
La terza monografia dell’anno 2025 della Rivista di spiritualità pastorale Prebyteri affronta il tema della preghiera, «ma con l’intento di riflettere sulle particolarità della preghiera dei presbiteri. Ci accorgiamo quanto sia importante in questo nostro tempo e per tutti la cura della vita interiore; è dalla profondità del cuore e che nasce lo sguardo con cui cogliere se stessi, il servizio ministeriale, le persone che si incontrano, fare esperienza di gratuità, riconoscere e leggere ciò che accade “dentro” ogni volta che si vive una determinata esperienza». Riprendiamo l’editoriale di Presbyteri 3/2025 firmato da don Nico Dal Molin
Nel rito della ordinazione presbiterale il Vescovo, rivolgendosi ai candidati all’Ordine, propone loro cinque domande che, in sintesi, potrebbero essere come una road map del cammino che ogni presbitero è chiamato a vivere. La prima riguarda la disponibilità a vivere con pienezza il proprio ministero in una “cooperazione fedele” con il Vescovo e nel servizio del popolo di Dio. Il secondo impegno è legato a una concreta consapevolezza che quella del presbitero è una vita spesa mettendo al primo posto il ministero della Parola e l’annuncio del Vangelo. La terza scelta, proclamata davanti al Vescovo e a tutta l’assemblea cristiana, è quella di vivere in maniera intensa e fedele la celebrazione dell’Eucaristia e del sacramento della riconciliazione. Il quarto impegno, poi, merita di essere riportato nella sua integralità, perché tocca in profondità la vita quotidiana di un prete.
Il Vescovo chiede ai candidati: «Volete insieme con noi implorare la divina misericordia per il popolo a voi affidato, dedicandovi assiduamente alla preghiera, come ha comandato il Signore?». «Sì, lo voglio» è la risposta degli ordinandi. A queste richieste se ne aggiunge una conclusiva che è la sintesi di tutte le domande precedenti. In essa si fa appello ad una disponibilità totale a fare della propria vita un dono, una offerta che, pur nella fragilità delle scelte umane, si innesta sulla vita di Gesù totalmente donata per la salvezza, la liberazione e la guarigione di ogni esistenza umana.
Non è casuale che la risposta a questa domanda sia: «Sì, con la grazia di Dio lo voglio».
Nella visita di papa Francesco a Palermo nel 2018, durante la messa in memoria del Beato Pino Puglisi, egli ha concluso l’omelia dicendo: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Queste parole di Gesù, scritte sulla tomba di don Puglisi, ricordano a tutti che dare la vita è stato il segreto della sua vittoria, il segreto di una vita bella. Oggi, cari fratelli e sorelle, scegliamo anche noi una vita bella. Così sia.
A ogni ordinazione presbiterale sono sempre più stupito e commosso dalla sequenza di queste domande, di cui solo progressivamente, negli anni, si riesce a comprendere il valore e la ricaduta concreta nella vita di un prete. Nel risentirle, o anche solo nel rileggerle, divengono una memoria viva che interroga e provoca le nostre esistenze.
L’arte di coltivare il cuore
Il dedicarsi “assiduamente” alla preghiera, così come viene richiesto nel giorno dell’ordinazione, potrebbe essere veramente il tempo dedicato a coltivare il cuore. Nella misura in cui si dà spazio ai momenti per rientrare in se stessi e per prendersi cura della propria interiorità, ci si predispone a vivere e a gustare i momenti della preghiera quotidiana. Altrettanto, nella misura in cui si dà spazio alla preghiera, ci si prende cura di tutto ciò che di più profondo custodisce il cuore, sia legato al proprio vissuto sia a quanto di prezioso viene consegnato e affidato nell’accogliere la vita delle persone. Coltivare il cuore nella preghiera significa imparare ad accompagnarlo con pazienza, delicatezza e rispetto sulle vie della verità, lasciando cadere le tante maschere di finzione con cui si è tentati di nascondere ciò che si è.
«È il tempo che hai perduto per la tua rosa, che ha fatto la tua rosa così importante» – disse la volpe al piccolo principe. «È il tempo che ho perduto per la mia rosa…» – sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.
Coltivare il cuore, nell’attuale contesto di irrequietezza e frenesia, di ambiguità delle parole e degli atteggiamenti, è una sfida molto impegnativa. Richiede la capacità di declinare insieme due dimensioni essenziali della vita: far tesoro di ciò che si è vissuto (la memoria) e guardare oltre il momento presente (la profezia).
La memoria di quanto vissuto aiuta a capire ciò che accade intorno a noi, leggendo e interpretando i segni e gli eventi della vita stessa.
La profezia, intesa come sguardo che sa andare oltre il momento presente, chiede di rimanere in un costante e vigile atteggiamento di ricerca. Nella ricerca c’è tutto: il cammino, la lotta, il desiderio di osare, le paure, le resistenze e gli ostacoli, i momenti di confusione come quelli di chiarezza, la forza della comunione e il rischio della solitudine, la tentazione e la Grazia.
