiti nei paesi vicini (Togo, Ghana, Benin, Costa d’Avorio), in condizioni di grave insicurezza alimentare.
- Quasi 6.000 scuole sono state chiuse, privando più di un milione di bambini del loro diritto fondamentale all’istruzione. Un’intera generazione sta per essere sacrificata.
- Centinaia di centri sanitari sono stati distrutti o chiusi. L’assistenza sanitaria sta crollando. La malnutrizione infantile è in aumento. L’accesso all’assistenza psicologica è quasi inesistente.
- Centinaia di migliaia di ettari di terreni agricoli sono stati abbandonati. Il tessuto economico locale è disintegrato. Mercati, granai, strade sono controllati o minati.
Questa tragedia va oltre i confini del Burkina Faso. Si inserisce in una dinamica saheliana, se non addirittura regionale e mondiale. È una sfida per l’Africa, è una sfida per l’umanità.
Ad esempio, il Mali, il Niger e il Burkina Faso, confrontati con il dramma del terrorismo, hanno costituito una Confederazione degli Stati del Sahel. Ciò che questi paesi stanno vivendo oggi è la conseguenza di un disordine globale, di un accumulo di fragilità ignorate, di silenzi complici e di una geopolitica a volte cinica.
Non si tratta più di una crisi puntuale. Si tratta di una crisi esistenziale. Una crisi di civiltà. E richiede una risposta umana, spirituale, istituzionale e morale all’altezza del dramma vissuto dalle popolazioni.
In questa prospettiva, Papa Francesco, nella sua enciclica Fratelli Tutti, ci interpella con chiarezza: «La sofferenza di un popolo non è una questione lontana. È un richiamo a ritrovare la consapevolezza che siamo una comunità mondiale» (§25).
Una violenza senza confini religiosi
Di fronte a questa tragica realtà, molti cercano una spiegazione semplicistica: quella di un conflitto religioso tra cristiani e musulmani. Tuttavia, quando si guarda più da vicino, quando si ascoltano le popolazioni colpite, quando si esaminano i racconti dei sopravvissuti, delle autorità tradizionali, dei pastori e degli imam, emerge un quadro molto più complesso.
È vero che gli attacchi hanno preso di mira le chiese. È vero che sacerdoti, catechisti e fedeli cristiani sono stati uccisi durante le celebrazioni liturgiche o a causa della loro fede. È vero che intere comunità cristiane sono state costrette a fuggire e che templi e chiese sono stati bruciati, profanati o chiusi.
Ma è altrettanto vero che:
- sono state attaccate moschee, alcune durante la preghiera del venerdì;
- sono stati giustiziati imam perché predicavano una versione moderata e pacifica dell’Islam;
- sono state chiuse o distrutte scuole coraniche;
- villaggi a maggioranza musulmana sono stati presi di mira in modo indiscriminato.
In realtà, tutte le comunità sono colpite. Tutte le confessioni religiose sono in lutto. La religione è strumentalizzata a fini di potere, controllo e terrore.
Va detto chiaramente: i gruppi armati violenti non hanno una religione. Hanno un’ideologia. E questa ideologia non ha altro scopo che quello di seminare divisione, opporre le comunità, spezzare la solidarietà tradizionale che unisce i burkinabè al di là delle appartenenze religiose. Essi fanno leva sull’ignoranza, sulle ferite mal cicatrizzate, sulle frustrazioni accumulate per mettere gli uni contro gli altri.
Eppure il Burkina Faso ha una lunga tradizione di convivenza religiosa pacifica. Questo tessuto sociale è oggi preso di mira proprio perché costituisce un baluardo contro l’estremismo. Distruggendo i luoghi di culto, stigmatizzando i gruppi, seminando la paura, i gruppi estremisti cercano di distruggere non solo vite umane, ma anche un modello sociale, un patrimonio comune di fratellanza.
Non cadiamo quindi nella trappola: rifiutiamo la paura, l’amalgama, il discorso di divisione.
Il conflitto attuale non è religioso. È politico, economico, identitario, geostrategico. Si riveste del mantello della religione per legittimarsi, ma in realtà la tradisce. E in questa tempesta, la Chiesa del Burkina Faso continua a proclamare ad alta voce: «Siamo chiamati all’unità, alla pace e all’amore reciproco».
