Per una Chiesa profetica /1: lavoro e sinodalità

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Nel mese di novembre 2024 la sezione della montagna (Castelnovo ne’ Monti) della Scuola di formazione teologica della diocesi di Reggio Emilia ha organizzato, in collaborazione con le comunità della Zona pastorale della Madonna di Bismantova, tre incontri intorno al tema della profezia (su cui si impernia la Lettera pastorale del vescovo Giacomo Morandi). Presentiamo, in avvio, la relazione tenuta da p. Lorenzo Prezzi scj.

È urgente ricomporre una sorta di schizofrenia a cui una certa mentalità ecclesiastica ha costretto il cristianesimo comune dei battezzati e delle battezzate: quella che fa del lavoro e delle competenze professionali una sorta di campo alieno rispetto all’edificazione delle comunità cristiane. Il processo sinodale voluto da papa Francesco invita invece la Chiesa proprio ad attingere a queste risorse laicali per apprendere e dare nuova forma alle comunità cristiane.

Le attività mondane dei credenti non sono solo luogo di testimonianza della fede, quasi alternativa all’impegno comunitario, ma un patrimonio di competenze e conoscenze senza le quali la Chiesa rischia di ripetere l’esistente e, quindi, di fallire davanti alle tante sfide dell’epoca nuova in cui tutti ci troviamo.

La riflessione che vi propongo è in cinque punti: oltre gli “stati di vita”; oltre la teologia del laicato; oltre il lavoro come fatica fisica; oltre la teologia delle realtà terrene; il racconto di una esperienza. I riferimenti di questa introduzione sono: un articolo e un libro di Paolo Trianni (Per una Chiesa sinodale: il contributo della teologia degli stati di vita e il libro Stati di vita, Cittadella, Assisi 2021) e alcuni saggi apparsi nei tre volumi dedicati a Il Lavoro, (Morcelliana, Brescia 1983, 1985, 1987).

Oltre gli stati di vita

Quella degli “stati di vita” è una dizione canonica e clericale che designa la condizione di vita dei credenti e cioè: essere laici, essere preti, essere religiosi/e. I tre stati di vita si sono sedimentati nella storia e sono diventati un riferimento ancora oggi abituale, anche se hanno un po’ perso il rigore del passato. Stato di vita può essere definito: una condizione stabile e per sé permanente nella comunità ecclesiale (un prete è tale per sempre, così il religioso/a e il laico), caratterizzata e distinta da mezzi e impegni particolari in ordine alla perfezione spirituale.

Il prete è chiamato ad esercitare il triplice compito di santificare (sacramenti), di insegnare e di governare. Il religioso è chiamato alla radicalità dei voti di povertà, castità e obbedienza. Il laico è chiamato ad obbedire. È stato il concilio a rinnovare e a sottolineare anche per i laici la chiamata alla radicalità evangelica, alla responsabilità dell’annuncio e della vita della comunità e alla santità.

Non sempre è stato così. La Chiea primitiva non conosceva vere gerarchie piramidali anche se vi erano funzioni diverse. In particolare, ad esempio, nelle lettere pastorali la distinzione fra episcopi, presbiteri e diaconi. Vi era una uguaglianza di fondo, ma non un appiattimento privo di differenze specifiche. È stato con Ignazio di Antiochia, Ireneo di Lione e la Traditio apostolica di Ippolito che ha iniziato a prendere forma una separazione più netta, segnata dal gesto dell’imposizione delle mani. Con Cipriano e papa Gelasio e, soprattutto, con il decreto di Graziano, ai due poteri di riferimento (i vescovi e il re) si affiancano i due generi di cristiani: i chierici e i laici. Per arrivare qui ci è voluto quasi un millennio e la successiva cultura feudale ha infine stabilizzato la distinzione.

