
Ogni anno il festival di Venezia carica l’atmosfera del Lido di un’eccitazione quasi palpabile. Tra il 27 agosto e il 6 settembre, sulla piazza di fronte al Palazzo del Casinò è sbarcato il mondo del cinema in tutto il suo caos e la sua bellezza: dal pubblico nei suoi look sfavillanti ai paparazzi in t-shirt che si preparano all’interminabile attesa delle star sul bordo del red carpet. Musica, gigantografie, applausi, flash. Ma quello era Sorrentino che prende il caffè?
Da quando si spengono le luci e comincia il primo film si è come sotto l’effetto di un incantesimo.
Una carrellata sulle principali pellicole
E il film d’apertura non è altro che La Grazia di Paolo Sorrentino. Al contempo elettrico e introspettivo, Toni Servillo (Coppa Volpi per la Migliore Interpretazione Maschile) si mette nei panni di un Presidente della Repubblica che, a fine mandato, si ritrova alle prese con alcune delle decisioni più importanti della sua carriera e della sua vita. Tra una fumata e l’altra, il protagonista si interroga sui rimpianti del passato e sulle scelte per il futuro e così facendo è obbligato a mettere in dubbio sé stesso.
Una pellicola coinvolgente e moderna, visivamente accattivante, che passa dal comico al contemplativo con naturalezza. Sorrentino, con il suo inconfondibile tocco, stravolge le convenzioni in un film che vi rimarrà impresso.
Il rimpianto torna in scena coperto di glitter nel caotico Jay Kelly di Noah Baumbach. George Clooney interpreta il personaggio eponimo: un divo del cinema ricoperto di attenzioni e di denaro. Un film sull’identità, su quello che rimane quando si sacrifica tutto in nome di un sogno. La mano esperta di Baumbach unisce presente e passato, realismo e finzione in scene ad alto impatto visivo.
Cosa può mancare a un uomo che ha tutto? L’amore di una figlia, la vicinanza di un padre, la complicità di un amico e, come a tutti gli altri del resto, la possibilità di ricominciare daccapo, con un nuovo «ciak, si gira».
Dinamiche familiari
Famiglia, incomunicabilità, disagio. Sono solo alcuni dei temi ricorrenti del festival, centrali anche nel film vincitore dell’ambìto Leone d’Oro: Father Mother Sister Brother di Jim Jarmusch.
Il regista di Stranger Than Paradise, Dead Man e Broken Flowers dirige un cast di stelle, tra cui Adam Driver, Cate Blanchett e un indimenticabile Tom Waits, in un film il cui protagonista è il dialogo. Ma anche questa volta è un dialogo in cui è quello che manca a contare: i protagonisti sono i non detti, le bugie palesi, i silenzi imbarazzanti.
Jarmusch unisce tre episodi a sfondo familiare apparentemente slegati, ma tenuti assieme da elementi ricorrenti che, come in un caleidoscopio, si ricompongono in nuove configurazioni.
Da Hollywood arriva anche Frankenstein, con cui Guillermo del Toro realizza il sogno coltivato fin dall’infanzia, come lui stesso ha confessato in conferenza stampa. Con Oscar Isaac nei panni di Victor Frankenstein e Jacob Elordi in quelli della Creatura, affiancati da un cast di livello, l’opera riflette sull’umanità ribaltando i ruoli tra uomini e mostri.
L’attenzione alle dinamiche familiari, le suggestioni cristiane e un immaginario visivo potente ne fanno un lavoro personale e originale e, al tempo stesso, fedele al romanzo scritto da un’appena diciottenne Mary Shelley, a dimostrazione di come i classici abbiano sempre qualcosa di nuovo da raccontare.
La voce di Hind Rajab
Ma a Venezia non c’è solo fiction, anche in questa bolla il mondo esterno c’è e pretende di essere ascoltato. Dalle polemiche e dai boicottaggi contro Gal Gadot e Gerard Butler per le loro posizioni filo-israeliane, alla marcia pro-Palestina lungo il Gran Viale al grido di «Free Palestine. Stop al genocidio».
A scuoterci direttamente sulle poltrone anche The voice of Hind Rajab di Kaouther Ben Hania che si aggiudica il Gran Premio della Giuria e una standing ovation di 22 minuti all’apertura. La regia mescola abilmente registrazioni audio e video reali a una sovrastruttura narrativa, in un film che denuncia la situazione umanitaria al collasso nella Striscia di Gaza e le scelte impossibili a cui fanno fronte i coraggiosi operatori della Mezzaluna Rossa.
Le scelte impossibili sono all’ordine del giorno anche nell’esplosivo A House of Dynamite di Kathryn Bigelow che mostra, con agghiacciante realismo, i 20 minuti in cui si decide una guerra nucleare. Idris Elba e Rebecca Ferguson convincenti.
A metà tra un documentario e una drammatizzazione Le Mage du Kremlin di Olivier Assayas, tratto dall’omonimo romanzo. Un eccezionale Paul Dano ci racconta la transizione dall’Unione Sovietica alla Russia attuale e la corrispondente ascesa dello “Tsar” Vladimir Putin, interpretato da Jude Law.
Infine, il Leone d’Oro alla carriera va al documentarista tedesco Werner Herzog, che torna sul grande schermo con Ghost Elephants, e a Kim Novak, musa di Hitchcock in Vertigo, che tuttavia non lascia il segno nel documentario a lei dedicato, Kim Novak’s Vertigo di Alexandre Philippe.
La mia esperienza
Sono andato a Venezia come rappresentante dell’Associazione Protestante Cinema “Roberto Sbaffi” nella giuria Interfilm. Si tratta di una giuria protestante e internazionale che ha come scopo la promozione del dialogo interreligioso e dell’ecumenismo all’interno della mostra.
Il progetto nasce grazie agli sforzi congiunti di Interfilm e della Sbaffi che, dal 2011, collaborano con La Biennale per offrire una prospettiva protestante attraverso l’assegnazione di un premio collaterale.
Per dare l’idea, per questa edizione la giuria contava giurati da ben 4 paesi diversi: Italia, Germania, Lettonia e Stati Uniti!
All’unanimità abbiamo scelto di premiare Silent Friend della regista ungherese Ildikó Enyedi, un film «che risveglia la nostra meraviglia per il mondo, spalancando le porte della percezione e restituendoci un senso di curiosità infantile. Un trittico che si dispiega sulle interconnessioni e ramificazioni della vita, una resa poetica dell’unione tra scienza e spiritualità».
Il film è stato premiato anche dalla FIPRESCI e Luna Wedler ha vinto il Premio Marcello Mastroianni per la Miglior Attrice Emergente.