Ecco perché dobbiamo essere lucidi, coraggiosi e profondamente radicati nella nostra fede per non cadere nella trappola della divisione. Perché una comunità divisa è una comunità indebolita: «Se una casa è divisa contro se stessa, quella casa non potrà reggere» (Mc 3,25).
In questo spirito, il Santo Padre ha ricordato nella Dichiarazione di Abu Dhabi (2019): «Il terrorismo non è dovuto né alla religione né alle convinzioni religiose, ma a un’interpretazione errata dei testi sacri e a politiche ingiuste».
Non è la religione che uccide. Sono le ideologie dell’odio. E la nostra responsabilità è smascherarle.
Un serpente dalle teste invisibili: chi uccide? Chi manipola? Chi ne trae vantaggio?
Uno dei dolori più profondi del popolo burkinabè oggi risiede in questa domanda lancinante, ripetuta nei villaggi, nei campi profughi, nelle chiese, nelle moschee, nei mercati: «Chi ci uccide? E perché?».
Spesso gli attacchi sono condotti da uomini incappucciati, armati di fucili moderni, che circolano in moto o su pick-up. Non sempre rivendicano l’appartenenza a un gruppo conosciuto. Non lasciano messaggi politici chiari né rivendicazioni strutturate. A volte si presentano come giustizieri. A volte come rappresentanti religiosi. A volte come vendicatori. Ma molto spesso non dicono nulla. Uccidono. E scompaiono.
Questa assenza di identità alimenta una paura sorda. Indebolisce la fiducia nella comunità. Crea sospetti reciproci. Spinge interi villaggi a diffidare dei propri vicini, a sospettare dei propri giovani, a dubitare dell’imam del posto, del capo del quartiere, del catechista, del commerciante venuto da altrove.
Questa vaghezza è sapientemente alimentata. Fa parte di una strategia del caos. Un caos che non è spontaneo, ma pensato, alimentato, rimpolpato, coordinato.
Chi sono i veri istigatori di questa violenza? Chi arma questi gruppi? Chi li finanzia? Chi fornisce loro le munizioni, le informazioni, la tecnologia? Da dove provengono queste armi sofisticate che non esistono sui mercati locali? Perché la circolazione di kalashnikov e ordigni esplosivi è più rapida di quella dei soccorsi o dei generi alimentari? Chi controlla le strade? Chi controlla i flussi? Chi alimenta i conflitti intercomunitari? Chi trae vantaggio da questo disordine?
La realtà è che questo conflitto non è solo interno. È alimentato anche da questioni transnazionali. Da interessi economici occulti. Da fredde logiche geopolitiche. Da reti di traffico di oro, armi, droga, esseri umani, che sfruttano il vuoto di sicurezza per prosperare.
Alcune zone attaccate coincidono stranamente con zone minerarie. Alcune strade prese di mira sono strategiche per il trasporto di risorse. Alcune popolazioni sfollate liberano spazi il cui valore economico non è trascurabile. Il caos diventa qui un’opportunità, una strategia di sfollamento forzato, un modo per fare spazio a progetti inconfessabili.
E nel frattempo, la popolazione soffre, muore, scompare.
La violenza che colpisce il Burkina ha quindi molte facce, ma un unico obiettivo: controllare, dominare, sfruttare. I volti visibili sul campo sono forse solo quelli degli esecutori. Dietro di loro ci sono le menti, i finanziatori, gli strateghi. Parlano altre lingue, decidono in altri uffici, scambiano altre valute.
Ecco perché è fondamentale rifiutare una lettura semplicistica. Denunciare le complicità silenziose. E interpellare le istituzioni internazionali, gli Stati, le multinazionali, le reti religiose o economiche che, direttamente o indirettamente, lasciano fare o addirittura partecipano.
Il nemico non è un villaggio. Non è una religione. Non è un’etnia. Il nemico è quel meccanismo di disumanizzazione che trasforma la sofferenza dei poveri in guadagno per i potenti. E questo meccanismo deve essere fermato.
Abbiamo il dovere di smascherarlo, il coraggio di nominarlo e la fede per sconfiggerlo.