Un giorno un discepolo chiese al maestro una parola di saggezza; il maestro gli disse: «Va’ a sederti nella tua cella e la tua cella ti insegnerà la saggezza». A quel punto il discepolo, quasi con un cenno di stizza, rispose: «Ma io non ho una cella, perché non sono un monaco». Ma il maestro dolcemente rispose: «Certo che hai una cella; guarda dentro di te e … capirai».
La memoria e la profezia aiutano l’arte di coltivare i giardini del cuore, guardandosi dentro con coraggio e verità, con fiducia e positività. Aiutano a ritrovare il gusto di sentirsi in contatto con il nucleo profondo della natura e del creato, degli altri e di se stessi, toccando con mano la bellezza dell’amore di Dio per noi. Abitare la propria interiorità apre il cuore alla preghiera.
Interiorità: fatica e sollievo
Imparare a rientrare in sé stessi non è un optional; è piuttosto una dimensione costitutiva nell’esperienza del cuore e della preghiera. In noi ci sono due forze che si contrappongono tra loro, talvolta in maniera conflittuale e drammatica: la forza centripeta e la forza centrifuga. La prima ci urge nel cuore per cercare spazi di ascolto, di silenzio, di calma, di elaborazione interiore. La seconda ci spinge all’esterno di noi stessi, verso le mille cose da fare, l’efficientismo nevrotico e parossistico, la visibilità in cui trovare gratificazione, il mondo delle apparenze che in un attimo si consuma e ti consuma e lascia solo un mucchietto di cenere dietro di sé: potremmo definirla «la festa dell’effimero», di ciò che Qoèlet definisce hebèl, soffio, vanità delle vanità.
Quell’effimero che lo scrittore e poeta Hermann Hesse, premio Nobel per la letteratura nel 1946, rilegge in maniera sorprendente: Così il nostro cuore è consacrato con fraterna fedeltà a tutto ciò che fugge e scorre, alla vita, non a ciò che è saldo e capace di durare. Presto ci stanca ciò che permane, rocce di un mondo di stelle e gioielli, noi anime, bolle di vento e sapone sospinte in eterno mutare.
Spesso noi privilegiamo la forza centrifuga; è più facile ed immediata, comporta uno sforzo ed una fatica minori. È la tentazione diffusa dell’uomo contemporaneo che si ritrova ad essere “fuggitivo, dislocato e spaesato”.
Molte icone bibliche rimandano a questa esperienza di timore, se non di paura, nel rientrare in se stessi per confrontarsi con la propria verità: Giona, Elia, Giuda e tanti altri sono in fuga da se stessi. Altri personaggi biblici invece, come Giobbe e Qoélet, Geremia e Osea, Pietro, Paolo, Maria di Magdala non fuggono, ma accettano la sfida del rientrare in se stessi, sperimentando la pesantezza di un cuore che vive la propria debolezza e fragilità. Questo li riconcilia profondamente con la loro vita.
Sono tante le persone che vivono sotto la cappa di piombo di uno scetticismo fatalistico e rassegnato, dove l’espressione più ricorrente è: «Non serve a nulla, non cambia niente nella mia vita, io sono fatto così!» Questa rassegnazione fa svanire la forza attrattiva del desiderio e del sogno, fa venire meno la forza calamitante degli ideali e consegna la vita alla legge spietata, eppure così diffusa, della omologazione e della mediocrità.
Coltivare il cuore significa proporre a se stessi l’appello forte e coraggioso per tornare a volare alto, per lasciare spazio ai propri sogni più belli e appassionati e la preghiera si nutre della forza del desiderio: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua» (Sal 63).
Una questione di priorità
In un testo breve ma efficace del vescovo Klaus Hemmerle e del teologo Wilhelm Breuning, sono proposte alcune priorità che i presbiteri dovrebbero tenere presenti per poter vivere con fedeltà e autenticità la vocazione e il ministero ricevuti dal Signore.
È un testo che, nella edizione originale, è stato pubblicato alcuni anni fa, ma rileggendolo alla luce delle fatiche che i presbiteri vivono oggi, quelle proposte sono ancora di una straordinaria freschezza e attualità. Il problema che anche oggi si pone, a fronte di cambiamenti continui, strutturali ed esistenziali, è soprattutto quello di ordinare le priorità, di chiarire ciò che è decisivo, di “obbedire” a ciò che è più importante. Le prime quattro priorità indicate dagli autori sono:
- la maniera di vivere come presbitero è più importante di ciò che un presbitero fa in quanto tale;
- ciò che Cristo opera nel presbitero è più importante di ciò che il presbitero fa da se stesso;
- vivere la comunione del presbiterio è più importante che lasciarsi assorbire dal proprio lavoro;
- il servizio della preghiera e della Parola è più importante del servizio delle tavole.
