
Un volume dedicato alle relazioni umane e in particolare alla dialettica «io»-«noi», fattasi sempre più acuta in un tempo segnato dalla lacerazione del tessuto sociale. L’autrice traccia un itinerario sostenuto dalla convinzione che sia possibile ricucire lo «strappo» e ridare vita a un «noi» fondato sulla cura, sulla prossimità e su rispetto radicale dell’altro e dell’altra. Emilia Palladino è laureata in fisica con indirizzo astrofisica e cosmologia a La Sapienza di Roma e ha conseguito un dottorato in dottrina sociale della Chiesa presso la Pontificia Università Gregoriana dove insegna nella Facoltà di Scienze Sociali e nel Diploma in teologia pratica con specializzazione in pastorale familiare. Per gentile concessione dell’editore riprendiamo di seguito l’Introduzione al volume (Io e Noi. Un incontro inevitabile, San Paolo, 2025)
Da tempo le relazioni fra le persone sono un mio pensiero costante: in parte ne vedo l’incredibile bellezza, in parte sono un mio cruccio tenace. Osservo continuamente, e scopro da fonti diversissime, declinate in molteplici esperienze e letture, che senza relazioni sane, soddisfacenti, ricche e sincere, nessuno e nessuna di noi può vivere pienamente la scoperta di sé, né l’entusiasmo dell’assistere alla fioritura degli altri e delle altre; e poi osservo che implacabilmente dalle relazioni, possono emergere separazioni che coinvolgono più di una generazione, e non troppo raramente, violenza e morte.
Della pandemia da Covid-19 che ha sconvolto le nostre vite solo cinque anni fa, nessuno parla più. È accaduto altre volte nella storia, che delle pandemie non se ne parlasse più pochissimi anni dopo la scomparsa del fenomeno pandemico.[1] Eppure, dal Covid, le relazioni che si intessono sembrano essere cambiate: pare infatti che si siano in parte incattivite; si percepisce un deterioramento lento, ma apparentemente inesorabile, della capacità di stare insieme; sembra che all’impegno della costruzione dei legami si preferisca l’illusione che esistano senza sforzo.
Molti e molte sono vittime di un isolamento non voluto che senz’altro ha varie origini – psicologiche, sociali, economiche, politiche – ma sembra non funzionare più come prima l’ammortizzatore della comunità civile. Anche in ambito ecclesiale mi pare si soffra una generalizzata abitudine alla difesa, che logora le comunità: incapaci di capire, interpretare e abitare il mondo pericoloso, ma anche estremamente bisognoso, nel quale si sviluppa questo tempo difficile, queste si arroccano in torri di norme e dottrina da difendere strenuamente, senza più incontrare le persone vere.
Non è un fenomeno ovunque presente, altrove esistono esempi virtuosi di comunità vive che nutrono; tuttavia, la polarizzazione fra le prime e le seconde esaspera il dialogo ecclesiale e non sempre si ricompone la spinta alla diffusione del messaggio evangelico. Moltissimo ha fatto la sinodalità per ricucire tali strappi, ma a me pare che il percorso sia ancora lungo, sia in termini di ascolto di tutte le parti della Chiesa, sia in termini di vera riforma ecclesiale.
Le categorie interpretative delle relazioni, quindi, sembra si siano decisamente spostate verso le dicotomie amico/nemico, noi/loro, che poi però si sono deformate in una sorta di battaglia donchisciottesca dell’io contro tutti e tutte. L’ansia pervasiva di dire la propria su qualunque argomento possibile – come se questa fosse la cifra essenziale dell’esistere e del sapersi imporre nel mare del “così fan tutti/tutte” – esce dalla bocca con parole senza filtri, senza attenzione, senza riguardo. Anzi, è un vanto: l’autenticità viene sostituita dal vomitare qualunque sentenza, basta che sia pensata e/o provata, basta che sia la propria.