Siamo quindi chiamati a discernere. Ad andare oltre le apparenze. A non accontentarci di nominare gli esecutori visibili, ma a rivelare le strutture invisibili del male. Perché questa lotta va oltre i volti umani. Tocca le forze profonde del disordine e del dominio: «La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti» (Ef 6,12)
Il Burkina Faso: eredità di una convivenza da proteggere
Il Burkina Faso non è solo un’entità geografica nel cuore dell’Africa occidentale. È una memoria vivente, un crocevia dell’umanità, un crogiolo in cui si sono intrecciati nel corso dei secoli lingue, costumi, credenze e lignaggi. Ben prima dell’indipendenza nel 1960, i popoli di questa terra hanno imparato a fare delle loro differenze una ricchezza e non una minaccia.
Nella nazione burkinabè la diversità non è mai stata sinonimo di frammentazione. Le comunità sono cresciute insieme: i musulmani, stimati al 60%, i cattolici al 20%, i seguaci della religione tradizionale al 15% e le confessioni protestanti al 5%. Tutti condividono lo stesso spazio vitale, l’acqua degli stessi pozzi, le risate degli stessi bambini, i dolori delle stesse prove… Il vivere insieme non è mai stato un costrutto ideologico: è scaturito dalla vita quotidiana, dai costumi, dalla saggezza degli anziani.
Ed è proprio qui che molti artefici del caos hanno sbagliato. Questo Paese poggia su fondamenta di una profondità insospettabile: i patti di parentela, le alleanze tra lignaggi, i legami tra clan, la solidarietà tra famiglie di tradizioni diverse. Qui, il cugino scherzoso può appartenere a un’altra etnia, ma è portatore dello stesso sacro rispetto. Qui, il genero è accolto come un figlio, indipendentemente dalla sua fede. Qui, le alleanze tra famiglie di confessioni diverse sono comuni, rispettate e vissute come ponti di unità.
I legami di sangue, di parentela e di alleanza sono più forti dei discorsi di odio. Sono più radicati delle ideologie importate, più tenaci delle manipolazioni divisorie. Costituiscono un baluardo silenzioso ma efficace contro coloro che sognano di mettere i burkinabè gli uni contro gli altri.
Perché ciò che Dio ha seminato nei cuori nel corso della storia, nessuna mano violenta lo può strappare in maniera definitiva.
Tuttavia, questa forza è oggi messa a dura prova. Le armi, la paura, la disinformazione cercano di incrinare il paziente edificio della convivenza. Voci, a volte estranee alle realtà locali, cercano di seminare dubbi, diffidenza, paura dell’altro. La convivenza è presa di mira, non frontalmente, ma subdolamente.
Eppure, il popolo burkinabè resiste. Resiste grazie alle iniziative dei cittadini, interreligiose e interculturali. Resiste grazie ai leader religiosi e tradizionali che predicano la pace. Resiste grazie alle associazioni giovanili, agli intellettuali, ai giornalisti cattolici e musulmani che, insieme, portano avanti azioni di dialogo, formazione e sensibilizzazione. Resiste grazie ai progetti transfrontalieri che riconnettono i popoli, al di là delle paure.
Questo prezioso patrimonio culturale non è un’illusione. È una realtà storica, culturale, spirituale. E deve essere protetto come si protegge una fiamma fragile nel cuore del vento. È anche un appello evangelico: «Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti» (Rm 12,18).
Il Concilio Vaticano II ce lo ha insegnato con forza nella dichiarazione Nostra Aetate: «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» (§2).
Questo vivere insieme, radicato nella storia e benedetto dal Vangelo, è un fondamento per ricostruire la pace. Una pace autentica, fondata sulla dignità umana, sulla memoria comune e sulla fedeltà al messaggio di Cristo: amare, comprendere, dialogare, risollevare insieme questo mondo che vacilla.
Contesti di dialogo, ponti comunitari, iniziative religiose e sociali
In questo contesto di minacce multiforme e frammentazione sociale, è confortante, e persino essenziale, mettere in luce i numerosi sforzi compiuti dagli attori religiosi, sociali, comunitari e istituzionali per preservare l’unità nazionale, rafforzare la resilienza collettiva e mantenere aperti i canali del dialogo interreligioso, interculturale e intergenerazionale.
