USA: Chiesa e Nazione al tempo di Leone XIV

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Il conclave che ha portato all’elezione di papa Leone XIV è stato molto più geopolitico di quanto i suoi attori principali siano stati disponibili a riconoscere. Non solo, esso ha anche mostrato che, quando si tratta di prendere posizione all’interno di un ordine mondiale in via di profonda trasformazione, se non addirittura in disfacimento, la Chiesa cattolica riesce a decidere nei tempi dovuti dall’emergenza del contesto globale.

Il temuto effetto dispersivo, legato alla strategia delle nomine cardinalizie messa in atto da papa Francesco, non c’è stato. Anzi, quella strategia si è rivelata un’opportunità per raccogliere intorno al nuovo papa un sentire diffuso lungo tutto l’arco della terra.

Perché questo sentire globale ha chiaramente individuato negli Stati Uniti di Trump un tema decisivo per il prossimo papato. E lo ha fatto scegliendo la declinazione che più permette alla Chiesa cattolica di proporsi, nei prossimi anni, come soggetto di riferimento per un mondo che rischia di precipitare in un vortice incontrollato di conflittualità senza governo alcuno.

Due ipotesi di Chiesa e papato dopo Francesco

Il conclave si è trovato davanti a due piste possibili da seguire per quanto concerne l’affaire Trump. La prima, portata avanti dal card. Dolan, arcivescovo di New York e rappresentante di quel ceto cattolico americano più apertamente in conflitto con la Chiesa di papa Francesco, che suggeriva ai cardinali elettori di considerare l’amministrazione Trump come questione prettamente statunitense – da lasciare, quindi, in gestione alla Conferenza episcopale americana e al desiderio della sua maggioranza di tornare a una Chiesa cattolica ante-Francesco. Per questo ceto cardinalizio il candidato ideale era l’arcivescovo di Budapest, card. Péter Erdő.

La seconda pista ha trovato nel card. Tobin, arcivescovo di Newark, il suo punto di riferimento – coadiuvato da quei cardinali americani più in sintonia con il papato di Francesco: Cupich di Chicago e McElroy di Washington in particolare.

Qui, la visione ecclesiale e geopolitica veniva completamente ribaltata: gli Stati Uniti di Trump sono materia diretta della Santa Sede, perché non possono essere rubricati come questione semplicemente americana. Nel disordine mondiale organizzato dall’attuale amministrazione statunitense, il mandato affidato al papa a venire, secondo questa opzione, era quello di mettere mano a un profondo rinnovamento della dottrina sociale della Chiesa – che ne permettesse un’efficacia globale a modernità oramai terminata, ossia oltre quel quadro di riferimento che l’ha caratterizzata dal suo sorgere fino a oggi.

Quando papa Francesco, l’8 luglio 2013, si è recato improvvisamente sull’isola di Lampedusa, facendo dei migranti e dei profughi l’indice della vera sfida sociale a cui il mondo (e la Chiesa cattolica) doveva rispondere secondo una giustizia più forte di ogni economia e degli interessi di parte, aveva messo in pratica l’overture di questa inedita dottrina sociale della Chiesa cattolica – che rimane ancora da pensare, scrivere e attuare in prassi globali efficaci ed evangeliche.

Posti davanti a questi due immaginari geopolitici ed ecclesiali, i cardinali elettori hanno rapidamente scelto per la seconda opzione: quella che fa della Santa Sede il soggetto ecclesiale di interfaccia con gli Stati Uniti di Trump, da un lato, e quella che sposta il peso dell’investimento pubblico della Chiesa cattolica da questioni di morale individuale alla giustizia sociale a livello globale, dall’altro.

La persona del card. Prevost deve essere apparsa a questa maggioranza cardinalizia in conclave come un luogo di sintesi quasi naturale. Nella dialettica con i vescovi americani più vicini a Trump che alla Chiesa di Francesco, era necessario individuare un papa che parlasse (letteralmente) la loro lingua, ma non fosse assimilabile al sistema ecclesiale americano che si era rivelato tenacemente ostico non solo nei confronti di papa Francesco, ma anche rispetto alla Santa Sede e ai suoi organi istituzionali.