Dopo cinque secoli, la riforma di Lutero ha scombinato il tutto annullando il valore evangelico dei voti e contrapponendo il sacerdozio universale a quello ordinato. Ma anche un teologo cattolico come il gesuita Suarez riteneva che il sacerdozio fosse sostanzialmente un servizio e come tale non potesse essere “uno stato” stabile. È stato il Vaticano II a riscoprire il valore uguagliante del battesimo che è alla base di tutti i credenti, esaltando la categoria di popolo di Dio e l’universale chiamata alla santità. Senza tuttavia ignorare e rafforzare le identità proprie del laico, del consacrato e del presbitero. Ha fortemente valorizzato il sacerdozio comune dei fedeli senza togliere al sacerdozio gerarchico il suo servizio in favore della comunità e non cancellando la distinzione fra sacerdozio comune e sacerdozio ordinato.

Stati di vita e sinodalità sembrano tuttavia rispondere a logiche contrapposte. Gli stati di vita favoriscono la differenziazione se non la contrapposizione, mentre la sinodalità spinge alla partecipazione e all’uguaglianza. Se la teologia della sinodalità è chiamata ad argomentare cosa i laici sono legittimati a fare (o ad essere), la teologia degli stati di vita deve invece spiegare che cosa hanno in più un ordinato e un consacrato.

Le due teologia ed ecclesiologia non necessariamente si oppongono perché un appiattimento dei ruoli, delle responsabilità e delle funzioni non sarebbe lungimirante e non avrebbe fondamento biblico. Le richieste sinodali chiedono di ripensare talune rigidità separative o autoreferenziali rivendicando un maggior grado di partecipazione ai ruoli ecclesiali dei laici e delle laiche. In particolare c’è da capire in quale misura le differenze dipendano direttamente dal fondamento biblico o piuttosto da contingenze storico e culturali.

Sono quindi possibili due letture degli stati di vita: ecclesiologica e sacramentale da un lato e spirituale dall’altro.

Nel caso della lettura ecclesiologica e sacramentale se si enfatizza la triplice potestà  del prete (santificare, insegnare, governare) e la “diversità ontologica” del prete e del religioso si sacrifica il profilo del laico che, a questo punto, non ha alcuna vocazione propria. Con l’esito di invalidare il sacerdozio comune, la fondamentale identità nel battesimo e la chiamata universale alla santità. Con l’esito che non si capirebbe più perché un laico può essere proclamato santo.

Nel caso invece della lettura spirituale le forme ecclesiali e gli stati di vita tendono a relativizzare la loro diversità. Il fondamento della fede è infatti l’amore e il riferimento per tutti è la croce di Gesù. La lettura spirituale non soltanto stempera la gerarchia degli stati di vita ma si chiede se si possa ancora parlare di “stati di vita” dal punto di vista spirituale. Semmai possono essere aspetti diversi di una esperienza spirituale comune (Tullio Goffi). La Chiesa è sinodale perché ogni forma di vita cristiana può condurre alla pienezza dell’amore.

Oltre la teologia del laicato

La teologia del laicato è una corrente teologica alimentata soprattutto dal teologo domenicano francese Yves Congar che ha valorizzato il ruolo e il compito dei laici, spingendo a superare la loro condizione di minorità nella Chiesa e interpretando il fenomeno storico evidente e prezioso dei movimenti laicali nella Chiesa fra ‘800 e ‘900. Il laico nella Chiesa ha patito e patisce ancora varie discriminazioni.

È sostanzialmente inteso come un operaio ecclesiale chiamato a svolere dei compiti ma solo per delega. È considerato in fondo un minorenne spirituale. Ma non era così nelle comunità cristiane degli inizi che non conoscevano una contrapposizione preti-laici, ma tutti erano discepoli, santi e fratelli. Non è casuale che il termine laico non ci sia nel vocabolario biblico e sia raro anche nell’epoca patristica. La discriminazione verso i laici, considerati come la plebe governata e illetterata, comincia con l’arrivo nella Chiesa dei barbari, con l’usanza diventata comune di chiamare letterato il chierico, mentre il laico è illetterato. Si è trattato sostanzialmente di un adeguamento ai modelli della società civile. L’esito è stato il formarsi di una convinzione diffusa secondo cui l’azione dello Spirito Santo e della grazia operasse solo nei detentori della sacra potestà. Insomma il laico è rappresentato come colui che prende tutto e non dà nulla, portatore di una vocazione povera che si avvale di mezzi comuni e insufficienti per raggiungere la perfezione.