Il Burkina Faso non si limita a subire la violenza. La resiste. Vi risponde con la saggezza delle sue tradizioni, la vitalità dei suoi giovani e l’impegno delle sue comunità spirituali. Su tutto il territorio nazionale stanno emergendo iniziative per ricostruire i ponti distrutti, ravvivare la fiducia e costruire spazi di dialogo condiviso.
Tra queste iniziative, si segnalano diversi gruppi di concertazione interreligiosa per la pace particolarmente degni di nota. Questi gruppi riuniscono rappresentanti di tutte le principali confessioni religiose del Paese – islam, cristianesimo cattolico e protestante, religioni tradizionali – in una dinamica continua di dialogo, analisi condivisa delle sfide e proposte comuni per rafforzare la pace sociale. Questi gruppi intervengono nelle mediazioni locali, nella sensibilizzazione delle comunità e producono messaggi congiunti per allentare le tensioni.
Accanto a queste piattaforme istituzionali, le comunità locali portano avanti azioni concrete e spesso silenziose:
- Numerose sono le associazioni che operano per la pace e la coesione sociale: la Lega islamica per la pace (Ouagadougou), l’Unione Fraterna dei Credenti (Dori); l’Associazione protestante per il dialogo interreligioso (Ouagadougou) e la Fondazione cattolica Duc In Altum (Ouagadougou).
- Ogni anno le diocesi, in collaborazione con i leader musulmani, organizzano campi interreligiosi per i giovani. Questi spazi favoriscono la scoperta reciproca, la demistificazione degli stereotipi e la creazione di legami duraturi tra giovani di diverse confessioni.
- In diverse regioni sono state sperimentate sessioni di dialogo tra le forze di sicurezza e i giovani leader delle comunità, che hanno permesso di ripristinare un clima di fiducia e di prevenire pericolose generalizzazioni.
- In luoghi neutrali vengono organizzate attività sportive, club di lettura, teatri comunitari e corsi di formazione civica, che accolgono senza distinzioni bambini, adolescenti, donne e uomini attorno a valori condivisi.
- Non mancano i movimenti di azione cattolica, in particolare la JEC (Jeunesse Étudiante Catholique), gli scout, i cori e i gruppi di preghiera. Sia in ambito urbano che rurale, organizzano: giornate di mutuo aiuto comunitario, attività di conoscenza interreligiosa, campagne di sensibilizzazione sulla pace e la coesione sociale, visite agli sfollati interni senza discriminazioni religiose o etniche.
Anche gli intellettuali cattolici, i giornalisti, gli insegnanti, i giuristi e gli artisti si impegnano per contrastare i discorsi di odio, diffondere i diritti fondamentali, trasmettere le esperienze positive di convivenza e documentare le storie di fratellanza vissuta. I loro interventi, spesso ripresi dai media confessionali e generalisti, contribuiscono a plasmare una coscienza collettiva resiliente.
In alcune zone transfrontaliere, in particolare nelle regioni orientali e del Sahel, incontri comunitari hanno riunito rappresentanti di diversi paesi vicini (Niger, Ghana, Togo, Costa d’Avorio) attorno a questioni comuni: gestione delle risorse condivise, sicurezza umana, pastoralismo transfrontaliero, lotta alla disinformazione. Questi incontri consentono di tessere una diplomazia popolare, di costruire alleanze comunitarie e di frenare i tentativi di strumentalizzazione delle appartenenze nazionali, etniche o religiose.
Tutti questi sforzi, anche se a volte discreti, contribuiscono a mantenere viva la fiamma della pace. Dimostrano che, nonostante i tentativi di divisione, il tessuto sociale burkinabè è ancora vivo, capace di rigenerarsi, di solidarizzarsi e di inventare nuove vie per la convivenza.
Costituiscono anche una lezione per l’Africa e per il mondo: la pace non è solo una parola. È un dono di Dio e il frutto degli sforzi degli uomini. E Papa Francesco afferma senza ambiguità: «Esiste un’architettura della pace in cui intervengono le diverse istituzioni della società, ciascuna al proprio posto» (Fratelli Tutti, §284).
L’artefice della pace non è un eroe spettacolare, ma un costruttore paziente, un seminatore di umanità.