Prevost garantiva, e garantisce tuttora, una triplice distanza dal nuovo americanismo cattolico – presentandosi come una garanzia anche per i territori più lontani e marginali della fede cattolica nel mondo. Religioso, vescovo in Perù, ufficiale della Santa Sede.

La sua elezione al soglio pontificio dice anche che la tolleranza del cattolicesimo globale verso un episcopato americano appiattito sull’adesione al modello trumpiano di uso della religione e in continua conflittualità con la Santa Sede è giunta al suo limite.

Leone XIV e la Chiesa americana

Lo stupore nel vedere ascendere per la prima volta alla cattedra di Pietro un cittadino americano è stato sincero nel corpo della Nazione – e costituisce un tesoro di credito davanti a essa che Prevost dovrà maneggiare con cura e saggezza, impiegandolo nella direzione iscritta nel mandato ricevuto dal conclave e scolpita nel nome con cui ha scelto di portare avanti il ministero petrino a favore della Chiesa cattolica nella sua universalità.

Fin dai primi interventi, papa Leone XIV si è fatto sentire dalla Chiesa e dai vescovi degli Stati Uniti rivolgendosi ai credenti e alle persone di tutto il mondo. Lo ha fatto parlando la loro lingua, con allusioni che non possono essere né fraintese né dismesse da coloro che, nella Chiesa americana, vedono in Trump la via di un nuovo privilegio consentendo loro di realizzare un modello di Chiesa cattolica dei forti a discapito dei fragili e di chi vive ai margini della società globale e della stessa istituzione ecclesiale.

L’indicazione che la giustizia sociale viene prima di tutto, e non può essere patteggiata in cambio di provvedimenti di facciata in materia di morale individuale o di tornaconto per gli interessi della Chiesa americana, è stata chiara. La Chiesa americana è stata subito messa alla prova in materia dalla “Big Beautiful Bill” dell’amministrazione Trump.

Mentre la Conferenza episcopale ha cercato di mettere in campo una critica condiscendente, approvando i tagli dei finanziamenti verso le associazioni pro-choice e i contributi federali alle scuole private, da un lato, e criticando nel dettaglio le ricadute della legge in ambito di sicurezza sociale, dall’altro, alcuni vescovi cattolici (tra cui Cupich e McElroy) hanno posto la loro firma sotto a una dichiarazione ecumenica delle Chiese americane in cui tutta la legge di bilancio viene stigmatizzata in ragione del suo carattere elitario a discapito della popolazione più debole e fragile della Nazione – immigrati inclusi.

Davanti alla chiarezza delle indicazioni di papa Leone XIV si restringono ora gli spazi per quella parte del cattolicesimo americano che vuole porsi come rappresentante dell’ortodossia cattolica e, al tempo stesso, accondiscendere in larga parte al progetto trumpiano. Gli spazi si restringono anche perché questa fetta di mondo cattolico statunitense, in questo momento, non può emergere come forza di opposizione a un papa figlio della Nazione americana – e di cui essa è orgogliosa.

Né Prevost né i cardinali americani che hanno mediato la sua elezione hanno intenzione di mettere in panchina quel cattolicesimo che si sente affine alle politiche di Trump; esattamente perché la sua nomina mira anche a una ricomposizione delle tensioni cattoliche negli Stati Uniti e altrove. Cambia, però, la direzione della mediazione fra le diverse anime cattoliche e quali di esse sono chiamate a dare giustificazione delle posizioni prese sul piano del dibattito pubblico e delle scelte politiche.

Soprattutto, però, cambia il criterio che presiede al posizionamento della Chiesa cattolica nel contesto globale contemporaneo: quello della giustizia sociale, che richiede uno sforzo collettivo per la realizzazione effettiva di procedure di pacificazione dei molti e drammatici scenari di guerra – dove realismo diplomatico e profezia della fede devono apprendere a declinarsi uno insieme all’altra e non l’una contro l’altro.

