
Quasi rimosso, o dimenticato almeno da noi, Abdullah Ocalan il leader del PKK, formazione paramilitare con origini marxiste leniniste, torna al centro della scena del vasto mondo che fu ottomano.
Come accade da settimane, tutti a Istanbul, Ankara, Damasco, Erbil (capitale della regione autonoma del Kurdistan iracheno) e poi anche a Baghdad e Amman, aspettano il suo sospirato pronunciamento che dovrebbe annunciare la rinuncia alla lotta armata curda, atteso frutto di un lungo negoziato che si spera aprirebbe una stagione nuova (da costruirsi) in Turchia, la salvezza per la nuova Siria, favorendo l’invenzione di Stati plurali, non etnici, in questa tormentata regione.
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Per cercare di capire i molti livelli di questa partita a molti incastri dobbiamo partire da un dato di fatto semplice: siccome uno Stato curdo non esiste, esistono i curdi in molti Stati regionali, ovunque ai ferri corti con chi vi governa: Turchia, Siria, Iraq, Iran.
Vista in crisi la via indipendentista, i curdi si sono sempre più divisi: chi sta un po’ più avanti sono i curdi iracheni, che nel nord del Paese hanno una loro ampia autonomia, con qualche tensione a volte economica con Baghdad e ottimi rapporti con Ankara; le assicura vie commerciali ricevendo petrolio sotto costo.
Poi ci sono i curdi in Turchia: oggi gravitano intorno al nuovo partito, i democratici di DEM, che siedono nel Parlamento turco, con enormi difficoltà. I curdi siriani hanno storicamente avuto pessimi rapporti con Damasco che negava loro ogni diritto, poi Assad fece entrare i guerriglieri curdi del PKK in chiave anti turca; loro non avrebbero interferito negli affari siriani, solo combattuto Ankara.
Quando è comparso l’Isis, che si è rapidamente impossessato soprattutto dei loro territori, sebbene non solo loro e non solo di quei territori, i curdi soprattutto in Siria si sono uniti in questa lotta esistenziale contro l’Isis, con il pieno sostegno degli americani che li hanno armati e istruiti.
Così da anni, dopo la sconfitta dell’Isis, quella parte di Siria nord orientale è nei fatti autonoma, con le sue forze armate che, con forte presenza miliziana di curdi nati in Turchia militanti del PKK e continuano la non facile lotta contro l’Isis, ma anche contro la Turchia, che attribuisce loro attentati che hanno luogo sul suo territorio. Per questo Ankara dice di bombardare città e villaggi i curdi siriani, occupando snodi nevralgici.
Caduto Assad però il quadro è cambiato, le nuove autorità siriane rivendicano la ricomposizione del Paese e la costituzione di un esercito nazionale.
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A denti stretti i curdi siriani si sono detti favorevoli, ma chiedono si confermi l’autonomia amministrativa e che il proprio ingresso nell’esercito nazionale avvenga come un contingente unico, cioè con una catena di comando curda, dislocato in solitaria in quei territori delicatissimi, sebbene sottoposto ovviamente al ministro della difesa siriano. Questo è problematico per le autorità siriane, e per quelle turche che sostengono il governo di Damasco islamista come loro, ma anche per Ocalan. Il leader curdo sa bene che la trattativa con Ankara riguarda anche i militanti o miliziani del PKK all’estero, quindi soprattutto in Siria; la rinuncia alla lotta armata che lui proporrebbe, per ottenere contropartite in Turchia, non può fermarsi sulla linea del confine.
Il compromesso dunque riguarda entrambi i territori. Come tanti altri stati della regione, la Siria si chiama ancora Repubblica Araba, i curdi sembrano già per questo cittadini di serie b: ma i guerriglieri curdi di Turchia non sono siriani, e nell’esercito siriano per le autorità siriane non possono entrarci, nè Ankara lo accetterebbe. Però le autorità siriane hanno aperto le porte dell’esercito a jihadisti stranieri che hanno combattuto con loro contro Assad.
È un primo nodo, rilevante, da risolvere. Il secondo è l’ingresso autonomo dei curdi nell’esercito: una richiesta troppo alta, mentre troppo bassa è la controproposta siriana: “dovete entrare alla spicciolata”. Qui ci si è incastrati da settimane, ma i curdi di Turchia vorrebbero procedere, vorrebbero migliorare la loro vita. Nessuno ha ceduto sin qui, tutti hanno tenuto le loro carte in mano.
