Diario di guerra /21

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La popolazione di fede cristiana sta abbandonando il sud del Libano!

È un’altra notizia – sconfortante – da mettere sulle pagine di questo diario di guerra nel Medioriente: è emersa, anche se non ancora irreversibilmente, proprio alla fine del 2023. Quei cristiani vengono provvisoriamente ospitati nella capitale libanese, Beirut.

Certo: potranno, forse, poi, tornare ai loro villaggi non distanti dal confine con Israele, qualora i reciproci bombardamenti tra hezbollah ed esercito israeliano dovessero estinguersi; ma le cronache, per ora, parlano soltanto di una costante intensificazione, tanto da toccare, per la pima volta, la stessa Beirut, ove è stato eliminato un dirigente di Hamas: Saleh Harouri figura di coordinamento con hezbollah. Difficile che la situazione in Libano migliori nelle prossime settimane! Dunque, la questione dei cristiani del sud del Paese rimarrà di grande attualità. Naturalmente per chi voglia prestarvi attenzione.

Perché questi piccoli centri, preminentemente agricoli, sono finiti nel fuoco tra le parti? Una versione – che mi è stata proposta da là – è la seguente: i lanciarazzi mobili, trasportati rapidamente, di qua e di là, con automezzi leggeri, da hezbollah compaiono all’improvviso in questi piccoli centri abitati o nei loro dintorni, effettuano i loro lanci sugli obiettivi israeliani e poi, altrettanto rapidamente, spariscono. Dopo poco tempo arriva puntuale la reazione israeliana, proprio lì dove sono partiti i colpi. E il villaggio finisce nel fuoco, un fuoco che distrugge e può portare anche la morte.

L’interpretazione politica dei fatti è ovviamente aperta. Non vi sono certezze. Siamo di fronte al deliberato tentativo di hezbollah di svuotare i villaggi cristiani dalle loro genti, oppure si tratta, “semplicemente”, di una tattica per rafforzare l’azione militare, evitando danni diretti alle aree abitate dalle comunità musulmane sciite? Altra domanda: e l’esercito israeliano non si rende forse conto di quali aree e popolazioni va a colpire? È da ritenersi assai improbabile che la tattica dei veloci trasferimenti dei miliziani, coi lori mezzi, non sia ben nota.

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Il racconto di questi fatti, mi fa ricordare quanto il regime di Assad ha intenzionalmente perpetrato, in Siria, negli anni più terribili anni di una guerra iniziata nel 2011 e non ancora finita: la sua tattica senza strategia se non di mera conservazione del potere, era quella di aggravare o di creare problemi di coesistenza tra le diverse comunità che, sino a quel punto, avevano pacificamente vissuto le une accanto alle altre. Così, gruppi criminali assoldati dal regime, rendendosi ben visibili, partivano da un territorio identificato con una data comunità ed effettuavano provocazioni armate nelle zone abitate dalle altre comunità. È facile, in questo modo, innescare lo scontro, etnico e/o confessionale.

Leggere ora quanto ha denunciato il patriarca maronita – che si è pure recato in segno di solidarietà in tutto il sud del Libano nei territori bersagliati da Israele – è una cosa molto importante. Sappiamo, infatti, che monsignor Mousa el-Hage – questo vescovo maronita – si occupa anche della diocesi di Haifa in Israele.

Ed è accusato di collaborazionismo con Israele. Sui social media – evidentemente per mano di Hezbollah o di suoi affiliati-  el-Hage è accusato di aver fatto parte della delegazione che si è recata a far visita al presidente israeliano Herzog. Le parole di replica sono state pubblicate: «È una menzogna, (il vescovo) a quell’ora era impegnato nel vescovado». Che il patriarca Beshara Rai abbia voluto dare risalto a questa smentita parlandone nel suo sermone dell’ultimo dell’anno indica la gravità che attribuisce alla provocazione.

Mousa el-Hage è nel mirino di hezbollah da tempo, accusato di trasferire illegalmente denaro tra il Libano e Israele, mentre egli sostiene trattarsi delle donazioni dei fedeli ai loro parenti al di là del confine.

Nel clima di oggi, le accuse possono portare a conseguenze molto gravi. Certamente non è un caso che Mousa el-Hage sia compreso nella lista dei reprobi, assieme al vescovo maronita che opera in Giordania: anche la Giordania è un Paese nemico secondo i teorici della resistenza khomeinista iraniana, di cui il partito hezbollah è il capofila. Dunque, anche prendersi cura dei fedeli di Amman – per i social di hezbollah – è collaborazionismo.

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Torna la domanda: è dunque in atto un attacco politico premeditato alla comunità cristiana libanese?

Hezbollah non capisce il Libano o, meglio, non lo vuole capire affatto: la sua agenda non è libanese. In questo momento, tutto ciò che ruota intorno ai cristiani del Libano – e in particolare ai maroniti – ha a che fare con la questione della Presidenza della Repubblica. Questa carica, cruciale, spetta per convenzione non scritta – ma da sempre rispettata – ai maroniti. Il Parlamento libanese non riesce ad eleggere il nuovo Capo dello Stato ormai dall’ottobre del 2022. Nel mentre hezbollah non ammette candidature che non siano di granitica osservanza filoiraniana.

Poiché il patriarcato è il maggior sostenitore dell’urgenza di nominare il nuovo Presidente, non è forse in atto il tentativo di fare pressione sul patriarca perché aiuti o sostenga candidati graditi ad hezbollah? È una mia ipotesi.

Ma il dato, di cui – nella comunità internazionale – si dovrebbe tener conto, è un altro: ormai del Presidente del Libano non si parla neppure più, perché non si capisce più a cosa dovrebbe servire: il Libano ha imparato a vivere senza uno Stato e i libanesi sanno che lo Stato è archeologia politica.

Hezbollah compie scelte militari che determinano la fuga dei cristiani e che “liberano” il campo del sud, per rendere omogeneo il territorio e le sue genti, tutte sciite.

Un tempo il Libano era denominato “Svizzera del Medio Oriente”: non solo e non tanto perché il colpo d’occhio del paesaggio – con le mucche e le vallate verdi – poteva ricordare la Svizzera. No, l’idea era già quella di dividere il Libano e di farne una confederazione tra aree confessionalmente separate: qui i sunniti, lì gli sciiti, là i cristiani. Questa soluzione, caldeggiata anche da alcuni cristiani, sarebbe stata – e potrebbe ancora costituire – la fine del Libano, di cui Giovanni Paolo II ebbe a dire che è il Paese che incarna il messaggio del vivere insieme.

È forse questo l’esito a cui qualcuno sta, di nuovo, lavorando?

  • Tutte le puntate precedenti del Diario di Riccardo Cristiano possono essere lette qui.
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