Quanto detto esaspera e semplifica una condizione che nei fatti è sempre stata più complessa, ma serve per indicare una posizione ecclesiale minore e di scarsa qualità. Il concilio, assumendo la teologia del laicato e sviluppando la comune partecipazione al sacerdozio di Cristo ha definitivamente lasciato alle spalle la posizione marginale del laicato. Anche perché quella teologia – benedetta e di grande valore – aveva il limite di relegare il laico ai suoi doveri laicali e secolari, al compito di genitore, di operaio di professionista ecc. senza arrivare a cogliere in pieno la sua dignità battesimale, sacerdotale e regale. Va detto che Congar sviluppò il superamento del trinomio chierici-religiosi-laici per il binomio molto più promettente di ministeri e comunità, intuendo la necessità si svincolare l’attività dei laici dalla loro destinazione al solo ambito secolare.

Giustamente Severino Dianich osserva che l’indole secolare non è esclusiva dei laici, ma appartiene a tutti i soggetti ecclesiali. Tutti chiamati a una qualche ministerialità e tutti connotati da un dono carismatico. Il dono spirituale del carisma e la chiamata alla ministerialità condivisa apre la specifica questione della donna nella Chiesa. La riserva maschile per l’ordinazione (oggi è particolarmente discussa quella diaconale) è sempre meno condivisa e comprensibile, almeno per la mentalità occidentale e per il vissuto reale delle nostre comunità. Alcune Chiese, come quella anglicana, hanno varcato il Rubicone dell’ordinazione femminile, altre come quelle protestanti e calviniste non hanno il problema perché non c’è ordinazione per i ministri del culto, altre come quelle ortodosse sono ancora lontana dal problema.

Non è qui il momento per affrontare direttamente il tema. Senza ordinazione è improprio che il cristiano/a comune possa avere la responsabilità del dono di santificare (sacramenti, ad eccezione del battesimo in condizioni di necessità), tuttavia una ecclesiologia sinodale non potrà che incentivare la partecipazione ai ministeri ordinati e favore l’assunzione piena di quelli non ordinati e di quelli di fatto. C’è una seconda questione che si apre ed è quella dei celibi, dei single. Mentre infatti  vi è un consolidato percorso spirituale per i preti, i religiosi/e e per il matrimonio, non vi è alcuna indicazione spirituale per i celibi che sono tali o per scelta o per necessità. Se li ascoltassimo potremmo trovare in loro risentimenti dolorosi, bisogno di speranza, ricerca di fecondità. E incrociare attese importanti come l’esigenza di parlare positivamente del corpo, di sviluppare il sentimento dell’attesa e una ricerca di fecondità.

È difficile usare per loro il termine “vocazione” perché spesso non è una chiamata ma un dato di fatto. E tuttavia, come dice il documento finale del sinodo del 2018 dedicato ai giovani: «La Chiesa riconosce che tale condizione, assunta in una logica di fede e di dono, può divenire una delle molte strade attraverso cui si attua la grazia del battesimo e si cammina verso quella santità a cui tutti siamo chiamati» (n. 90)

Oltre il lavoro servile

Anche nell’arco di una sola generazione, dagli anni ‘50 del ‘900 ad oggi, si percepisce il radicale mutamento del lavoro: dalla fatica fisica dei contadini e di quella degli operai si è passati a una produzione in cui la forza dei muscoli ha un ruolo del tutto secondario. Non che i lavori che implicano forza fisica e corpi adatti siano scomparsi, tutt’altro. Basta pensare alle nostre stalle, ai lavori stradali e di muratura, ad alcuni lavori d’officina. Ma nell’insieme la necessità del vigore fisico ha lasciato lo spazio alla specializzazione, al lavoro delle macchine, alla capacità di collaborazione, all’originalità personale ecc.

