Diario di guerra /55. Il fronte della resistenza

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In ogni discussione che coinvolge noi e gli altri, ognuno guarda prioritariamente in casa propria, alle conseguenze di ciò che è in discussione: alle conseguenze che ci toccano. Ma è importante guardare anche alla casa altrui, per capire cosa vi accada e quali siano le conseguenze per gli stessi altri.

Perciò mi appare, oggi, importante soffermarmi su un aspetto molto specifico: cosa si scrive sui media arabi ed islamici – almeno quelli a me accessibili – circa la richiesta di mandato di arresto presentata dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja per il leader politico di Hamas, Ismail Hanyeh.

Come è noto, infatti, in mezzo agli organizzatori del pogrom del 7 ottobre, c’è anche il suo nome, di cui è stato richiesto il mandato d’arresto: si tratta del leader politico del movimento islamico di Hamas. Non è un fatto irrilevante per il mondo arabo-islamico.

Al di là delle scontate parole di autodifesa, non mi è parso, però, che qualche grande testata araba si sia schierata per lui. Eppure, Hamas è la costola della Fratellanza Musulmana, la cui voce è sempre arrivata ai media della casa araba.

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Non ho trovato qualche nome autorevole che si stia stracciando le vesti per Hanyeh.  Devo dire che non ho trovato neppure plausi alla richiesta presentata dalla Corte. Mentre il viaggio di Hanyeh a Teheran per i funerali del presidente Raisi è passato come una semplice notizia di cronaca. Ma Hanyeh non è un Capo di Stato o di governo. Dunque, a mio avviso proprio questo suo viaggio ci dice che l’atto d’accusa non investe solo Hamas, bensì tutto il cosiddetto Fronte della resistenza: quindi un’ideologia nella sua integralità.

Sebbene i movimenti che fanno parte di questo fronte insieme ad Hamas – a cominciare da Hezbollah – abbiano sempre negato di aver partecipato all’ideazione del pogrom del 7 ottobre, tutti questi hanno sempre manifestato vicinanza, solidarietà, a volte encomi, per Hamas e il suo genere di lotta.

Si capisce che quella che viene denunciata è l’ideologia che fu fondata dal teocratico Sayyid Qutb – fatto giustiziare a suo tempo da Nasser – e poi trasformata in prassi di lotta e di governo da Khomeini. È questa la riflessione che a mio modo di vedere oggi serve. E che cerco di spiegare per sommi capi.

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Il cosiddetto fronte della resistenza è costituito da milizie khomeiniste, da regimi alleati che, dopo alterne circostanze, hanno raggiunto un’alleanza con Hamas (che non era e non è khomeinista). Questo fronte strumentalizza diverse rabbie popolari. L’alleanza con Hamas è usata nella chiave della diffusa solidarietà verso i palestinesi; quindi, per trasformarne la questione nazionale in una questione islamica, di rigetto radicale di Israele in quanto tale; nel nome di un tipo di islam che rifiuta ogni condivisione di uno ampio spazio che ritiene suo.

Così si fa della questione palestinese – che appartiene, ad esempio, anche ai palestinesi cristiani – una questione di appropriazione religiosa di uno spazio che si vorrebbe esclusivamente islamico, religiosamente governato. È esattamente questo il disegno khomeinista, la sua eresia teocratica. La questione palestinese per i khomeinisti non va affrontata e magari risolta con un compromesso, no! Essa legittima la trasformazione del terrorismo in resistenza, ai loro occhi resistenza islamica.

È stato Khomeini, per fare il più banale ma cruciale degli esempi, a introdurre nel pensiero islamico la figura del “kamikaze”, divenuto per opera sua addirittura un martire, benché l’islam condanni da sempre il suicidio. Con Khomeini gli attentatori suicidi sono divenuti eroi e “santi”, proiettando il pensiero islamico in un’avventura contro il mondo, perché di natura apocalittica.

L’espansionismo  khomeinista nel mondo arabo ha portato i suoi alleati – e poi  i suoi nemici – a crimini contro l’umanità: da parte di tutti i leader khomeinisti e  i loro alleati, a cominciare dal libanese Nasrallah, quantomeno per la sua partecipazione attiva al genocidio siriano, quindi all’ayatollah Khamenei, mandante – da ultimo – della sanguinaria repressione della protesta civile di “donna, vita, libertà”; dai laici antioccidentali suoi amici, come il laico Assad, o i  lontani generali laici algerini, ma da sempre ideologicamente vicini al regime siriano e che hanno partecipato alla decennale mattanza nel loro paese; fino agli alleati di Hamas, come si è già detto.

I loro nemici arabi giurati, decisi a fermare l’espansionismo dei khomeinisti, hanno usato gli stessi metodi, almeno nella guerra yemenita, dove c’è stata innegabilmente una fase genocidiaria: questo dicono molti esperti di quel conflitto che ha avuto, per protagonisti, i sauditi e gli emiratini.

L’intreccio di cause ed effetti di tutto questo è assai complesso, parlarne non può prescindere dal nazionalismo etnico turco, dai tempi del genocidio degli armeni. Ma mi fermo qui.

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In campo arabo, omettere questi discorsi non aiuta, certamente, a raggiungere la consapevolezza del fallimento delle ideologie e tiene in ombra il nuovo pensiero, quello della nonviolenza attiva: questa potrebbe trovare piena cittadinanza se si legittimasse un discorso davvero trasparente.

Non si può, però, negare che nella penisola arabica si osservano da tempo novità istituzionali importanti, segnali, di per sé, di un nuovo inizio: un new beginning arabo islamico. Le tante iniziative istituzionali per il dialogo interreligioso nei Paesi del Golfo ne sono la riprova complessa ma concreta.

Ma tale new beginning non può rischiare di essere solo un restyling, alla ricerca di una compatibilità col resto del mondo. La compatibilità è rilevante, probabilmente decisiva, ma non può giungere ai suoi obiettivi, se il cambiamento del discorso religioso non è accompagnato anche da una rifondazione dell’intera cultura politica araba.

Naturalmente, non esistono, nella storia, le scorciatoie. Penso che il mondo arabo debba procedere con tutta la fatica del caso, senza illusioni. La mia convinzione è che – culturalmente parlando – il mondo arabo debba partire dalla presa d’atto del fallimento di tutte le ideologie che ha coltivato, dei vari pan-islamismi e pan-arabismi che hanno prodotto ciò che gli arabi di tutto il Levante hanno oggi dinnanzi a sé: macerie.

La stampa araba può aiutare a mettere a fuoco tutto questo, seguendo diverse prospettive, ma comunque per favorire un processo che faccia emergere la società civile quale indispensabile protagonista del new-beginning. È questa la strada per uscire da quella che il grande intellettuale arabo, Samir Kassir, assassinato a Beirut probabilmente dal fronte della resistenza, ha definito «l’infelicità araba».

  • Tutte le puntate del Diario di Riccardo Cristiano possono essere lette qui.
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