Si denuncia l’eccesso di individualismo; si indica il pericolo del narcisismo[2] come il maggiore, dal punto di vista delle relazioni in questi tempi, e si mettono in guardia i giovani, indicando i tratti caratteristici, i pericoli nei quali si potrebbe incorrere, così gravi da sconfinare, con numeri spaventosi, in omicidi – quasi sempre femminicidi – efferati.[3]
Inoltre, in questi ultimi due anni si è assistito impotenti al fatto che l’unica possibilità di soluzione dei conflitti sembra essere sempre più la guerra. Guerra con le armi, guerra con i corpi, guerra con le parole, con i pensieri, con i sentimenti; guerra in economia, guerra civile, guerra in politica, guerra anche nella Chiesa. Le polarizzazioni diventano vere e proprie battaglie sul campo, che lasciano a terra morti fisiche e morti piscologiche e sociali.
E chi invece la guerra non la vuole? Non la sa fare? Non è adatto, non è adatta? Chi non riesce a credere che la via per la composizione sociale e per la salvaguardia delle persone e dei popoli sia quella della legge del più forte, che posto ha? E chi crede che ancora ci sia spazio per l’umano, per la pace, per la costruzione di legami salvifici, come un artigiano alle prese con la sua arte, dove può esercitarsi? È possibile ancora pensare e credere che “essere con” si coniughi perfettamente con l’essere libero e libera?
Se la polarizzazione a cui si assiste negli ultimi anni, può essere percepita – e forse lo è realmente – come una vera e propria lacerazione del tessuto sociale, allora ricucire gli strappi, riparare le brecce[4] sembra possa candidarsi a essere oggi l’attività di chi si pone in seria e convinta contrapposizione con questo apparentemente inesorabile marciare verso la divisione bellica, a cui giornalmente si assiste.
Ecco, in questo testo, ho cercato di impostare un edificio concettuale che risponda alla domanda se sia possibile ricucire gli strappi e riparare le brecce, se sia possibile ricostruire la fiducia nelle persone e nelle buone relazioni, quei tanti noi che, se scelti e coltivati, possono riempire le esistenze dei viventi. Mi sono chiesta anche come si faccia a costruire una buona relazione e che valore abbia dal punto di vista privato e sociale, cioè se e come questa attività possa introdurre un cambiamento negli stili di vita comuni.
La riflessione proposta nelle pagine successive rappresenta un tentativo di offrire spunti di riflessione a chi si pone le stesse mie domande, a chi forse vede quello che vedo io e che, come me, non vuole in alcun modo cedere al pensiero nero, intenso e ossessivo, spesso etero-indotto, che “non ci sia più nulla da fare”.
Per dare fondamento a questo progetto di riflessione, il libro è diviso in tre capitoli che cercano di esplorare le dinamiche relazionali originarie: in particolare non ho voluto soffermarmi sull’impatto dei social sulle relazioni.
Lo dico qui, nell’introduzione, non come una mancanza – che forse si può ravvisare – ma come una scelta precisa. Per quanto, infatti, si possa iniziare – e a molti e molte accade – una relazione online, attraverso le “amicizie” che si stabiliscono sui social, o le infinite chat che app come Instagram e WhatsApp consentono, a un certo punto, per tutte e tutti, giunge il momento di incontrarsi in carne e ossa – ovviamente se c’è interesse a farlo. È questo il momento in cui “il gioco si fa serio”: l’assenza di mediazione dello schermo impone una comunicazione differente e il parlare è ben diverso dallo scrivere. Ecco, nel mio riflettere, sono voluta partire, implicitamente, dai corpi: dallo sguardo, prima di tutto, ma anche dal tono della voce, dalla scelta di come muovere i muscoli del volto, come atteggiarsi, cosa dire e come dirlo. I corpi che si guardano sono per me relazione che inizia e diviene.
Dicevo dei tre capitoli. Nel primo affronto il tema dello sguardo: vedere sé stessi, vedere gli altri e le altre, con attenzione; riconoscerli e riconoscerle per ciò che sono e non per quello che dovrebbero essere o vorremmo che fossero richiede scelte relazionali consapevoli e il coraggio di accorgersi che guardare a fondo non è certamente valutare l’altro, l’altra, ma dargli e darle lo spazio di auto-comprendersi per come è, tanto da essere in grado di sperimentare la propria dignità in un mondo che ne parla tanto, ma la rende poco con concretezza.