Le nuove generazioni sanno che non avranno un solo lavoro durante la loro vita. In generale si cerca un lavoro che permetta la realizzazione personale, che lasci tempi liberi oltre alla sua redditività. C’è oggi chi teorizza la fine del lavoro con la combinazione della tecnica, della rivoluzione numerica e dell’intelligenza artificiale. Quello che si percepisce è il rifiuto del lavoro come valore che voglia essere pervasivo (a parte le eccezioni), che sia solo peso-fatica-responsabilità, che non permetta di esprimere la propria soggettività. Si sono sfrangiati e sovrapposti i tre classici momenti di vita (preparazione, lavoro, pensione) perché istruzione, lavoro, pensione si mescolano e si alternano.

Sempre meno il proprio lavoro ci identifica in termini fissi e condivisi. Sempre meno il lavoro è inteso come fattore centrale della civiltà, come categoria di interpretazione della realtà sociale. Il giustificato apparire di un “reddito di cittadinanza” è molto espressivo di questa situazione.

Oltre la teologia delle realtà terrene

Nella tradizione cristiana pre-moderna il lavoro serviva sostanzialmente a procurarsi il cibo, a impedire l’ozio, a frenare la concupiscenza e a fare elemosina. A parte l’accelerazione prodotta dalla Riforma di Lutero che ha ripreso la forma ascetica e severa del lavoro, ma investendo in esso una dignità etica e un valore, la stessa dottrina sociale della Chiesa si appoggia, all’inizio, a quella concezione: un lavoro sostanzialmente manuale, fondamentalmente fisso e senza storia.

Solo successivamente viene considerato il fatto che tramite il lavoro, e il lavoro collettivo in particolare, si possa produrre un mutamento complessivo dell’ambiente e, in qualche modo, della stessa vita spirituale, della coscienza e dei costumi. Eravamo e per alcuni aspetti siamo ancora prigionieri di una concezione del lavoro ad un tempo spiritualista e individualista. Spiritualista perché ci astraiamo dal fare concreto per un valore spirituale del lavoro che non ha alcun rapporto diretto con il fare. Individualista perché fissiamo lo sguardo solo sul lavoro che ci interessa e non avvertiamo i mutamenti che l’insieme dell’attività umana produce sia nell’ambiente, sia nei mutamenti di civiltà che ci attraversano.

Nella storia generale del pensiero europeo il superamento della duplice prospettiva, individualistica e spiritualistica si è prodotto ad opera della cultura non teologica. È soprattutto grazie alle scienze della natura che la nuova connessione fra conoscere e fare si impone rispetto alla cultura antica che contrappone il lavoro servile all’arte liberale, l’opera manuale all’opera intellettuale (G. Angelini). Siamo debitori in particolare all’opera teologica di Marie Dominique Chenu. Egli denuncia e depreca la prospettiva moralistica che predomina nell’approccio tradizionale della fede cristiana sul tema del lavoro.

«Finora gli studiosi cristiani non prendevano in considerazione questa realtà umana che come materia amorfa, atta come tutte le altre, a diventare materia di moralizzazione e di santificazione, come fosse un dovere di stato», quale espressione della volontà di Dio. Un composto che si scioglie solo con la rivoluzione industriale che ha indotto a capire le leggi, gli scopi e il ruolo storico del lavoro individuale e collettivo. Il limite di Chenu è di dare troppo credito all’umanesimo prodotto dalla civiltà industriale e dai movimenti collettivi da esso prodotti investendo sul movimento operaio una capacità di cambiamento che i decenni successivi hanno smentito.

