
L’omicidio della parlamentare del Minnesota Melissa Hortman (uccisa insieme al marito) e il tentato omicidio del senatore dello stesso Stato John Hofman; l’attentato incendiario alla casa del governatore della Pennsylvania Josh Shapiro; l’attacco al Center for Disease Control di Atlanta con l’uccisione di un ufficiale di polizia; l’omicidio di Charlie Kirk; senza dimenticare i due attentati contro Donald Trump durante l’ultima campagna presidenziale – sono solo le punte dell’iceberg della violenza politica che sta minando in profondità la tenuta della società americana.
La Nazione è sull’orlo di rivivere l’incubo che macchiò di sangue i suoi anni ’60 – con una sequenza di omicidi “eccellenti” che rimangono impressi fino a oggi nella memoria del paese.
Davanti a questo drammatico “stato della Nazione” si può scegliere di cavalcare la violenza politica per trarne i massimi dividendi di parte; oppure ci si può rimboccare le maniche per intraprendere l’arduo cammino di una riconciliazione nazionale. Ma anche su questo, l’America mostra due anime contrapposte: tra l’uso istigatore della violenza politica e il tentativo di trovare una via di uscita – come ha detto con urgenza il governatore dello Utah Spencer Cox: “È la fine di un capitolo buio della nostra storia o l’inizio di un capitolo ancora più buio? Possiamo rispondere alla violenza con la violenza, possiamo rispondere all’odio con l’odio, ed è questo il problema della violenza politica: si diffonde a macchia d’olio, è come una metastasi. Perché possiamo sempre puntare il dito contro l’altra parte. E a un certo punto dobbiamo trovare una via d’uscita, altrimenti la situazione peggiorerà notevolmente”.
Poi c’è chi cammina sul filo del rasoio, come lo speaker della Camera dei rappresentanti Mike Johnson, che ha invitato il paese a non inquadrare ogni differenza di visione politica come un pericolo esistenziale per il sistema democratico statunitense.
Dimenticando, però, di dire che anche la parte repubblicana dello schieramento politico alimenta la medesima tensione e legittimazione indiretta della violenza politica quando, come ha fatto notare Robert Sullivan in un articolo pubblicato ieri su America: “Definire gli avversari politici ‘anti-americani’ o ‘traditori’ (come ha fatto ripetutamente Trump) significa giocare con il fuoco. E affermare che un presidente in carica non ‘ama l’America’, un’accusa mossa contro Obama da Rudy Giuliani e altri, non contribuisce certo a placare gli animi”.
Gli Stati Uniti sono oramai giunti alle soglie dell’esito estremo delle culture wars, che hanno finito per soppiantare, all’interno del sistema istituzionale americano, le procedure di negoziazione e compromesso fra i due partiti politici che erano riuscite a garantire per decenni una sostanziale coesione e tenuta dei fragili equilibri della Nazione. In un certo qual modo, si è giunti così anche alla soglia dell’estinzione della politica come tecnica di governo chiamata a ricomporre in sede istituzionale la conflittualità sociale che abita in seno alla cittadinanza.
Delegittimare la cittadinanza (non altro che questo significa dire che l’opponente politico, coloro che la pensano in altro modo, sono anti-americani) di una parte del popolo significa aprire le porte verso la giustificazione istituita della violenza politica. Non solo per gli Stati Uniti, ci troviamo davanti a una vera e propria prova della politica, ossia della sua natura a non essere il semplice specchio della conflittualità sociale, quanto piuttosto a esserne il luogo della mediazione e ricomposizione istituzionale.
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Urgente, in questo momento, sarebbe non solo una parola, ma soprattutto una prassi alta, di qualità, capace di far risplendere nel cuore della violenza politica che scuote la Nazione le migliori armoniche dell’Evangelo, da parte della Chiesa cattolica americana. Chiesa, questa, però compromessa dalla sua partecipazione attiva a decenni di culture wars, che ne ha inficiato la possibilità oggi di presentarsi in maniera credibile quale soggetto civile di incontro non violento delle anime in cui gli Stati Uniti sono scomposti.
Pochi giorni fa, nel corso della sua prima intervista formalmente rilasciata, papa Leone XIV ha affermato di “sentirsi americano”. Da molti letta come poco più di una battuta, questa semplice frase riveste però, in questo momento, un significato di estrema importanza. Sentirsi americano vuol dire, infatti, non essere estraneo al destino degli Stati Uniti. Cosa che, oggi come oggi, vuol dire impegnare il papato – e insieme a esso la Santa Sede – a un’attenzione e una cura non di parte su quanto accade all’interno della Nazione americana.
