Donne e diaconato: di sproposito in sproposito

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donne e teologia

Il cuore del problema è aver permesso alle donne di studiare teologia, è evidente.

D’altro canto, che «dottorar» le donne fosse uno sproposito lo aveva già visto bene il santo cardinale Barbarigo che, nel non troppo lontano 1678, aveva negato a Elena Lucrezia Cornaro Piscopia il conferimento della laurea in teologia e si era adoperato, senza per altro riuscirci, perché le venisse negata anche quella in filosofia[1].

Ora, passi il saper scrivere il proprio nome e cognome, fare due conti, leggere qualche romanzetto, un po’ di letteratura, un po’ di poesia. Ma una laurea! Una donna laureata – e in teologia, per di più – è un monstrum, una ridicolaggine pericolosa che scompagina l’ordine naturale delle cose, l’armonia della famiglia e della società. Uno sproposito senza rimedio. Lo aveva visto bene, san Gregorio Barbarigo.

Il caso di Lidia Poët

Prendiamo il caso di Lidia Poët, una delle prime donne in Italia a laurearsi in giurisprudenza e la prima ad essere ammessa alla pratica legale.

Nata il 26 agosto 1855 da una famiglia valdese in un piccolo villaggio della torinese Val Germanasca, la giovane Poët intraprese la strada dell’avvocatura dopo essersi laureata a pieni voti presso l’Università di Torino, nel 1881, con una tesi sul diritto di voto delle donne. Nel 1883, superato l’esame da procuratore, chiese l’iscrizione all’Albo. Con otto voti a favore e quattro contrari, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino approvò la domanda e Lidia Poët divenne così la prima donna in Italia ad essere iscritta all’Albo degli Avvocati e dei Procuratori legali.

Il fatto, naturalmente, non passò inosservato e, anzi, suscitò violente polemiche e dibattiti feroci sia tra gli addettiti ai lavori sia nell’opinione pubblica, tanto che la Corte d’appello di Torino arrivò in breve a pronunciarsi a favore della cancellazione dell’iscrizione di Lidia Poët all’Albo degli Avvocati.

Poët fece ricorso in Cassazione, ma anche la Cassazione confermò la pronuncia d’Appello. A sostegno delle proprie affermazioni, la Corte faceva ricorso ad argomentazioni basate su una presunta «naturalità» delle differenze di genere e sull’idea dell’inferiorità intellettuale e morale delle donne, non adatte per «natura» alla pratica legale, a prescindere dalle singole capacità individuali[2]:

«La questione sta tutta in vedere se le donne possano o non possano essere ammesse all’esercizio dell’avvocheria (…). Ponderando attentamente la lettera e lo spirito di tutte quelle leggi che possono aver rapporto con la questione in esame, ne risulta evidente esser stato sempre nel concetto del legislatore che l’avvocheria fosse un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non dovevano punto immischiarsi le femmine (…)  Non è questo il momento, né il luogo di impegnarsi in discussioni accademiche, di esaminare se e quanto il progresso dei tempi possa reclamare che la donna sia in tutto eguagliata all’uomo, sicché a lei si dischiuda l’adito a tutte le carriere, a tutti gli uffici che finora sono stati propri soltanto dell’uomo. Di ciò potranno occuparsi i legislatori, di ciò potranno occuparsi le donne, le quali avranno pure a riflettere se sarebbe veramente un progresso e una conquista per loro quello di poter mettersi in concorrenza con gli uomini, di andarsene confuse fra essi, di divenirne le uguali anziché le compagne, siccome la provvidenza le ha destinate».

Impedita nella possibilità di esercitare ufficialmente la professione, Lidia Poët per tutta la sua vita collaborò con il fratello avvocato, spendendosi nella difesa dei diritti degli emarginati, dei poveri, dei minori, dei carcerati, delle donne.

Intanto la questione dell’apertura alle donne della professione legale continuò ad essere oggetto di animati dibattiti tra chi, come il consiglio degli avvocati di Venezia, assumeva fermamente  posizione contro le discriminazioni nei confronti delle donne, e chi osteggiava qualsiasi possibilità di cambiamento, appellandosi a ragioni di tipo medico (ogni mese, per sette giorni, il ciclo mestruale avrebbe impedito alle donne di esercitare il lavoro con il necessario equilibrio mentale) o di tipo giuridico (essendo le donne soggette alla potestà maritale e non godendo degli stessi diritti degli uomini, assumere una donna come avvocato avrebbe comportato il paradosso di avere un «patrono» non titolare di tutte le facoltà giuridiche).