Nel secondo capitolo, la riflessione procede sugli ostacoli a scelte di relazione autentiche, dove la diversità delle parti sia considerata una possibilità di crescita e non un ostacolo alla relazione stessa. Si parlerà di pregiudizi, di norme, di dinamiche di normalizzazione, che sottendono sempre alla selettività nei riguardi delle persone, e mi chiederò se sia lecito affrontare la costruzione del noi senza mettere in discussione nulla di questo apparato stereotipico socialmente e culturalmente. La risposta sarà che non ne vale la pena: in questo modo non si incontrano gli altri e le altre nelle loro condizioni reali, ma solo l’idea che si ha di loro, attraverso un’idea altrettanto sclerotica di sé.
Nel terzo e ultimo capitolo cercherò di proporre una strategia che consenta di affrontare gli ostacoli visti precedentemente – se si vuole – attraverso una presa di posizione profonda e inevitabile per la costruzione del bene della relazione e cioè mantenere fisso l’obiettivo di considerarsi alla pari. In questo senso la parità diviene struttura ossea di ogni relazione scelta dalle parti. Qui lo si ricorda, la relazione prevede persone che si compromettono in essa: non può in alcun modo “funzionare” se solo una delle parti pone l’impegno e la dedizione nel renderla viva e solida. In questo caso non si tratta di una relazione alla pari, ma di un’altra cosa, spesso molto più vicina all’esercizio di una dinamica di potere. Di ciò parlerò esplicitamente nel testo, laddove individuo la distorsione dell’agire relazionale e chiedo, implicitamente, che si cambi nome a queste forme di sclerosi del noi.
Laddove c’è potere, violenza, pregiudizio, classificazione, scarto, non c’è relazione “buona”: pare un’ovvietà, ma se fosse vero non si assisterebbe allo scempio dei legami e delle parole sui legami presente in questo tempo.
In definitiva, il mio è un contributo di pensiero alla costruzione della prassi sociale della speranza in un futuro in parte ancora da scrivere.
Questo libro, infine, è rivolto a chiunque abbia interesse negli stessi argomenti; per quanto sia stato affrontato il tema con riferimenti accademici e scientifici, ho voluto impostare la scrittura, sperando di esserci riuscita, in modo che fosse comprensibile al maggior numero di persone possibile.
Tuttavia, non posso nascondere che, scrivendo, ho pensato spesso agli studenti e alle studentesse che ho incontrato nei miei vent’anni di insegnamento nella Facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università Gregoriana, provenienti da diversi paesi del mondo, che mi hanno insegnato che anche una “buona” qualità delle relazioni che si intessono nella vita può portare il peso di pregiudizi, stereotipi e solitudine culturale. A loro, che ringrazio, è indirizzata questa mia ricerca intellettuale.
[1] Per esempio, con l’influenza spagnola del 1918: il quel caso la Prima guerra mondiale ne ha ridotto l’impatto percepito, ma in realtà sono morte un numero maggiore di persone rispetto alla soma dei morti di Prima e Seconda guerra mondiale; cfr. L. Spinney. 1918 l’influenza spagnola: la pandemia che cambiò il mondo. Venezia: Marsilio, 2018. Andando più indietro nel tempo, è successo anche nel caso della pestilenza successiva al sacco di Roma del 1527, che durò un anno e fece più morti del sacco stesso, riducendo di due terzi la popolazione romana alla fine del 1528: non se ne parlò mai tanto quanto la devastazione su Roma delle truppe imperiali di Carlo V, guidate dal duca Carlo III di Borbone; cf. A. Di Pierro. Il sacco di Roma. 6 maggio 1527: l’assalto dei lanzichenecchi. Mondadori, 2003.
[2] Per un approfondimento alla portata di chiunque abbia interesse nel tema cfr. V. Lingiardi. Arcipelago N. Variazioni sul narcisismo. Einaudi, 2021; un autore citato anche nel seguito con una sua ulteriore pubblicazione.
[3] Secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale di “Non una di meno”, i femminicidi nel 2025 sono stati finora 48; nel 2024, 115. Cf. Osservatorio nazionale NUDM. «Archivio dati».
[4] Cf. Is 58,12.