Così gli islamisti di Damasco hanno escluso i curdi dal primo incontro di Dialogo Nazionale sulla nuova costituzione, convocato per elaborare insieme, tra tutti i siriani, la base della Costituzione che li dovrebbe unire. Siccome i drusi hanno fatto sin qui la stessa scelta, Damasco ha escluso anche loro. È stato un pessimo inizio: come si fa a parlare di costruire insieme ex novo il Paese se alcuni soci non vengono invitati? Ma se i soci avessero ottenuto l’invito senza fare alcuna concessione, nessun’ altra milizia avrebbe accettato di entrare nell’esercito e la nuova Siria non si sarebbe avvicinata.
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Ocalan ha problemi anche nel suo partito, ma non è il solo: i falchi esisteranno nel PKK come esistono anche nel backstage di tutti i contraenti di questo intricato e cruciale patto. Servono sostegni esterni. Uno è arrivato dall’Europa, un altro dall’Arabia Saudita. Bruxelles, sollecitata soprattutto nel recente summit voluto da Parigi, ha accettato di ridurre progressivamente le sanzioni, in particolare nel settore finanziario, vincolando la scelta a progressi della costruzione di un sistema democratico e dando così un aiuto essenziale a chi governa un Paese con l’80% della popolazione in estrema povertà.
È un incentivo che i sauditi avrebbero cercato di portare nella realtà: alcuni sussurrano che Riad avrebbe aiutato le autorità siriane a immaginare una via d’uscita che tenesse conto dell’offerta/richiesta europea proponendo una suddivisione dei militari curdi in battaglioni, non tutti da dislocare nel nord est, ma con uno di essi specializzato nella lotta al terrorismo: un passo che mirerebbe a rassicurare anche gli americani – i loro interlocutori proseguiranno il lavoro contro l’Isis.
Tra pochi giorni la Siria, hanno promesso gli attuali leader, dovrebbe darsi un governo nuovo, provvisorio ma inclusivo di tutte le realtà siriane. Il grande negoziato dunque dovrebbe andare in porto prima di allora. Se ci si riuscisse sarebbe un passo nella giusta direzione per tutti.
Ankara, che teme il protagonismo militare israeliano in Siria, avrebbe accettato che il discorso di Ocalan non sia scritto, come una normale la lettera di un detenuto, ma registrato, come il messaggio televisivo di un leader. Ma oltre a concedere l’amnistia a tutti i quadri del PKK ad eccezione soltanto di chi si è macchiato dei reati più gravi, non sappiamo cos’altro offrirebbe Erdogan ai curdi di Turchia, che non ha proferito parola al riguardo.
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Le incognite non sono poche, gli incastri sono tanti. Erdogan ha interessi spicci (modificare la costituzione per potersi ricandidare alla presidenza ancora una volta – e questo senza i curdi non potrebbe farlo perché non ha i numeri in Parlamento), ma anche alti: presentarsi ai turchi come l’uomo che posto fine a 40 anni di guerra. Ocalan darebbe ai suoi una speranza e i siriani potrebbero sperare di vedere un embrione di Stato, così che dopo l’assolutismo totalitario di Assad si cominci a ragionare in altro modo.
Ma il grande negoziato ha tanti nemici e mille possibili inciampi: questa volta sembrano arrivare le ore decisive, sebbene sia ben noto che da quelle parti l’arte più nota è quella rinvio. Resta il fatto deprimente che il dialogo siriano è stato gestito malissimo; se l’idea fosse ancora quella di qualcuno che rappresenta la sua fede o la sua etnia e basta, come sembra per tanti, si resterebbe al modello colonialista, quello dei francesi di un secolo fa.
E gli islamisti arrivati al potere porterebbero come sola novità quella di considerasi la maggioranza numerica, deputata per fatto confessionale, non politico, a comandare. L’amarezza di molti siriani è questa: nessuno ha coinvolto nel dialogo le periferie, che sono ovunque e chiedono di poter dire la loro, parlando dei problemi dei territori, che riguardano tutti gli abitanti, a prescindere dalla loro appartenenza etnica o confessionale.
La strada comunque sarà molto lunga e tortuosa, ma l’importante sarebbe provare a percorrerla. La frase da citare in chiusura è quella che alcuni attribuiscono a Ocalan: “prima di morire vorrei vedere la pace”. Il problema è che senza Stati plurali sarà difficile.





