Reportage dall’Ucraina

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guerra

Ettore Fusaro è membro del network Caritas in Ucraina per Caritas Italiana. Sulla strada del ritorno dalla sua ultima missione, gli abbiamo chiesto un punto sulla situazione nel martoriato Paese, sugli interventi caritativi, sui gesti a valenza di pace. L’intervista è a cura di Giordano Cavallari.

  • Caro Ettore, dove sei stato nelle ultime settimane, in Ucraina?

Ormai faccio pianta stabile, da due mesi, a Leopoli. Una decina di giorni al mese la passo anche a Kiev. Sono uscito da pochi giorni da Kiev.

In precedenza, sono stato a Zaporizhia. Ora sto attraversando la Polonia in auto per ritornare per qualche giorno in Italia e rinnovare i documenti che mi consentiranno di ritornare presto in Ucraina.

  • Dove vivi in queste lunghe trasferte?

A Leopoli vivo in un piccolo appartamento in affitto, quanto basta per disporre di uno spazio privato per ricomporre le energie. Nei giorni a Leopoli condivido gli spazi comuni dell’ufficio del network Caritas con alcuni colleghi europei.

Mentre a Kiev mi muovo negli uffici delle due Caritas nazionali – latina e grecocattolica – e, per dormire, mi appoggio ad un albergo (sempre lo stesso), oppure vengo ospitato da parrocchie e istituti religiosi. Mi sposto necessariamente con la macchina – in genere almeno con un collega per ragioni di sicurezza – per coprire le lunghe distanze ucraine: tieni conto che da Leopoli a Kiev ci sono 7-8 ore di viaggio e altrettante da Kiev a Zaporizhia, ad esempio.

Vita di guerra
  • Qual è il tuo vissuto in un Paese in guerra?

A Kiev spesso dormo nel bunker dell’albergo. Spengo il telefono e cerco di dimenticarmi degli allarmi e delle esplosioni: è la condizione per poter essere sufficientemente lucido durante il giorno in tutti gli appuntamenti quotidiani. Se gli allarmi capitano durante le ore del lavoro – come tutti – vado nei rifugi designati dai protocolli di sicurezza, per poi riprendere le attività.

Dopo 2 mesi e mezzo di relativa tranquillità, il mese di maggio è stato terribile in quanto a colpi, esplosioni e bagliori nel cielo di notte.

Per certi versi mi sono abituato a vivere così. Ma ora che sto tornando in Italia, mi chiedo come tornerò a dormire nel mio letto: con quali pensieri.

  • Così vivono “tutti” in Ucraina.

Sono tutto sommato un privilegiato. Penso a certi colleghi e, soprattutto, alle famiglie ucraine che non hanno un rifugio così vicino. Le famiglie sono costrette a svegliarsi di notte con i bambini, a lasciare tutto e a correre nei tunnel della metropolitana. I tempi poi sono sempre molto stretti.

Quando scattano gli allarmi per i missili ipersonici, ci sono soltanto 4-5 minuti per raggiungere il riparo. Tieni conto poi che io ho esperienza soprattutto di Kiev, la città che è più attrezzata per difendersi: non è la stessa cosa in altre città e villaggi. Nelle zone del fronte l’esposizione al pericolo è chiaramente massima.

La condizione psicologica di chi, come me, se ne può comunque andare è poi ben diversa da chi – ad esempio un uomo dai 18 ai 60 anni – non se ne può andare dall’Ucraina o non saprebbe neppure dove andare.

È difficile raccontare quel che si prova e ciò che prova la gente ucraina in queste situazioni.

  • A cosa hai dedicato, in particolare, quest’ultima missione?

Con i colleghi europei – e naturalmente in costante rapporto con la direzione di Caritas Italiana e i colleghi in Italia – sto tracciando un bilancio e la chiusura amministrativa dei progetti del primo anno in Ucraina, per mettere quindi a fuoco, con le Caritas locali ucraine, nuovi progetti, nella continuità.

  • Dall’Italia ti sposti da solo?

La collega Nicoletta Sabbetti ha realizzato già qualche missione in Ucraina. La direzione sta vedendo di incrementare le forze di Caritas Italiana anche con i giovani dei Corpi civili di pace: un paio di giovani dovrebbero presto fare stanza a Iaşi in Romania, tra Moldavia e Ungheria, perché il compito è accompagnare interventi in più Paesi.

La Caritas
  • Le delegazioni regionali Caritas e le Caritas diocesane italiane sono coinvolte in questo network?

