David Cronenberg: tirannia dell’immagine e fede nella carne

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«Il più vivo del Tangibile è la Carne. E, per l’Uomo, la Carne è la donna».[1] Queste le parole che padre Pierre Teilhard de Chardin spendeva per descrivere il mistero del femminino e della sua forza unitiva in seno alle forze dell’universo. Perché l’uomo-tutto, Adam, fu fatto a immagine di Dio ma il maschio può trovare la chiarezza della sua immagine divina solo nel corpo della donna, come in uno specchio.

L’immagine è una delle questioni fondamentali della tradizione ebraica e lo diventa in massimo grado per il cristianesimo, di cui rappresenta contemporaneamente la novità fondamentale e anche la croce. L’interdetto idolatrico del libro dell’Esodo: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra» (Es 20,4), viene risolto dall’apostolo Paolo nella Lettera ai Colossesi, dove si dichiara che Cristo «è immagine del Dio invisibile» (Col 1,15).

La forza delle immagini, infatti, è quella di poter condizionare e tradire la realtà stessa; e la fede non è immune dalla potenza delle immagini. È noto, solo per fare un macro esempio, che nella cultura di massa e anche per molti credenti, i cavalieri dell’apocalisse sono quattro, quando nel testo biblico sono di fatto tre, mentre il quarto non fa parte di questo gruppo e rimane un cavaliere distinto dagli altri. L’immagine dei quattro cavalieri fu resa nota e si fissò nell’immaginario comune grazie ad una famosissima illustrazione di A. Durer, che rappresentava i cavalieri al galoppo per scatenare l’apocalisse in una formazione di quattro. L’immagine creata da Durer la sua influenza su tutto l’immaginario cristiano successivo, non è necessariamente qualcosa che possa indurre il credente a esprimere erroneamente la propria fede, ma rivela la forza dell’immagine di veicolare e insieme tradire un messaggio o anche il senso stesso delle Scritture.

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Nel 787 d.C. il settimo concilio ecumenico della Chiesa Cristiana a Nicea si occupò della questione delle immagini. Come ricorda bene A. Tagliapietra, se atei e credenti «sono scampati al divieto dell’immagine che vige, in declinazioni diverse, sia nella cultura ebraica che presso l’Islam, lo dobbiamo ai padri bizantini. Infatti, è solo grazie alla loro sottigliezza dottrinale che la fiamma dell’ascetismo iconoclasta non ha divorato anche l’Occidente. Così, solo dopo Nicea diviene effettivamente concepibile quell’immensa galleria di immagini, segni e figure che risponde al nome di arte occidentale: da Michelangelo a Renoir, da Giotto a Bacon, da Piero della Francesca a Mondrian. Ma non solo. con Nicea si compie il passo decisivo, che porterà al trionfo contemporaneo della cosiddetta civiltà dell’immagine, a Hollywood, a internet, al mondo virtuale del cyberspazio. […] Dopo Nicea la verità è, cioè, una questione che si consuma all’interno dell’orizzonte del visibile, giocando non più con la negazione, bensì con l’iperbole del vedere. Di fronte al divieto degli iconoclasti, i padri di Nicea stabiliscono la legittimità dell’immagine anche nella rappresentazione dell’assoluto, cioè dell’irrappresentabile per antonomasia».[2]

Tuttavia anche nel cristianesimo – nonostante Nicea – l’immagine ha continuato a destare sospetti nel mondo della fede. Meister Eckart diceva: «prego Dio che mi liberi da Dio», intendendo il desiderio di essere libero da tutte le false immagini che di lui mi sono fatto e posso farmi. Mentre nel suo Pellegrino Cherubico Angelus Silesius dice che Dio «è solamente ciò di cui io, tu e nessuna creatura mai abbiamo esperienza, finché non siamo lui», ancora Jakob Böhme diceva che finché il bambino Gesù non nasce in noi, non miriamo altro che «la culla vuota», un’immagine vaga priva di reale consistenza.

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In proposito è utile ricordare che è recentemente arrivata un’ulteriore conferma della non originalità della Sindone, un’immagine verso la quale la Chiesa è sempre stata prudente, pur non proibendo mai ai fedeli la devozione. La cosa mi ha molto colpito perché la notizia mi è arrivata alla vigilia dell’attesa visione di The Shrouds. i sudari appunto, l’ultima pellicola di David Cronenberg che − in una visione tutt’altro che facile e felice − pone questioni di grande rilievo anche per il mondo credente, proprio in relazione al potere insieme salvifico e demoniaco dell’immagine.

The Shrouds – Segreti sepolti è stato distribuito nelle sale italiane ad aprile scorso. È la storia di Karsh, un imprenditore rimasto vedovo che inventa una tecnologia in grado di permettere ai vivi di osservare in tempo reale i propri cari estinti decomporsi all’interno delle loro tombe. In una delle prime battute del film Karsh ci tiene a sottolineare che i suoi sudari non sono come la sindone – che è un falso – ma sono veri e restituiscono la reale immagine del cadavere.

