
Qual è il significato profondo che lega creatore e creatura?
L’immaginario letterario e soprattutto cinematografico può indurre con una certa ingenuità a identificare questo rapporto come una relazione filiale. In una scena chiave del film Blade Runner (1979) il temibile androide Roy Batty va dal suo creatore, che chiama padre, chiedendogli più vita. La scena non finisce nel migliore dei modi. Ma il rapporto tra creatura e creatore non può essere direttamente quello filiale perché quest’ultimo riguarda piuttosto la generazione.
Il libro della Genesi ci può aiutare a capire questo legame nel suo aspetto essenziale. «Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza». Al vocabolo immagine corrisponde il termine ebraico zélem; a somiglianza invece corrisponde l’ebraico demuth. Nel testo ebraico prima di immagine c’è la preposizione be, che può tradursi con l’italiano con o nel; davanti a somiglianza c’è la preposizione le, da tradursi con a, preposizione di termine. Ne viene fuori questa traduzione: creiamo l’uomo con la nostra immagine, o nella nostra immagine, a nostra somiglianza.
L’ebraico zélin, tradotto con immagine, ha però il senso primario nella parola ombra: proiezione di corpo opaco posto davanti a una sorgente luminosa. La traduzione perciò potrebbe anche essere: «Facciamo l’uomo nella nostra ombra e sia a nostra somiglianza».
Al di là delle implicazioni teologiche, l’uomo come ombra di Dio pone la creatura in un rapporto di assoluta dipendenza, di vincolo esistenziale strettissimo con la divinità che lo ha creato: l’ombra non è la cosa ma senza di essa l’ombra non potrebbe esistere. Il mistero di Cristo agisce proprio su questo aspetto, spezzando il vincolo di dipendenza immediata tra l’esistenza dell’ombra e la sua origine – creatore-creatura – sviluppa un legame nuovo, quello tra padre e figlio. Tutti noi, infatti, siamo figli di Dio nell’unigenito dal Padre, non più creature ma figli: «a quali dei suoi angeli (creature seppur al più alto grado nella scala dell’essere) Dio ha detto: “Tu sei mio figlio; oggi ti ho generato? E ancora: Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio?”» (Eb 1,5).

Queste e altre considerazioni sviluppa e suscita la nuova pellicola del regista messicano Guillermo del Toro, Frankenstein, adattamento del noto romanzo gotico di Mary Shelley. La pellicola non è solo l’interpretazione autoriale di uno dei maestri del cinema contemporaneo ma l’ennesimo passo avanti nella ricerca estetica e tematica che il regista cerca di affinare di pellicola in pellicola.
L’ultima fatica di del Toro riprende, infatti, temi che erano già stati portanti in luce con grande forza ad esempio in Pinocchio, film di animazione realizzato interamente in stop-motion che valse a del Toro il premio Oscar come miglior film di animazione nel 2023 e convinse Netflix – produttore e distributore del film – ad accordare fiducia al regista per altri progetti: la serie antologica Cabinet of Curiosites, e Frankenstein appunto. Ma andiamo con ordine.
L’alleanza tra mostri e cinema non è mai stata così stretta come negli ultimi anni. Il film di Guillermo del Toro è stato preceduto da un altro mostro storico, il Dracula di Luc Besson, mentre un altro film su Frankenstein, The Bride!, è atteso nel 2026. Intanto Predator. Badlands, nuova pellicola del noto alieno creato dai fratelli Jim e John Thomas negli anni Ottanta, sta risollevando un box office americano mai così stagnante.

I mostri, scriveva il sociologo Sergio Brancato, «sono gli indicatori sensibili, sul piano dell’immaginario, delle fasi di trasformazione globale della società». L’irruzione del mostro nell’habitat umano rappresenta la sovversione delle leggi naturali, e soprattutto mette in discussione la nostra capacità di mettere in forma il mondo, di gestire l’eccezione e la complessità, il diverso, le situazioni liminali.
Per questi motivi i mostri sono sempre stati al centro del mondo narrativo di del del Toro, cifra essenziale del suo cinema. Frankenstein è stato presentato in anteprima assoluta in concorso all’82ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia il 30 agosto 2025 e distribuito in poche sale dall’ottobre seguente prima della pubblicazione avvenuta il 7 novembre 2025 sulla piattaforma Netflix.
Il film è sontuoso e colpisce per portare a un nuovo livello tutti gli elementi del cinema di Guillermo del Toro: la curia maniacale di ambienti e oggetti ai quali il regista assegna quasi un ruolo attoriale e un utilizzo di colori che fa di questi ultimi la struttura architettonica che regge e sostiene l’intera pellicola. La luce è a tutti gli effetti la cifra estetica e filosofica del film.[1]

