Diario di guerra /37. Elezioni: l’Iran si prepara

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Associated Press/LaPresse

La «strage della farina» – oltre a costituire l’ennesima tragedia con più di cento persone morte semplicemente perché alla ricerca di cibo – si accavalla alle ore dichiarate decisive dei negoziati tra Israele e Hamas, da una parte, Israele ed Hezbollah, dall’altra. Non aggiungo nulla ad analisi tanto più accurate. Apporto solo qualche dato che possa aiutare ad immaginare quale sia oggi la realtà di Gaza.

Secondo l’UNICEF, a Gaza, 17.000 bambini sono privi o separati dai loro genitori: minori non accompagnati. L’Agenzia France Press stima che chi voglia acquistare cibo senza ritrovarsi nei tumulti che circondano i pochi camion con aiuti umanitari, debba spendere ben più di venti dollari per un chilogrammo di zucchero. Un altro dato: parlando al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, martedì scorso, il vicedirettore della FAO, Maurizio Martina, ha detto che il 97% dell’acqua freatica che si può estrarre a Gaza non è idonea al consumo umano.

È questo il contesto nel quale ci si avvicina al mese santo dei musulmani, il Ramadan. Un tempo che può diventare esplosivo, se prima del suo inizio, il 9 o 10 marzo, non si troverà il modo di proclamare almeno una tregua durevole accompagnata dal rilascio di quanti più ostaggi israeliani – donne, malati e anziani innanzitutto – nelle mani di Hamas dal 7 ottobre scorso. Capire se ci si potrà riuscire è impresa ardua.

Non è l’unica questione, a dir poco, bollente. C’è anche il «fronte Nord» – quello su cui, da ottobre, è in corso di fatto un confronto a fuoco sempre più intenso tra l’esercito israeliano ed Hezbollah – con intere comunità costrette a lasciare le loro abitazioni. Anche su quello si cerca un accordo. Anche quello è appeso a un filo. L’alternativa ad esiti minimamente positivi è l’estensione del conflitto.

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Ma le emergenze, in Medio Oriente, non finiscono mai. Un’altra milizia, filoiraniana come lo sono Hezbollah e, oggi, Hamas, è pure quella Houti dello Yemen, che sta indirizzando la sua minaccia terroristica contro la navigazione internazionale commerciale transitante nelle acque del Mar Rosso.

L’azione militare internazionale, guidata dagli Stati Uniti, non riesce ad averne ragione. Anzi. Ciò mette in pericolo la fonte primaria della già boccheggiante economia dell’Egitto, già posto in condizioni di estrema difficoltà dalla guerra di Gaza, col timore del sopravvenire di migliaia, o centinaia di migliaia, di profughi palestinesi dalla Striscia nel Sinai, con tutto ciò che, anche politicamente, ciò significherebbe, gravemente.

Ormai sull’orlo del collasso finanziario da anni, l’Egitto è stato letteralmente salvato da un mega investimento degli Emirati Arabi Uniti: 35 miliardi di dollari, non solo una boccata d’ossigeno per il regime di al-Sisi, assai poco attento al bisogno di respirare degli altri, come ho scritto in una precedente pagina di questo diario circa l’«imposta» richiesta ai palestinesi che cercano di fuggire dall’inferno di Gaza.

L’intervento di Dubai intende salvare l’Egitto per consentirgli di ottenere l’attesissimo prestito dal Fondo Monetario Internazionale. La crisi del canale di Suez non riuscirebbe così a strangolare Il Cairo.

Ma tutti i rischi permangono attivi. Le fiamme regionali potrebbero coinvolgere anche la Giordania, come ha fatto presente re Abdullah, accorso a Washington, a metà febbraio, con un bagaglio pieno di rimostranze.

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Tutto ciò è ricollegabile a un’altra notizia di queste ore: Hamas, Hezbollah e Houti sono, notoriamente, sullo stesso «asse della resistenza» che affianca nella regione l’Iran e, in particolare, i pasdaran iraniani; e il primo marzo a Teheran si è votato.

Molti hanno scritto che si tratta di un esercizio inutile di voto, posto che i candidati ammessi erano quasi esclusivamente i fedelissimi del regime dei mullah. Nessun altro esprime o proviene dal mondo della protesta del 2022; pochissimi sono del fronte dei riformisti. Ma il fatto che i «chierici» in lista siano sempre meno interessa e testimonia un evidente crollo del seguito popolare della gerarchia religiosa khomeinista.

Il vero dato politico però è altro: l’affluenza alle urne. Per la prima volta nella storia dell’Iran khomeinista il semi ufficiale centro di indagini demoscopiche ISPA ha fatto previsioni sull’affluenza oggi: 23% a Teheran e 38% a livello nazionale. Consideriamo che, nella precedente tornata elettorale, si era toccata l’affluenza più bassa di sempre, ossia il 42%.

A metà mattinata – diciamo intorno alle dodici ora locale – un utente iraniano è riuscito a mettere online un filmato assai interessante: vi si vede un seggio vuoto, senza un solo votante che entri o che esca, per tutto il tempo della ripresa, mentre di fronte al seggio si nota un affollatissimo negozio di generi alimentari. Intanto, dalla lontana regione del Beluchistan – da cinque giorni sotto piogge così battenti da far parlare di inondazioni – non si segnala l’arrivo di soccorritori, bensì delle schede elettorali.

I numerosi appelli a recarsi alle urne, di tutte le principali autorità politiche, religiose e militari del Paese, con toni ora suadenti ora minacciosi, non sembrano aver modificato la tendenza degli iraniani a boicottare un voto che, ancora, viene presentato di resistenza ai disegni di Stati Uniti e Israele. Mentre il nemico interno, per molti il più temibile, ha il volto di chi ha subito la feroce repressione nel movimento «donna, vita, libertà».

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Oltre che per il rinnovo del Parlamento, in Iran si vota anche per quell’Assemblea degli Esperti dell’Orientamento che è l’organismo chiamato a decidere quali candidati siano ammissibili o meno – senza mai spiegare perché sì o perché no – e che è arrivato a non accettare la candidatura dell’ex Presidente della Repubblica, Hassan Rouhani, che voleva far parte proprio della Assemblea. Non è stato ammesso, anche in questo caso, senza alcuna spiegazione. Sapremo più avanti se gli escamotage e le clientele, soprattutto fuori dai grandi centri abitati, consentiranno al regime di non trovarsi con numeri impietosi.

La necessità di procedere, comunque, con entrambe le elezioni, è dovuta, per molti, all’urgenza del regime di arrivare preparato ai prossimi eventi. Tra questi, oltre a quelli determinati dal quadro politico e militare della regione, la possibile sostituzione, per ragioni di età, della guida spirituale della rivoluzione: l’ormai anziano e malato ayatollah Ali Khamenei.

È l’Assemblea degli Esperti dell’Orientamento a scegliere la Guida Spirituale. L’impressione è che in questi tesi frangenti si sia ritenuto prioritario lavorare per puntellare la leadership dell’attuale Presidente della Repubblica, Mohammad Raisi: un nome in ascesa, un «religioso» in buon rapporti con gli apparati miliziani, a partire dall’elemento sempre più decisivo, il corpo dei pasdaran, i guardiani di una rivoluzione che ormai sembra sempre più nelle loro mani, più che in quelle dei mullah.

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