La “rete” Caritas e la sua ricchezza di espressioni è molto ampia. Alcune regioni e Caritas diocesane hanno intrapreso iniziative con C.I., altre autonomamente: noi restiamo a disposizione di tutti i referenti per offrire le nostre letture, indicazioni, contatti con le Caritas nazionali ucraine e con le Caritas locali ucraine. Siamo a disposizione anche per la sicurezza di chi si trova o vorrà andare in Ucraina, particolarmente ora, in una situazione, di nuovo, molto delicata.

Posso dire di un progetto assai significativo che sta coinvolgendo alcune regioni e diocesi italiane volto alla ospitalità di gruppi di minori ucraini durante l’estate, con relative attività di animazione, nel segno dell’ecumenismo, della fraternità, della pace.

L’Ucraina è peraltro un Paese molto grande, con molte relazioni e legami precedenti alla guerra, con l’Italia. È quasi impossibile conoscere tutto: continuamente vengo a sapere di generosi intrecci tra diocesi, parrocchie, congregazioni e movimenti. Ne parlavo qualche tempo fa con l’ambasciatore Pier Francesco Zazo. È una bella scoperta che dà grande soddisfazione: c’è molta Chiesa e molta Italia in Ucraina.

Per questo, dobbiamo migliorare lo scambio di informazioni tra le realtà operanti, perché tutta la ricchezza che c’è venga meglio alla luce.

  • Quali sono dunque gli indirizzi progettuali? La volta scorsa mi dicevi delle gravi difficoltà create dalle continue emergenze (qui).

Certamente le continue emergenze costituiscono un problema non di poco conto. Come ho detto, sul fronte della guerra le cose vanno persino peggio, ma là ci si va davvero in pochi, a sostenere l’emergenza, mentre, nel resto del Paese – al centro e all’ovest – è ora di avviare decisamente la fase che a me piace definire di “riabilitazione”, in una prospettiva di ripresa della vita piena.

  • Cosa intendi per riabilitazione?  

Faccio esempi. Ci sono molte famiglie e persone – soprattutto donne – che sono tornate in Ucraina dopo i primi tempi della invasione: sono tornate dai Paesi europei, Italia compresa, alle loro località o a quelle in cui hanno trovato nuova sistemazione.

Ebbene queste persone – che per lo più hanno scoperto la Caritas in Europa – vogliono ora avere parte attiva nelle loro Caritas, in Ucraina, vogliono cioè darsi da fare, aiutando i connazionali più sfortunati; vogliono così riprendersi perché l’intera popolazione si riprenda. Chiaramente hanno bisogno di essere aiutate nella loro organizzazione e con risorse, ma la “spinta” è loro.

Cosa si può fare?
  • Si può parlare anche di progetti di ricostruzione?

Se intendi ricostruzione edilizia, sono molto cauto e devo meglio distinguere. Come ho detto, sono stato pochi giorni fa nella zona di Zaporizhia: lì parlare di ricostruzione è impensabile, se non per la sistemazione essenziale delle porte e delle finestre delle abitazioni che possono essere ancora abitate. Così è lungo tutto il corso del fronte.

Nel mentre si può già parlare di una ricostruzione – anche edilizia – dei servizi di cui c’è maggior bisogno e in cui la parola ricostruzione sta bene insieme con la parola riabilitazione, ma in altre parti del Paese.

Faccio per ciò l’altro esempio più chiaro e concreto: il ministero dei servizi ucraini ci sta chiedendo di pensare a servizi per la riabilitazione delle persone ferite, mutilate e invalide a vari gradi di gravità. Effettivamente l’impatto visivo delle persone che hanno subito menomazioni è impressionante: posso testimoniarlo.

Il governo sta perciò creando un grande Centro di riabilitazione a Leopoli e sta chiedendo a ONG, Caritas, Congregazioni presenti, di lavorare, non tanto sulla struttura o sulle strutture murali e le attrezzature, e neppure solo sugli aspetti sanitari, fisici o riabilitativi, quanto su quelli relazionali, sociali, sportivi, educativi e, nella misura del possibile, lavorativi. Si è capito quanto sia importante – fondamentale – recuperare la salute mentale e la voglia di vivere delle persone dopo i traumi della guerra. Non possiamo che essere d’accordo e adoperarci per questo.

  • Di quali altri progetti “concreti” puoi dire?

