USA: quale cristianesimo?

di:
lorizio

Joel Osteen, uno dei rappresentanti maggiori della teologia della prosperità

C’è una notizia che ci fa pensare, oltre le posizioni più o meno cosiddette ideologiche che possiamo adottare: è quella che concerne la citazione in giudizio, da parte della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti, verso l’Amministrazione del Presidente, laddove si contestano i tagli ai fondi per i rifugiati. Potrebbe anche apparire come una buona notizia, a prescindere dagli esiti che potrà registrare in sede giudiziaria, ma non lo è affatto dal punto di vista credente e teologico.

E questo perché si sposta il problema radicale e fondamentale dal piano del credere a quello economico e amministrativo. A parere di chi scrive, il contesto esige ben altro livello di riflessione e di prese di posizione. In ultima analisi si tratta della domanda sull’essenza del cristianesimo. E qui le alternative si contrappongono in maniera virulenta e chiedono una precisa presa di posizione.

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Da un lato si tratta della emergente e dal punto di vista elettorale vincente, non solo negli USA, della “teologia della prosperità” (cf. qui), secondo la quale il benessere di persone e classi sociali sarebbe un segno conclamato dell’approvazione che Dio stesso loro conferirebbe.

Non è difficile, ma può essere fuorviante, ricondurre tale prospettiva a quella di Max Weber, espressa ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (saggi del 1904-05). In tal caso la posizione dei vescovi cattolici statunitensi non si dissocerebbe da tale interpretazione del cristianesimo.

Ma è fuorviante perché alla base della posizione teologica che abita l’attuale leadership statunitense, dato che l’appartenenza del vicepresidente sarebbe cattolica, vanno collocate posizioni evangelicali e pentecostali che nulla hanno a che fare col calvinismo cui fa riferimento Weber.

La situazione è certamente più complessa perché possono essersi verificate adesioni alla prospettiva teologica indicata anche in ambienti cattolici e protestanti “tradizionali” e prese di distanza anche in sede pentecostale ed evangelicale.

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D’altro canto, ritengo che sia responsabilità delle chiese e delle teologie esprimersi in termini critici e radicali rispetto all’identità cristiana nell’oggi della storia, piuttosto che recriminare, in ambito giudiziario, sussidi e sostegni economici per prendersi cura degli immigrati. In tal senso la povertà della Chiesa va di pari passo con la sua libertà (a tal proposito basterebbe richiamare le ultime due piaghe denunciate da Antonio Rosmini).

E in questo senso, anche nel nostro Paese, abbiamo tanto da imparare, a partire dall’episcopato. Il legame economico con lo Stato non aiuta l’evangelizzazione, anzi la deprime. La Chiesa non dovrebbe recriminare privilegi, ma semplicemente richiedere che venga riconosciuta la propria funzione sociale, anche nei confronti dei più deboli.

E qui la decisione dei vescovi statunitensi acquista senso, ma nel contesto di una visione più ampia, che esige la presa di distanza radicale e profetica dalla “teologia della prosperità”, che non ha nulla a che fare con l’Evangelo, così come lo abbiamo letto nella scorsa domenica (Lc 6, 17.20-26). Questo compito non è esaustivo. La prosperità non è un male in sé, lo diventa se assolutizzata, come accade nella direzione che l’assetto politico attuale sembra imprimere alla società.

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La povertà è l’orizzonte della prosperità, per il semplice motivo che il povero (e quindi l’emigrante) ci pone di fronte all’umano senza maschere, orpelli, ruoli e in tal senso diventa un “luogo teologico”. Il Cristo non è povero perché disprezza il benessere e i beni terreni, ma perché si identifica con la fragilità e la nudità della condizione umana in quanto tale e di fronte alla quale siamo tutti uguali, come sperimentiamo nella malattia e nell’agonia.

E può essere qui il senso della famosa espressione di Blaise Pascal: «Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo»; ed è per questo che, prima ancora di recriminare. dobbiamo adorare e pregare.

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