Come già accennato, tema centrale dell’opera è il rapporto tra padri imperfetti e figli imperfetti, elemento centrale delle pellicole del regista messicano. A questo si aggiunge l’immancabile riflessione sulla mortalità umana e il tempo; l’ossessione di del Toro per meccanismi e orologi è nota: nella sua prima pellicola importante, Cronos (1993), un meccanismo ibrido tra un orologio e un insetto immortale trasferisce una maledizione vampiresca a chi vi entra in contatto.
Frankenstein è la sintesi ideale di questi motivi e spinge ancora di più il rapporto conflittuale tra padri e figli, vita e morte, che avevamo visto in Nightmare Alley (2021) – forse il suo film più equilibrato –, in Il labirinto del Fauno (2006) e in Hellboy (2002-2004), dove il figlio del diavolo adottato da un padre umano cambierà la sua natura in forza della relazione filiale.
La creatura di Mary Shelley si presta più di ogni altra a sviluppare queste tematiche care a del Toro. Il racconto originale trae la sua forza, infatti, dalla metafora ossessiva della nascita. «A voler rintracciare quali elementi abbiano attivato la fantasia di Mary e determinato la materia che scelse come propria, il simbolo apertosi nella sua propria traumatica nascita certo vi gioca un ruolo decisivo, la madre morirà dandola alla luce. Nel motivo della nascita del mostro, la fantasia di Mary continua a ricamare l’evento mortuario che segnò il suo inizio con quella contiguità di vita e morte che torna in piena evidenza nella nascita del mostro, alla cui creazione sono necessari i materiali della morte, organi e arti presi dai cadaveri. Sono quei materiali che nell’incredibile metamorfosi si trasformeranno in produttori di energia viva».[2]

Generare e creare sono i due aspetti che del Toro mette in scena nel conflitto crescente tra il Dr. Victor Frankenstein e la creatura. Il mostro, che diventa tale solo nel giudizio degli uomini, incapaci di vederne in realtà la bellezza, vive nell’ombra del suo creatore. L’unico nome, infatti, che la creatura riesce a pronunciare è quello di Victor, l’uomo dal quale egli dipende in tutto, come l’ombra dipende dal corpo che si interpone alla luce. Questo aspetto, oltre che simbolicamente, è suggerito esplicitamente da una scena del film.
Questi temi trovano riscontro anche nel background religioso del regista, cresciuto dalla nonna in un ambiente cattolico rigido e conservatore, amplificato dall’educazione impartita in un istituto interamente maschile gestito da Gesuiti, un mondo chiuso che il regista ha sempre rinnegato.
Anche se è polemico con il mondo cattolico, soprattutto nelle sue ultime pellicole del Toro sembra interrogarsi sull’essenza del cristianesimo quale religione degli oppressi, degli schiavi, gli ultimi, emarginati e reietti che la figura della creatura incarna. Sotto questo aspetto Frankenstein trova una corrispondenza diretta con il precedente Pinocchio (2022).
Film di animazione che rilegge e stravolge la storia di Collodi, Pinocchio era già una sintesi dei molti temi cari al regista e faceva intravedere un interesse esplicito verso la figura di Cristo. C’è un dialogo molto interessante tra il bambino di legno e Geppetto, l’uomo che lo ha costruito per colmare il vuoto del figlio morto in un bombardamento. Il figlio Carlo, infatti, muore in una chiesa proprio ai piedi del crocefisso – intagliato dal padre – durante un bombardamento. Guardano il Cristo in croce semi distrutto, Pinocchio esclama: «lui piace proprio a tutti lui, cantavano tutti per lui ed è fatto di legno come me, perché tutti amano lui e non me?».

In Frankenstein Del Toro mette in scena la re-animazione della creatura proprio come una crocefissione: egli è il mostro nel senso che è l’apoteosi di tutti i derelitti, di tutti gli scarti umani, è il «frutto di un ossario, venuto da scarti di cadaveri».
L’equipollenza tra Cristo e il mostro non è impropria e riecheggia dei passi di Isaia in cui il servo del Signore è descritto come privo di bellezza: deforme, uno dal quale si distoglie lo sguardo come la creatura assemblata da Victor. «Anche Dio ha delle domande e forse è per questo che ha mandato suo figlio per capire la sofferenza e la morte», dirà uno dei personaggi in un dialogo con la creatura.

Pur discostandosi dal testo originale del Toro crea un’opera profonda, esteticamente ineccepibile che porta avanti i temi fondanti del suo cinema. In una seconda parte forse meno equilibrata e più frettolosa viviamo il dramma della creatura che vuole diventare figlio nella lotta tragica con il creatore.
Con un epilogo diverso da quello del libro, la creatura esce dall’ombra del creatore attraverso l’ammissione reciproca delle proprie incolmabili imperfezioni, per essere infine generato come figlio: per contemplare finalmente il sole direttamente senza che nessuno si interponga tra lui e la luce.
[1] Molti altri sono gli elementi simbolici di questa pellicola; degno di una riflessione più approfondita sarebbe anche il personaggio femminile di Elisabeth, una sorta di anima mundi con la quale si interfacciano i diversi personaggi.
[2] N. Fusini, Introduzione in M. Shelley, Frankenstein, Editoriale L’Espresso, Roma 2004, X.