Trovare l’equilibrio tra l’assiduità dello stare con il Signore e la missione verso gli uomini è delicato e spesso faticoso, perché è pur sempre un equilibrio instabile che giorno dopo giorno deve essere re-instaurato. Gli Atti degli apostoli ci testimoniano che gli apostoli stessi si resero conto ben presto di una patologia che minacciava gravemente il loro ministero: Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola» (At 6,2-4).
Il problema delle priorità nella vita del presbitero già allora si rivelò come «il caso serio» da affrontare: il prete è chiamato a fare tante cose nell’arco della sua giornata, ma quali sono le sue priorità? Che cosa risulta decisivo e che cosa secondario?
La preghiera è decisiva perché è l’altra faccia della medaglia della fede: la preghiera nasce dalla fede e a essa rimanda (cf. Gc 5,15): verificare lo status della propria preghiera di fatto significa verificare lo status della propria fede. «La preghiera è il respiro della fede, è la sua espressione più propria. Come un grido che esce dal cuore di chi crede e si affida a Dio». Con queste parole papa Francesco iniziò le sue catechesi sulla preghiera nelle udienze del mercoledì a partire dal maggio 2020.
Forse è proprio il caso di tornare a ripetere come una litania del cuore: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1).






Credo che l’articolo riporti l’attenzione su qualcosa di basilare del sacerdote: è prima di tutto uomo di preghiera attraverso cui vive il suo essere mediatore tra Dio e gli uomini. L’interiorità abitata da Dio lo rende trasparenza di Dio, strumento umile del suo agire nella storia. Drewermann ha assunto posizioni polemiche contro la Chiesa cattolica e ha lasciato il sacerdozio. Non credo possa essere proposto come punto di riferimento credibile per i sacerdoti. Il sacerdote resta tale pur nella sua fragilità e, come Colui che da Dio si fece debole come tutti gli uomini, è in quella debolezza che rivela la potenza di Dio. Deve continuare a convivere nella debolezza affidandosi completamente a Dio che usa i deboli per rivelare la sua “potenza”.
La vita interiore tutti la dobbiamo coltivare per non lasciarci sopraffare dalle ideologie e dalle difficoltà, ma soprattutto il sacerdote dovrebbe sottrarsi all’attivismo e dedicarsi alla Parola e alla preghiera per essere specchio del divino.
La mia considerazione verte proprio sul fatto che non è il prete il mediatore fra Dio e l’uomo , ma Gesù Cristo . Se l’analisi di Drewermann fosse stata presa sul serio oggi forse avremmo “responsabili di comunità” più centrati umanamente, meno inclini all’attivismo sterile e in ultima analisi più felici. E forse avremmo come “responsabili di comunità” uomini e donne , sposati e single … credo che comunque, al netto dei preti importanti, la cosa accadrà comunque
Tutti questi bei consigli valgono assolutamente anche per i cristiani “normali”: ogni uomo ha un’ interiorità da coltivare , una comunità a cui appartenere e , se crede , sa che Dio fa grandi cose per lei/lui.
Mi meraviglia semmai che cose tanto scontate vengano proposte come una “scoperta” ( dell’acqua fresca !) e vengano consigliate ai “presbiteri” … Sono regole umane universali e ciò mi fa pensare che siano semplicemente regole disattese per secoli nella chiesa cattolica : sono quelle che hanno creato i “funzionari di Dio” di cui parla Drewermann, uomini che hanno perso umanità in ottemperanza a obblighi di prestazione e di fedeltà a una gerarchia che ha ben poco di evangelico. L’obbedienza – come diceva Don Milani – non è più una virtù.
E, una buona volta , smettiamola di trattare i “sacerdoti” come superman, sono uomini come noi e non hanno in esclusiva il SACRO: la crisi delle “vocazioni” c’è proprio perché nessuno più crede ai loro poteri taumaturgici.
Articolo simpatico che propone cose ovvie e sicuramente non nuove agli orecchi di qualsiasi prete. Non vorrei però che il punto di partenza di tutto questo discorrere fosse il pregiudizio che i preti sono indaffarati e non hanno tempo per pregare, quindi non pregano. In realtà un tempo veniva insegnato che, poiché il prete è alter Christus e tramite la sua persona la grazia di Dio raggiunge l’umanità, lo stesso agire pastorale del prete è preghiera. Mettiamoci quindi il cuore in pace, stimiamo i preti di oggi e ringraziamo il buon Dio di averceli donati.
Manca l essenziale oggi nelle ordinazioni,ovvero il giuramento antimodernista ! Tutto il resto è noia.
Mah… veramebre poche settimane fa tutti abbiamo visto papa Leone XIV ordinare una trentina di giovani sacerdoti e a tutti il papa a chiesto, fermandosi singolarmente davanti a ogni ordinando.
E a ognuno di loro a chiesto: “Prometti al tuo ordinario filiale rispettoce obbedienza?” E ogni ordinando ha risposto: “Si, prometto”. Domanda fondamentale ed essenziale, magari poi anche disattesa…