La tipicità dei progetti caritativi delle Chiese – così possiamo continuare a chiamarli – è relazionale, di comunione, di fraternità o di “semplice” umanità. Non andremo perciò a realizzare – altri esempi – progetti di sminamento dei territori (quelli che competono agli Stati, penso), ma andiamo a realizzare progetti di riduzione del rischio delle mine, facendo informazione e formazione nelle scuole.

Stiamo pensando ed allestendo inoltre diversi servizi per i minori con equipe sanitarie e psico-sociali nella zona est del Paese, quella che ha accolto il maggior numero di sfollati da tutte le aree di guerra.

Stiamo quindi partecipando molti progetti di altre ONG, Congregazioni religiose e Organismi di volontariato internazionale, anche nella regione martoriata – ora pure allagata – di Kherson.

Abbiamo aiutato l’eparchia cattolica di Kiev ad avviare la mensa per i poveri sfollati e, con l’associazione Papa Giovanni, un Centro per minori nella stessa diocesi di Kiev. Queste realizzazioni vanno avanti.

Le direttrici di intervento sono sostanzialmente tre: supporto nelle emergenze, opere di recupero e di riabilitazione, programmi di formazione rivolti alla economia sociale. Dobbiamo rispondere, innanzi tutto, alla domanda di futuro che viene dalla gente ucraina.

Le Chiese
  • Il network Caritas collabora direttamente con altre Chiese, oltre le cattoliche?

La collaborazione avviene di fatto. I servizi della Caritas sono fruiti da tutte le comunità di appartenenza e i problemi sociali sono affrontati insieme. Non ci sono chiusure nei confronti delle opere cattoliche, anzi, mi sembra che i livelli istituzionali delle Chiese ortodosse le guardino con favore.

Ricordo qui una bella storia vissuta con le suore salesiane di Kiev, che hanno informalmente avviato un doposcuola e un intrattenimento per i bambini e i ragazzi delle famiglie ortodosse sfollate, con i padri al fronte: è una realtà che sta facendo contenti tutti, anche le autorità.

  • Si è detto e scritto che l’intervento umanitario della Chiesa cattolica sia compreso nei dialoghi che il cardinale Zuppi ha intrattenuto a Kiev. Ti risulta?

Non lo so, ma penso proprio di sì.

Della visita ho condiviso lo stile discreto, fatto di poche parole – soprattutto attraverso i media – fatto di ascolto e di gesti essenziali. È lo stile giusto, secondo me, per promuovere la pace possibile.

Zuppi è venuto a Kiev per testimoniare che Papa Francesco è in Ucraina, con la Chiesa cattolica, anche con la Chiesa italiana: si tratta di una presenza persino fisica, assidua, concreta, multiforme, generosa, come ho detto. Tutto questo non viene ignorato dal governo e dal popolo ucraino. Ed è questa la sola realtà che possa portare da qualche parte. Come sempre: la carità!

  • Ettore, cosa vuole la gente? Non è forse stanca di guerra? Accetterebbe ora, secondo te, una trattativa con l’aggressore, pur di finirla questa guerra?

Certamente c’è stanchezza. Il mese di maggio è stato pesantissimo per la popolazione con la ripresa massiccia dei bombardamenti dalla Russia. Ma quel che io colgo con chiarezza – fatte salve le riserve che comunque non assumono forme oppositive – è che la gente non vuole cedere, non vuole desistere, vuole andare avanti. Paradossalmente, il crollo della diga di Kakhova con tutto quel che ne consegue, ha rinvigorito le motivazioni e rinsaldato le fila. La popolazione ucraina mi sembra ancora molto unita, compatta e determinata.

Per fare anche qui un esempio, posso dire che molte persone sono volontariamente partite per portare il loro soccorso agli abitanti della zona del disastro, sebbene abbiano di che pensare per sé stesse.

  • Sicuramente ti sarai aggirato per le chiese e sarai andato a messa: cosa hai visto?

Ho visto quel che tutti gli occidentali vedono, rimanendone colpiti, ossia una pratica religiosa molto fervida, partecipata, coinvolgente. Molto probabilmente era così anche prima della guerra.

Ma penso di poter dire che questo clima doloroso abbia rigenerato la pratica religiosa e conferito un tenore di “fede” che non può che riguardare l’intimo rapporto di ciascuno col Signore e le relazioni interpersonali nelle comunità. Si tratta, del resto, di un effetto già notato in tutte le situazioni di disdetta grave: da una parte c’è solo la disperazione, dall’altra c’è la fede, l’amore, la speranza.

Per conoscere nel dettaglio e sostenere i progetti di Caritas Italiana in Ucraina clicca qui.

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