I sudari, sviluppati dalla tecnologia Gravetech, sono delle coperte simili a foglie o bozzoli, molto eleganti; qui Cronenberg cita e rilegge le cifre estetiche del suo stesso cinema: gli inquietanti camici chirurgico-liturgici de Gli inseparabili (1988), fino alla capsula operatoria per performance artistiche del suo penultimo lavoro Crimes of the Future (2022). The Shrouds è inoltre una pellicola molto personale – la moglie di Cronenberg è deceduta per malattia nel 2017 – e non è difficile vedere nel protagonista interpretato da Vincent Cassel le fattezze dello stesso regista canadese.

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Al di là della trama, che come la precedente pellicola depista lo spettatore muovendosi su motivi thriller e noir, The Shroud è una riflessione implacabile sul rapporto tra vivi e morti e sull’immagine che di essi rimane per chi resta al di qua. Il dramma di Karsh, voyeur di cadaveri, è rappresentato dall’impossibilità di concepire se stesso come un individuo corporalmente autonomo e indipendente ora che è venuto meno il rapporto fisico con la propria moglie. Tale rapporto, che egli cerca disperatamente di tenere in vita con la continua visione dell’immagine di lei dalla tomba, è vano e tragico poiché il processo di decomposizione porterà prima o poi alla perdita definitiva e all’oblio l’immagine della donna amata. In fin dei conti l’attaccamento di Karsh al corpo della moglie è l’attaccamento al suo stesso corpo, che senza la sua controparte femminile ha di fatto perso significato.

La pellicola ha molteplici punti di contatto con i film più importanti del regista canadese, tra cui l’ineguagliabile Videodrome (1983), in cui la televisione e in generale la dipendenza da immagini inaugurano di fatto nuove frontiere dell’erotismo, suscitando lo sviluppo di una nuova carne, ibrida tra organico e tecnologico. Il corpo, da sempre luogo di esplorazione, speranza e perdizione del cinema di Cronenberg è infatti anche l’ultima speranza della natura. Il corpo reagirà infine alla stessa minaccia dell’uomo per rinnovarsi e risolvere l’incompatibilità tra uomo e mondo: come nel precedente Crimes of the Future, in cui i corpi degli uomini cominciano a mutare spontaneamente per permettere di trarre nutrimento dalle sostanze plastiche che hanno invaso la terra.

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Alla fine però anche l’immanenza iperbolica di Cronenberg e del suo alter-ego Karsh sembra risolversi in una sorta di dotta ignoranza dai toni misticheggianti: «Ho vissuto nel corpo di Becca, è l’unico posto in cui ho realmente vissuto; il suo corpo era il mondo, il significato e la fine del mondo. Non so spiegarlo». Frase che torna, coscientemente o meno, alla questione biblica all’essere una sola carne, a quella donna che è necessità e fine dell’uomo come richiama il Siracide (26,22-25). Una dipendenza fisico-visiva che nella pellicola di Cronenberg non è solo narrazione ma realtà concreta: Karsh può essere solo nel corpo di sua moglie e non c’è nessuna nuova relazione che potrà colmare il vuoto lasciato dal quel corpo.

A questo proposito è interessante la vicenda che vede il protagonista impegnato in un rapporto conflittuale con una intelligenza artificiale, Hunny. Qui Cronenberg oppone l’artificialità della tecnologia alla realtà del corpo e alla necessità di Karsh di stare di fronte a un altro essere in carne e ossa che gli sia complementare. Così per Karsh il corpo della moglie defunta è l’ultima immagine, che solo la tecnologia della Gravetech può restituirgli fino alla sua definitiva consumazione, che è anche consumazione del senso stesso del mondo e della propria storia individuale.

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È dunque rilevante il parallelo tra il sudario di Cronenberg e la sindone di Torino. Vere o false, le due immagini si oppongono dando forma una all’uomo che prende nel suo corpo le contraddizioni del mondo per trasformare la carne nel suo contrario, lo spirito, pur rimanendo corpo; l’altra, l’immagine della carne dell’uomo, la donna (come scriveva Teilhard), che, morta, rimanda però solo alla fine ultima delle carne e all’insignificanza della vita dell’uomo. Alla fine, in entrambi i casi, la tomba è comunque vuota. Ma forse è a questo vuoto che corrisponde anche la più autentica realtà de sacro, un «vuoto anatomico», come scriveva G. Ceronetti commentando Il Cantico dei Cantici, dove il velo è necessario per potere vedere l’invisibile: «perché dietro la nudità c’è l’orrore supremo, il punto estremo della sacralità, il niente. Niente è il luogo di Dio».[3]

Forse allora è proprio questo nulla a essere decisivo – o almeno lo è nella pellicola di Cronenberg; nulla nel quale ci si perde definitivamente o si trova definitivamente se stessi nell’altro, che è insieme il mio vuoto e il mio senso.

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[1] P. Teilhard de Chardin, Il cuore della materia, Queriniana, Brescia 2015, 49.

[2] A. Tagliapietra, Icone della fine. Immagini apocalittiche, filmografie, miti, Il Mulino, Bologna 2010, 25-26.

[3] Il Cantico dei Cantici, G. Ceronetti a cura di, Adelphi, Milano 2003, 61.

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