Nel frattempo, le donne continuavano ad iscriversi a giurisprudenza e a laurearsi. Poi ci fu la Prima guerra mondiale, poi la pace e poi, nel 1919, venne approvata la legge Sacchi (Legge n. 1176 del 17 luglio 1919), che abolì l’autorizzazione maritale e permise l’accesso delle donne ai pubblici uffici, pur permanendo l’esclusione dalla magistratura, come si legge all’articolo 7:

«Le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gl’impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato».

Nel 1920, ormai sessantacinquenne, Lidia Poët poté accedere all’Ordine degli Avvocati di Torino.

Come finisce la faccenda…

Come sia finita, poi, la faccenda, lo sappiamo bene. Perché non è che le donne si siano accontentate di fare le avvocate. Se ci si mette a rivendicare l’uguaglianza, uguaglianza dev’essere a tutti i livelli e a tutti gli effetti.

Quarant’anni dopo la legge n. 1176/1919, la sentenza n. 33 del 1960 della Corte Costituzionale dichiarò illegittimo il divieto posto alle donne di accedere alla magistratura e aprì così la strada alla riforma legislativa che, di lì a pochi anni, con la legge n. 66/1963, avrebbe permesso alle donne italiane di accedere a tutte le carriere pubbliche, esercizio del potere giudiziario incluso.

Per questo bisogna correre ai ripari. Perché c’è un pericolo nell’aria, non lo sentite? Si sente parlare di diaconato femminile, qualcuno (qualcuna…) ventila addirittura la parola «sacerdozio» … Non dobbiamo ripetere l’errore fatto con le professioni legali – prima avvocate, poi giudici, e poi Presidenti del Consiglio e poi… cosa ancora? Presidenti della Repubblica, magari?

E dunque, non si tratta di arginare le richieste – perché, se ora chiedono il diaconato, poi chiederanno il sacerdozio e… chissà mai dove vorranno arrivare, chissà. Si tratta, piuttosto, di trovare il modo di scalzare il problema dalla radice, tenendo insieme le buone ragioni del cardinal Barbarigo con i metodi radicali di… come si chiama quel paese là? L’Afghanistan, sì, ecco.

Dobbiamo prendere esempio dall’Afghanistan. Non è necessario che le bambine e le ragazze studino. E dunque, per prima cosa, cominciamo a vietare la presenza femminile nelle facoltà teologiche e liberiamoci di tutte quelle fastidiose donnette che vogliono diventare «teologhesse». Una cosa alla volta e vedrete che, di sicuro, anche tutti questi discorsi a sproposito sul diaconato e sulla ministerialità delle donne cominceranno piano piano a rientrare.


[1] Cf. https://www.settimananews.it/cultura/lo-sproposito-dottorar-le-donne/

[2] https://www.lidiapoet.it/

https://www.unibocconi.it/it/news/lo-strano-caso-di-lidia-poet

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22 Commenti

  1. Valerio 11 dicembre 2025
  2. Francesco 11 dicembre 2025
  3. Franca 11 dicembre 2025
  4. Alberto Marconi 10 dicembre 2025
    • Angela 10 dicembre 2025
    • Angelo 11 dicembre 2025
  5. Giancarlo 10 dicembre 2025
  6. Giuseppe 10 dicembre 2025
  7. Giambattista Savoldi 10 dicembre 2025
  8. Maria Cristina 10 dicembre 2025
    • Raffaele 11 dicembre 2025
  9. Gian 10 dicembre 2025
  10. 68ina felice 10 dicembre 2025
  11. Giambattista Savoldi 10 dicembre 2025
    • Rosa 10 dicembre 2025
      • Marina Umbra 10 dicembre 2025
        • Rosa 10 dicembre 2025
        • Fabio Dipalma 10 dicembre 2025
          • Pietro 10 dicembre 2025
      • Giambattista Savoldi 10 dicembre 2025
    • Beatrice Iacopini 11 dicembre 2025
  12. Una donna 10 dicembre 2025

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