
Ci sono tanti modi per ricordare il tremendo massacro di Sabra e Shatila, protrattosi dal 16 al 18 settembre 1982.
Sabra e Shatila sono campi profughi palestinesi alle porte di Beirut. Per alcuni è giusto evidenziarne il significato nella storia della tragedia palestinese, soprattutto per la responsabilità indiretta dell’esercito israeliano.
È quello che ha fatto Jean Genette, tra i primi ad arrivare sul posto prima che l’esercito libanese scavasse le fosse comuni, e scrisse il celebre racconto “quattro ore a Shatila”. Erano anni che questo affascinante e controverso scrittore francese aveva smesso di scrivere.
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Per i libanesi Sabra e Shatila è soprattutto un orrore della storia del loro Paese, della guerra civile che li ha dilaniati dal 1975 al 1990, per il ruolo di protagonisti che vi svolsero i falangisti cristiani autori del massacro.
Un grande intellettuale libanese ha visto il valore della ricostruzione e del racconto in funzione della riconciliazione. Così lui ha voluto raccontare in un film il punto di vista degli autori del massacro. Per aggiungere qualcosa a questo punto di vista occorre anche entrare nel ciclo della violenza nel quale si colloca il massacro e il feroce accanimento su corpi inermi di rifugiati palestinesi nei campi di Sabra e Shatila, alle porte di Beirut.
Vite distrutte, con violenza efferata, vite di anziani, uomini, donne e bambini: all’inizio si parlò di alcune centinaia, poi il conto è salito fino alla cifra indicata dalla Croce Rossa: 2.400 vittime, per fonti palestinesi almeno 3.000, chiusi con altre numerose migliaia di esseri umani in quei campi, da quando furono espulsi dal nord d’ Israele nella guerra del 1948.
All’inizio quei campi erano stati concepiti per poche migliaia di profughi, con gli anni divennero decine di migliaia. Il massacro, cominciato il 16 settembre 1982 e protrattosi per due notti e tre giorni, l’Onu lo definì un atto di genocidio.
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Se si vuole tentare di entrare in quella infernale violenza bisogna tornare indietro di almeno di due giorni, al 14 settembre 1982, quando fu ucciso il neo-eletto e non ancora insediato nuovo presidente libanese Bashir Gemayel.
Cristiano maronita, Gemayel era stato un protagonista dello scontro miliziano, aveva unito i cristiani contro i sostenitori dei palestinesi, era voce comune definirlo “vicino a Israele”, ma aveva rifiutato – proprio in quei giorni – un accordo di pace propostogli dal premier israeliano Begin.
Poco prima di essere ucciso, mentre parlava, disse che avrebbe guidato un Libano “indipendente”; parola importante, per i molti attori coinvolti nella tragedia libanese.
Gemayel per i suoi nemici era il male, mentre era amato da molti cristiani, maroniti e ortodossi; fu un trauma per molti di loro la mattina in cui fu ucciso dalla bomba sistemata a poca distanza dal palco dove parlava da Habib Shartouni – membro del partito Sociale Nazionale Siriano (PNSS), che aveva sistemato in gran segreto una potentissima bomba nell’appartamento di sua sorella, attiguo alla sede delle Falangi: lo fece detonare da un bar lì vicino.
Fu presto arrestato, ma solo nel 2017 è stato condannato a morte in contumacia per quel crimine. Detenuto per anni senza processo, fuggì nel 1990 in Siria dove è vissuto fino al 2004. Chi da sempre aveva capito che il vero mandante dell’assassinio era Assad non si sbagliava.
Non deve sorprendere: nel 1976 un altro massacro di palestinesi era avvenuto nel campo di Tal al-Zataar, sempre per opera di milizie cristiane, quella volta però con la copertura dell’esercito siriano. Ma la storia non si capisce se non si entra anche negli incubi di molti cristiani.
Quando l’Olp giunse a Beirut con i suoi feddayyn, il fondatore delle falangi cristiane, Pierre Gemayel, non era un loro nemico, tutt’altro. Riteneva che in Israele sarebbe dovuto nascere uno stato binazionale, come in Libano per musulmani e cristiani.
Ma l’arrivo dell’OLP gli fece temere che il disegno fosse cambiato: i palestinesi erano quasi tutti musulmani e i musulmani sostenevano la loro causa: si voleva cambiare il rapporto demografico tra musulmani e cristiani, qualcuno pensava di marginalizzare la sua comunità? La forza militare dell’Olp indusse a temere, non ci fu fiducia reciproca, i cristiani vennero ritenuti amici di Israele. E in parte lo divennero.
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Torniamo al 1982. Per reazione all’uccisione del loro leader carismatico, Bashir Gemayel, che doveva salvare i cristiani e il Libano dallo sfacelo della guerra civile cominciata ormai da sette anni, un gruppo di miliziani delle falangi maronite che Gemayel aveva fondato, guidato da Elie Obeika, decise di vendicare il suo assassinio facendo strage di palestinesi; per loro era ovvio che i responsabili dell’assassinio non erano i servizi segreti siriani, ma i miliziani palestinesi. La zona era occupata dall’esercito israeliano, che circondava i campi con i suoi carri armati, che non intervennero per impedire il massacro.
La notizia di quanto accaduto a Sabra e Shatila determinò una forte reazione di piazza in Israele e fu istituita una commissione d’inchiesta che indicò la “responsabilità indiretta” nel massacro dell’esercito israeliano. Sharon, nonostante iniziali resistenze, si dovette dimettere da ministro della difesa.