Leone XIV è sembrato, ai cardinali elettori, il soggetto più adeguato per avviare questa mediazione fra le molte anime del cattolicesimo globale – che ha ripercussioni non marginali sul piano dell’efficacia della diplomazia della Santa Sede. Rispetto a questo, Prevost, schiacciato dalle attese di essere o un clone di Francesco o il replicante di Ratzinger, ha scelto un doppio registro.

Un’estetica della presentazione di sé che fosse in un qualche modo rassicurante per tutti coloro che si erano trovati a disagio con lo stile di papa Francesco nell’esercizio del ministero petrino; e un discorso ecclesiale che di quello stile del predecessore recupera tutti i contenuti chiave. Per quanto salomonica possa essere considerata questa decisione, è probabile che Prevost non avesse poi così tanti margini di scelta in merito.

Rimane il fatto che, in una società globale dell’immagine, l’estetica del modo di apparire può prendere facilmente il sopravvento sui contenuti che il nuovo papa vuole mettere in pratica come segnatura del suo presidere la Chiesa cattolica. Tanto più se il tono rassicurante del suo modo di presentarsi, ossia la sua immagine pubblica, viene assunto come chiave di lettura del suo pontificato da parte dei media globali.

Trovare il giusto equilibrio fra questo doppio registro, a cui Prevost si è trovato in parte costretto, rappresenta una sfida importante per questo suo inizio di pontificato. Il rischio è che il nuovo papa americano finisca col perdere quel “popolo dei molti” che Francesco era stato capace di convocare come parte integrante del popolo di Dio della Chiesa cattolica. Uomini e donne che, grazie a papa Francesco, hanno sentito e vissuto una inaspettata prossimità alla missione di una Chiesa in uscita dalle sue sicurezze e dalle sue abitudini di popolo eletto.

Di queste persone Leone XIV avrà bisogno nel corso del suo pontificato: sono alleati importanti a cui non si può rinunciare a cuor leggero. Verso di esse, negli Stati Uniti e altrove, papa Leone deve conquistarsi il suo credito attraverso gesti concreti; perché i discorsi raffinati, che lo pongono su una linea di prosecuzione con l’idealità messa in campo a livello globale dal suo predecessore, non bastano.

Non si tratta di ripetere ciò che Francesco ha fatto, ma di trovare pratiche del ministero petrino che attestino a questo “popolo dei molti” quella sorprendente prossimità alla e della Chiesa di cui Francesco era stato capace.

In tempi in cui sembra regnare il disordine globale e una profonda crisi costituzionale negli Stati Uniti, Leone XIV ha bisogno di convocare intorno a sé e alla Chiesa cattolica le forze migliori dello spirito umano – ovunque siano e vogliano essere.

La crisi della Nazione americana

Per questa sua seconda amministrazione, Donald Trump si era presentato come il grande risolutore delle guerre in atto (Ucraina e Gaza) e della crisi identitaria degli Stati Uniti. A sei mesi di distanza, la sua presidenza – su questi fronti – sembra essersi impantanata nel guado. Lo scompiglio internazionale che le sue decisioni e contro-decisioni hanno creato ha finito con accelerare la fine di un’epoca dell’Occidente che volgeva da tempo al tramonto senza volersi chiudere.

Il prezzo pagato per questo riallineamento è certamente alto, forse troppo per essere sopportato da equilibri internazionali sempre più volatili. L’incapacità di tenere il passo di questi “tempi nuovi” da parte delle grandi istituzioni multilaterali, dall’ONU all’Unione Europea, apre lo spazio per un protagonismo geopolitico della diplomazia vaticana. Inoltre, l’inaffidabilità dimostrata dai leader politici, unita alla mancanza di una chiara strategia americana verso il continente asiatico, potrebbe consentire a papa Leone XIV di giocare un ruolo di rilievo nella costruzione di un nuovo ordine mondiale.