Parlando, poi, dei drammatici conflitti in atto in Ucraina e nella Striscia di Gaza, papa Leone ha rimarcato gli sforzi della Santa Sede per mostrare una “estrema neutralità” rispetto a essi – che non vuol dire non esprimere un giudizio sul male, e nemmeno restare in silenzio, ma tenere aperta la porta alla fine della violenza non come vittoria degli uni sugli altri.
Questa “estrema neutralità”, traslata sul piano di quanto sta accadendo negli Stati Uniti, sancisce la fine dello schieramento della Chiesa cattolica come soggetto nazionale che sposa l’uno l’altro versante delle culture wars. Nato e cresciuto a Chicago, Prevost inizia così a tessere i fili di congiunzione con la tradizione più alta del cattolicesimo americano come spazio di composizione delle tensioni sociali e delle differenze di visione in materia di questioni etiche – quella tratteggiata dal card. Bernardin nel testo The Seamless Garment: Writings on the Consisten Ethic of Life (La tunica senza cuciture: su una coerente etica della vita, cf. SettimanaNews, qui).
Oggi, con papa Leone, la ripresa di questo orizzonte ideale, che sottraeva la Chiesa cattolica a diventare soggetto attivo delle culture wars, potrebbe riuscire proprio là dove non riuscì Bernardin – ossia a essere compreso come un posizionamento non di parte nelle vicende americane. Può riuscire, perché il sentimento americano di Prevost si è nutrito di una pluralità di appartenenze e di sentimenti, ha conosciuto e fatto proprio il destino dei poveri, e si presenta sulla scena statunitense come una posizione sopra le parti ma dentro le loro storie.
In questo momento, Leone XIV, nell’esercizio del suo ministero universale, non dovrebbe preoccuparsi di dare tempo e spazio nel cuore agli Stati Uniti e alla loro Chiesa cattolica – non lo deve fare perché i destini del mondo, che ci piaccia o no, lì si decidono.






Lo stesso Trump ha promosso la cultura che si oppone all’ avversario politico individuandolo né più né meno che come un nemico, senza crearsi problemi riguardo al fatto di condividerne la cittadinanza per lo meno dal clamoroso episodio dell’ attacco a Capitol Hill, tentativo eversivo avvenuto trai suoi due successivi mandati presidenziali. L’ opinione che la Chiesa debba svolgere un ruolo favorevole alla pace, cosa che non avviene mantenendosi super partes ma nell’ umana attenzione e partecipazione a quanto nel tempo avviene appare condivisa da Leone XIV al seguito dei suoi predecessori, certamente già comprendendo gli anni Sessanta del secolo scorso e i loro lutti politici. Anche il dichiararsi americano dell’ attuale pontefice dovrebbe effettivamente costituire un benvenuto segnale di partecipazione a dei valori che hanno rappresentato, ad esempio per l’ Italia, la recente occasione di quasi un intero secolo trascorso in condizioni di pace.
Qualche giorno fa a Trump, intervistato dal giornalista australiano John Lyons, è stato chiesto se gli sembri giusto che il Presidente, cioè Trump, si arricchisca durante il suo mandato, con evidente riferimento alle attivita’ svolte con le criptovalute; Trump, invece di rispondere alla domanda, gli ha detto : “secondo me stai danneggiando molto l’Australia, in questo momento loro” (il governo australiano) “vogliono andare d’accordo con me”. “Sapete che il vostro leader verrà a trovarmi molto presto, gli parlerò di te, hai dato un tono pessimo” . L’altro ieri la Procuratrice Generale Pam Bondi (nominata da Trump) ha detto : “C’è la libertà d’espressione e poi c’è il discorso di odio e per quest’ultimo non c’è posto. Se prendi di mira qualcuno con discorsi di odio, saremo noi a prendere di mira te e verremo a cercarti”: non un modo di dire: centinaia di persone in queste settimane hanno già perso il lavoro perchè hanno esercitato il loro diritto alla libertà di parola. Che a parlare di odio sia Tump – e i suoi amici – è veramente ridicolo, se si ha in mente il continuo incitamento a considerare “nemici dell’America”, e quindi nemici di Trump, chi non la pensa come lui. Solo due episodi tra i tanti che succedono giornalmente e che alimentano la sotterranea guerra civile in atto
E che è appena incominciata. Ora se la prendono con Comey e con l’Onu, avanti il prossimo.