Ma, come ha ricordato Gabriele Eschenazi sul sito della fondazione Gariwo, ha sempre negato: “Lo fece già nel 2002 quando citò in giudizio il settimanale Time, che aveva insinuato che Sharon avrebbe concordato con i falangisti una vendetta nei confronti dei palestinesi dopo l’assassinio del leader cristiano-maronita Bashir Gemayel. Sharon vinse la causa e Time fu costretto a risarcirlo”.
La Commissione d’inchiesta istituita in Israele ammise la responsabilità indiretta dell’esercito israeliano, che occupava militarmente la zona e quindi aveva le conseguenti responsabilità, per non aver saputo prevenire né stroncare il massacro.
Allargando il discorso è interessante quanto scrive sempre Gabriele Eschenazi, nel citato articolo su sito Gariwo; tutta l’operazione “pace in Galilea”, come si chiamò l’invasione israeliana del Libano, si rivelò un boomerang, poiché “dichiaratamente lanciata per difendere i villaggi israeliani del nord dagli attacchi dell’artiglieria palestinese, ma in realtà pensata da Sharon per cambiare il volto del Libano, che, senza l’Olp, finì progressivamente sotto il controllo della Siria di Assad tranne una ‘zona di sicurezza’, che Israele tenne sotto controllo fino al 2000 non senza pagare un alto prezzo di sangue”.
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E Elie Obeika? Dopo la fine della guerra civile, nel 1990, lui fu ministro in diversi governi libanesi, per molti anni, sempre su “designazione siriana”, in alcuni casi il suo portafoglio è stato addirittura quello per i rifugiati interni, fino a quando fu assassinato.
Questo risvolto è sovente sottovalutato ma inconfutabile, tanto che sebbene appaia assodato che il suo passaggio con Damasco sia successivo al massacro, va riferito che alcune fonti arrivano a sostenere che l’ordine stragista gli sia arrivato da alti graduati siriani.
Presentata sommariamente così, la storia del massacro di Sabra e Shatila porta in primo piano quattro aspetti rilevanti: la reazione della piazza israeliana, che vide, secondo le cronache del tempo, 400mila persone radunarsi a Tel Aviv per esprimere la propria indignazione e favorire l’istituzione della commissione che indagò e determinò l’abbandono del ministero della difesa da parte di Sharon.
Quindi la contenutezza della consapevolezza cristiana, fuori dal Libano alle volte inconsapevole del ruolo svolto da miliziani cristiani nel massacro. Poi la capacità del regime di Assad di arrivare a imporre Elie Obieka addirittura come ministro. E infine il tabù libanese, che ha nascosto la memoria sotto il tappeto, rimuovendo la guerra, e con essa Sabra e Shatila.
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Massaker, premiato al Berlino Film Festival, è il film realizzato da tre registi di cui si è accennato all’inizio: è opera dello sciita libanese Lokman Slim, di sua moglie Monika Borgmann e di Herman Theissen.
È interessante ricordare che ci volle tantissimo tempo per produrre il film perché i primi cinque falangisti che accettarono di raccontare cosa fecero durante il massacro, con i volti oscurati, furono arrestati e accusati di aver mentito. Il film non era gradito dalle autorità libanesi, e si dovette ripartire da zero. I racconti divennero sei, i protagonisti hanno sempre i volti oscurati.
Slim nel 2021 è stato ucciso da Hezbollah, il partito khomeinista che emerse in Libano proprio nel tempo di Sabra e Shatila. Sebbene ancora non ci sia una condanna, si sa che lo hanno ucciso per strada, lasciandone il corpo poco fuori Beirut: un messaggio sui social del figlio di Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, sebbene poi rimosso, indica la loro responsabilità.
Con i quattro anni dedicati alla realizzazione del film Slim ha rotto un tabù, anche se ben presto Massaker non è stato più proiettato in Libano. Il racconto fa emergere lo slogan dei falangisti entrati nel campo: “giovani e vecchi, bambini tenuti in braccio, non mostrare pietà”.
Un altro dei sei intervistati dice che volevano dare un messaggio, “ma non so bene a chi…”. Ma ancor più importante è la valutazione di un critico cinematografico per il quale nelle testimonianze “alberga una sconcertante infantilità giocosa”, che fa delle armi “funerei giocattoli nelle mani sbagliate”.
È proprio quello che dal capo opposto della barricata scriveva già allora il leader del fronte avverso, Kamal Joumblatt: “la battaglia sembrava un gioco per tutti i giovani. […] Le ideologie, così come la cattiva educazione familiare o scolastica, li aveva pervertiti. Rubare un’automobile per loro era “sgraffignare”. […] Noi abbiamo bisogno di questi bambini strani e maturi per la battaglia. Devo ammettere che malgrado tutte le loro malefatte li ho molto amati. Almeno non erano ipocriti”.
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Nel 2005, anno di produzione del film, intervistato da The Guardian Lokman Slim disse che ha contribuito a realizzare questo film nella speranza che aiutasse la riconciliazione: “Io non credo che ci siano vittime e perpetratori (nella guerra civile libanese). Per me ogni perpetratore era una vittima, perché amputato di una parte della sua umanità e questa amputazione ne ha fatto un killer. Se qualcuno è al tempo stesso un perpetratore e una vittima, questo lo rende in qualche misura meno responsabile di ciò che ha fatto? No. Sin quando non riconosciamo quanto abbiamo fatto l’uno all’altro non raggiungeremo mai una vera riconciliazione.”
Questo discorso ci porterebbe molto lontano, ovviamente anche all’oggi, ma il guaio è che questo discorso più che portarci lontano sta diventando lontano da noi.