Il tempo disponibile alla Chiesa cattolica, oggi guidata da un cittadino americano, per approfittare di questa opportunità, che è al tempo stesso geopolitica e di cura evangelica per un mondo assetato di giustizia ed equità, è sicuramente breve. Un’opportunità, questa, che non può essere colta andando contro l’attuale amministrazione degli Stati Uniti, ma attraverso una relazione dialettica con essa che sia al tempo stesso costruttiva e critica.

In questa prospettiva, il primo papa americano rappresenta un’occasione e un’opportunità anche per una Nazione che non riesce a smettere di essere egemonica neanche volendolo. Il cattolicesimo americano che si riconosce, volente o nolente, nel percorso ecclesiale che ha portato Robert Prevost sulla cattedra di Pietro è chiamato in questo momento a rispondere all’urgenza civile della fede per mettere mano a un “new deal globale” – dalla politica all’economia, dalla cura del creato all’educazione, dalla formazione delle coscienze alla libertà religiosa e di espressione. Anche a casa propria.

Vi fu un tempo in cui la Santa Sede guardava con sospetto all’americanismo dei cattolici statunitensi – ossia, alla loro consuetudine, proprio come credenti, con le pratiche democratiche della convivenza civile e del negoziato politico. Con papa Francesco, da un lato, e con l’attrazione dell’episcopato americano verso le politiche di Trump, dall’altro, le posizioni si sono invertite.

Oggi è la Santa Sede a vedere non semplicemente nella democrazia in sé, quanto piuttosto nello stato costituzionale qualcosa di più di un semplice strumento per organizzare la contrattazione politica fra alcuni privilegiati. Davanti a questo dato di fatto, il compito del cattolicesimo americano si fa oggi paradossalmente più arduo: perché, per fare perno sulla convinzione democratica della Santa Sede, essi sono chiamati all’invenzione di una nuova stagione costituzionale che ridisegni gli assetti di potere nel governo della Nazione.

La possibilità di una supremazia del potere esecutivo negli Stati Uniti ha radici sia nella storia passata che in quella recente. La protezione immunitaria che la Corte Suprema ha garantito a Trump (indagato), nella fase finale dell’amministrazione Biden, ha molto probabilmente rotto equilibri istituzionali e costituzionali che oggi consentono a Trump (presidente) un uso arbitrario del potere esecutivo – eludendo un sistema di “check and balance” che presupponeva però la disponibilità a un’ascesi politica da parte di quel potere esecutivo.

Lo stesso potere giudiziario americano si è come scisso in due: con la Corte Suprema, da un lato, che tende a preservare l’espansionismo di Trump nell’uso del potere esecutivo; e con i giudici federali, dall’altro, che, col mezzo ordinario delle sentenze, cercano di mantenere quel potere all’interno del perimetro di uno stato di diritto effettivo.

Lo stato della Nazione si presenta oggi anche come un grande palcoscenico teologico: con la pretesa del re-messia, inviato a riconsegnare la terra americana alla sua promessa originaria; e con i giudici che fungono da katechon, ossia da potere che cerca di frenare una supremazia esecutiva che si spinge oltre i confini della legge.

Una situazione, questa, che non può essere sostenuta a lungo; davanti alla quale il cattolicesimo americano è chiamato a investire la migliore intelligenza civile del Vangelo e tutte le competenze che esso ha a disposizione – per evitare l’implosione di quell’esperimento americano che ha strutturato e dato ordine al mondo negli ultimi cento anni.

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13 Commenti

  1. Maria Laura Innocenti 22 ottobre 2025
    • Maria Laura Innocenti 22 ottobre 2025
  2. Luca Ferrari 19 agosto 2025
  3. Marco 13 agosto 2025
  4. Angela 13 agosto 2025
  5. Maria Laura Innocentitec 13 agosto 2025
  6. Adriana 12 agosto 2025
  7. Angela 11 agosto 2025
  8. Fabio Cittadini 11 agosto 2025
    • Angela 11 agosto 2025
    • Enrico 11 agosto 2025
    • Marcello Neri 11 agosto 2025
      • Fabio Cittadini 13 agosto 2025

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