La Chiesa, perseguitata ma fedele: missione e testimonianza
In questo contesto di violenza, insicurezza generalizzata, spostamenti massicci, paura cronica, la Chiesa in Burkina Faso non ha abbandonato il campo. Non ha rinunciato alla sua missione evangelizzatrice. Non ha scelto il silenzio né la fuga. Al contrario, ha messo radici, si è adattata, si è impegnata ancora di più, a rischio della propria esistenza.
Sì, alcuni sacerdoti sono stati rapiti e uccisi, catechisti e fedeli assassinati, chiese chiuse, cappelle incendiate, luoghi di preghiera abbandonati. Ma la Chiesa rimane lì, presente, servitrice, viva, orante, sofferente e profondamente solidale con il popolo.
Nelle parrocchie rurali come nei quartieri periferici delle grandi città, le comunità cristiane continuano a riunirsi, a volte all’aperto, a volte in modo discreto, a volte sotto minaccia. Ma pregano, cantano e condividono. Intercedono per la pace. Alla fine di ogni celebrazione eucaristica viene recitata una preghiera per la pace.
Le religiose continuano a insegnare, a curare, ad ascoltare. Accolgono donne sfollate, accompagnano bambini traumatizzati, preparano pasti collettivi in scuole di fortuna. La loro sola presenza è una testimonianza. La loro calma è una forza. Il loro impegno è un balsamo per comunità sconvolte.
I movimenti di azione cattolica, i giovani dell’AJEC, gli scout, i gruppi di preghiera organizzano raccolte di generi alimentari, attività di accoglienza, gruppi di discussione per gli sfollati. Pregano con i musulmani. Tendono la mano ai non credenti. Ridanno senso alla solidarietà in un momento in cui tutto sembra crollare.
La Chiesa non svolge un ruolo esterno. È all’interno del popolo. Vive i suoi dolori. Parla la sua lingua. Conosce le sue ferite. Condivide il suo pane. Tiene la mano delle vedove. Seppellisce i martiri. Benedice i bambini. Prepara i funerali con dignità. Mantiene la fede come si mantiene viva una fiamma nel cuore della notte.
Nella notte del caos, la Chiesa, famiglia di Dio in Burkina Faso, non ha abbandonato il suo posto. Non è fuggita dal fuoco. Rimane una sentinella vigile, umile e ferma, fedele alla chiamata di Cristo. Anche se perseguitata, rimane in piedi e solidale: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi […] sono anche le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (Gaudium et Spes, §1).
Un forte appello alla coscienza mondiale
Ciò che sta accadendo oggi in Burkina Faso non riguarda solo il Burkina Faso. Questo dramma supera i confini. Interpella l’umanità. Mette in discussione il senso stesso della nostra fratellanza mondiale. E obbliga tutti – istituzioni, governi, popoli, religioni, media – a prendere chiaramente posizione: continueremo a distogliere lo sguardo o ci assumeremo finalmente la nostra parte di responsabilità?
Le istituzioni internazionali sono state create dopo le grandi guerre per proteggere i popoli dagli eccessi della violenza, dalla logica dello sterminio, dai genocidi silenziosi. L’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’Unione Africana, i tribunali internazionali, le agenzie umanitarie… Cosa stanno facendo oggi di fronte all’agonia di milioni di persone nel Sahel?
Come si spiega che circolino così tante armi in zone dove l’accesso al cibo e all’acqua potabile è limitato? Come si può capire che droni, mine artigianali, armi automatiche di alta precisione possano essere trasportati mentre negli ospedali mancano i medicinali? Chi chiude gli occhi? Chi lascia fare? Chi ne approfitta?
E gli Stati potenti, che dispongono della tecnologia, dell’intelligence, dei satelliti, delle reti diplomatiche, cosa dicono? Dove sono gli appelli al rispetto del diritto umanitario? Dove sono le condanne chiare e le decisioni coraggiose? Perché alcuni paesi sono eternamente dimenticati dalle emergenze mondiali?
E le multinazionali, che investono nelle miniere, che firmano accordi dietro le quinte, che a volte traggono vantaggio dagli effetti della guerra, sono pronte a mettere in discussione un modello di profitto che si basa sul collasso dei popoli?
