
Famiglia curda di Afrin rifugiata in una caverna a causa delle operazioni militari della Turchia.
I giornali e le grandi agenzie di stampa ci informano che un accordo è stato raggiunto al Senato e alla Camera dei Rappresentanti negli Stati Uniti e presto tutte le sanzioni che Donald Trump non poteva togliere alla Siria con la sua decisione presidenziale dovrebbero essere rimosse.
Il voto finale dovrebbe arrivare in tempo per la fine dell’anno e consentire così alla nuova Siria di cominciare a camminare. Ma il governo di Damasco dovrà fornire periodici e dettagliati rapporti che dimostrino di “rispettare i diritti delle minoranze etniche e religiose”.
E qui nasce il problema: perché quelle persone sarebbero “minoranze”? La nuova Siria deve avere un governo espressione della maggioranza etnico-confessionale? È un governo confessionale quello che si chiede? Non è questa l’origine di tanti, troppi guai?
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Molto spesso si parla di questi Paesi come di un “mosaico”, un modo di dire che senza che noi si riesca ad accorgercene può rimandare l’idea di gruppi chiusi, non comunicanti, come se le comunità vivessero separatamente l’una dall’altra, mentre vivono nelle stesse aree, nelle stesse città, molto spesso negli stessi quartieri.
Alcuni disastri umani gravissimi, autentici crimini contro l’umanità, dipendono proprio dall’incapacità di costruire in questi Paesi dei veri e propri Stati basati sui diritti di cittadinanza, e quindi Stati del vivere insieme.
Un disastro che in questi giorni torna in primo piano in Siria è quello di una disgraziata città, Afrin. Lì per i curdi di Afrin è facile dire che la loro unica colpa è quella di essere nati sul lato sbagliato del fiume, non il piccolo fiume che scorre attraverso la città, ma il vicino e decisivo Eufrate.
Siccome la maggioranza dei curdi stanno dall’altra parte dell’Eufrate, i turchi hanno temuto che i curdi siriani potessero rivendicare un loro Stato fino ad Afrin, quindi prendendo il controllo di un tratto importantissimo del fiume Eufrate e così hanno riservato alla maggioranza curda di Afrin il destino peggiore: da anni vivono in campi profughi dove sono stati scacciati dai turchi o da milizie loro alleate.
Le autorità della regione autonoma curda di Siria gli danno 100/150 dollari al mese per sopravvivere. Ma siccome l’accordo tra nuova Siria e curdi non si trova, l’accordo per ricreare una vera unità unità nazionale non arriva, il governo di Damasco blocca il transito delle merci sulle strade che collegano quell’area al resto della Siria e i prezzi aumentano.
Sharaa si era recato ad Afrin nel passato mese di febbraio, aveva promesso di affrontare la questione e alcuni curdi sono tornati in città, ma per rientrare in possesso dei loro beni devono presentare i titoli originali di proprietà, mentre chi si è installato nelle loro case non deve dimostrare un bel niente.
Afrin era famosa per una qualità rara, i matrimoni misti, tra curdi e sunniti, aleviti e cristiani e così via. Tutto questo oggi è un ricordo di pochi. Afrin deve essere curda rendendo cittadini di serie b la sua popolazione variamente araba, o deve essere arabo-sunnita rendendo cittadini di serie b i curdi e tutti gli altri? O deve essere tutta di un solo gruppo etnico o confessionale?
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Questo problema non è solo il problema Afrin. Il presidente provvisorio della Siria, Sharaa, è il presidente di tutti i siriani o rappresenta la sua maggioranza sunnita? Un sunnita dunque deve per forza essere d’accordo con lui e le sue scelte solo perché sunnita? E chi sono gli interlocutori di Sharaa? Per esempio, per quanto riguarda i cristiani e i loro diritti, deve parlare con i leader di un partito cristiano, o con i patriarchi delle Chiese cristiane? Se Sharaa incontra, come fa, i patriarchi, perché lo fa? Perché lui ha le prerogative che aveva al tempo dell’impero Ottomano il sultano, che guidava la comunità musulmano-sunnita e proteggeva, in cambio di una tassa, le minoranze monoteiste?
Ma anche il Sultano avvertì il bisogno di una riforma e con la famosa stagione delle riforme si creò la cittadinanza ottomana; c’era una religione di Stato, ma tutti divennero cittadini, grazie alla riforma dello statuto personale. È interessante poi notare che uno dei più illustri studiosi di Medio Oriente, Bernard Lewis, ci dice che alcuni patriarchi di Istanbul non furono soddisfatti: riferisce che nei diari di un protagonista di quella stagione, Cevdet pascià, costoro lamentavano che prima venivano sì posposti ad alcuni, ma comunque anteposti ad altri.
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Il metodo di governo post-ottomano ha visto spesso e volentieri governi di despoti espressioni di minoranze: il caso più noto è quello degli Assad. Quasi tutti questi governi si sono basati sulla lealtà tribale, ma non solo. Quando nel 1920 si insediò a Damasco il generale Henri Gouraud, il suo segretario, il diplomatico e visconte Robert de Caix de Saint‑Aymour, gli disse (stando alla ricostruzione storica di Peter Shambrook) che a suo avviso erano disponibili solo due opzioni: “costruire una nazione siriana che non esiste, ammorbidendo le profonde frizioni che la dividono, o coltivare e mantenere questo fenomeno, che rende necessario il nostro intervento e il nostro arbitrato. Devo dirle che la seconda opzione è la sola che mi interessi”. Governare acuendo le tensioni o frizioni confessionali è il metodo al quale da allora molti si sono attenuti.
La Chiesa cattolica ha presentato la vera alternativa a questa deriva sin dai tempi del sinodo straordinario sul Libano. Nell’esortazione apostolica post-sinodale Una speranza nuova per il Libano, Giovanni Paolo II ebbe il coraggio e la visione necessarie per scrivere riferendosi ai cristiani: “Li invito a considerare il loro inserimento nella cultura araba, alla quale tanto hanno contribuito, come un’opportunità privilegiata per condurre, in armonia con gli altri cristiani dei Paese arabi, un dialogo autentico e profondo con i credenti dell’Islam. Vivendo in una medesima regione, avendo conosciuto nella loro storia momenti di gloria e momenti di difficoltà, cristiani e musulmani del Medio Oriente sono chiamati a costruire insieme un avvenire di convivialità e di collaborazione, in vista dello sviluppo umano e morale dei loro popoli”.
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Di qui, dal riconoscimento dell’inserimento dei cristiani nella cultura araba, alla quale hanno dato un enorme contributo non solo in Libano, si è arrivati all’affinamento della richiesta di piena e pari cittadinanza, cardine del sinodo sul Medio Oriente convocato da Benedetto XVI. E proprio questa cittadinanza è al centro di un documento non solo papale.
Con papa Francesco la richiesta di piena e pari cittadinanza viene assunta dal rettore dell’Università islamica di al-Azhar, professor Ahmad al-Tayyeb. Il Documento sulla Fratellanza da loro firmato congiuntamente non lascia spazio ad equivoci: “Il concetto di cittadinanza si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli”.
Sarebbe ora di portare questo Documento nella discussione politico culturale per rifondare questi Paesi.