E noi stessi, cittadini del mondo, uomini e donne di buona volontà, abbiamo la coscienza tranquilla? Possiamo dormire sonni tranquilli sapendo che dei bambini vengono sacrificati per interessi invisibili? Che delle donne vivono nella paura ogni notte? Che intere comunità vengono cancellate dalla mappa?
Non è un’esagerazione. È la realtà quotidiana. Un crimine collettivo per indifferenza e inazione.
È tempo di agire, di rompere il silenzio, di andare oltre i comunicati diplomatici, di trasformare le risoluzioni in impegni concreti. È tempo di fare pressione affinché le strade siano rese sicure, affinché gli sfollati siano protetti, affinché i responsabili siano identificati, affinché le risorse del Sahel vadano a beneficio delle popolazioni del Sahel.
È giunto il momento che la coscienza mondiale si risvegli, che le religioni si uniscano in una dichiarazione comune, che i popoli si indignino, che le istituzioni rispondano, che le multinazionali si convertano a un’etica della responsabilità.
Il silenzio, in questo contesto, non è neutrale. È complice. E le generazioni future chiederanno: «Cosa avete fatto quando l’Africa bruciava?». E ognuno dovrà rispondere.
Oggi, in nome della fede, in nome della vita, in nome della dignità umana, diciamo: basta. Il sangue degli innocenti non può più irrigare l’economia mondiale. Il silenzio dei potenti non può più coprire il grido dei poveri. E l’indifferenza non può più essere la risposta alla sofferenza.
È un appello. È una sfida. È una responsabilità.
Non si tratta più semplicemente di allertare. Bisogna risvegliare le coscienze, esigere giustizia, denunciare i silenzi che uccidono. È un’esigenza biblica, oltre che un dovere morale: «Imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, fate giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1,17).
La sfida che lanciamo qui non cerca polemica. Cerca la verità. E attende risposte degne della coscienza umana.
La speranza come atto profetico
Di fronte all’estremismo violento che devasta vite, villaggi, memorie e speranze, alcuni potrebbero essere tentati di concludere che tutto è perduto, che l’oscurità è troppo fitta, che la notte è troppo profonda, che l’umanità sta crollando.
Ma non è questa la nostra lettura. Non è questa la nostra fede, il nostro sogno, la nostra speranza.
Crediamo profondamente che la storia non finisca qui. Che ciò che sembra una sconfitta possa diventare fonte di rinascita. Che anche ai piedi della croce sia possibile una resurrezione. La speranza, per noi, non è ingenuità. È un atto profetico. È un atto di resistenza spirituale. È un atteggiamento di fronte all’assurdo, un’affermazione radicale della vita di fronte alla cultura della morte. Non è aspettare che tutto vada meglio. È agire affinché qualcosa di bello rimanga, anche nella tempesta. È scegliere la fedeltà a Dio, all’uomo, alla dignità, là dove tutto sembra spingere all’abbandono.
E la Chiesa, in questo contesto, non ha solo un ruolo morale. Ha una missione esistenziale, profetica: quella di restare in piedi quando tutto crolla, di predicare la pace quando la guerra si impone, di proclamare la luce quando la notte si fa più fitta, di credere nell’uomo, anche quando l’uomo si perde.
Per questo concluderò con questa certezza: il caos non avrà l’ultima parola. La menzogna non trionferà sulla verità. L’odio non vincerà l’amore. E il sangue versato dagli innocenti diventerà seme di un futuro migliore, se avremo il coraggio di non dimenticare, di non abbandonare, di continuare a sognare, ad amare insieme.
Che ogni uomo, ogni donna, ogni istituzione qui presente ascolti questo appello. Non come un’accusa, ma come una missione. Il Burkina Faso sanguina, ma spera. Il Sahel trema, ma prega. L’Africa soffre, ma resiste.
E Papa Benedetto XVI ce lo ricorda nella sua enciclica Spe Salvi: «La speranza cristiana non è mai individuale. È sempre anche speranza per gli altri» (§35).
Grazie a tutti per l’ascolto e l’impegno. Possiamo sognare insieme e lavorare costantemente per l’avvento di un mondo migliore. Che la preghiera di Maria, Regina della Pace, il cui cuore è sempre orientato alla volontà di Dio, consolidi e rafforzi ogni sforzo a favore della riconciliazione, della giustizia e della pace. (cf. Mt 5,6).