Rimangono importanti i tre modelli fondamentali che il teologo ha suggerito per spiegare teologicamente e spiritualmente il lavoro. Il primo modello è quello dell’uomo collaboratore della creazione e demiurgo della propria evoluzione nello scoprire, sfruttare e spiritualizzare la natura. Il secondo modello è quello dell’incarnazione a motivo dell’assunzione della natura umana da parte del Figlio di Dio. Tutto ciò che è umano è materia di grazia. Il terzo modello è quello escatologico dei nuovi cieli e nuova terra. La prospettiva finale del cristianesimo porta a termine e non annulla la prospettiva terrena. Come dice il concilio, «benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del regno di Dio, tuttavia, nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, tale progresso è di grande importanza per il Regno di Dio» (GS 39).

Un approccio più meditato e consapevole al tema del lavoro entro un progetto di civiltà è quello di Romano Guardini che privilegia i fatti di civiltà rispetto al tema immediato del lavoro e della dottrina sociale. La concezione generale del mondo (Weltanschauung) del cattolicesimo e della fede cristiana percepisce che l’introduzione delle macchine e della tecnica stacca gli uomini dall’immediata percezione del valore e del senso delle cose e li porta a valorizzare solo il potere di modificare e plasmare a loro giudizio le cose che manipolano. Il potere della conoscenza si soprappone alla sapienza della coscienza.

Il nuovo rapporto manipolante dell’uomo sul mondo non amplia la sua libertà, ma ne enfatizza il condizionamento. Per questo la Chiesa deve essere molto vigilante nei confronti delle chiacchiere generiche sul progresso e la penetrazione dei misteri della natura. Essa è invitata a prendere posizione nei confronti del caos che la pura autoalimentazione della tecnica produce, del caos che sale dall’opera stessa dell’uomo e delle minacce dei prodotti da lui costruiti (compresa l’intelligenza artificale). Una Chiesa capace di denunciare la slealtà della cultura contemporanea che utilizza valori di origine cristiana piegandoli a una quadro di civiltà che non è coerente con essi. Il modello scientifico del rapporto uomo – natura non è in grado di accedere al significato e al valore delle realtà create (Laudato si’).

La sinodalità oltre il clericalismo

Non sarà possibile alla Chiesa testimoniare il vangelo nel post-umanesimo incipiente senza la convocazione sinodale di tutte le competenze laicali. Né la teologia, né la pur centrale testimonianza della carità, né la generosità dei singoli pastori, potrà pretendere di affrontare le sfide del prossimo futuro. Vi sono nelle nostre assemblee e nelle immediate vicinanze competenze laicali e professionali di altissimo livello. Se ciascuno dei fedeli e dei credenti anonimi che guardano con interesse al Vangelo potessero prendere parola si potrebbe sperare per un indirizzo ecclesiale più evangelico e più autorevole rispetto alle attuali sfide di civiltà.

In merito posso raccontare una piccola esperienza compiuta nella diocesi modenese. In occasione Castellucci, ho convocato una decina di professionisti (dai medici agli imprenditori, dai giuristi agli amministratori) per aiutare la diocesi a capire quello che stava succedendo e a intuire come collocarsi davanti a uno scenario tanto imprevisto quanto apocalittico. La mia sorpresa non è stata soltanto nell’immediata accettazione dell’invito quanto nella passione delle testimonianze di chi negli ospedali affrontava a “mani nude” la pandemica, come di chi chiedeva cosa fare davanti alle responsabilità sociali delle aziende e di chi percepiva le sfide non previste per l’amministrazione pubblica. Credenti e non credenti, frequentanti e non frequentanti, ruoli apicali comer quelli gestionali attendevano con grande interesse un indirizzo spirituale e valoriale che riconoscevano alla Chiesa e al Vangelo.

L’esperienza si è interrotta dopo tre incontri per difficoltà pratiche e per i miei timori rispetto al livello della sfida. Ma rimane un riferimento per capire che le convocazioni più efficaci hanno bisogno di avere alle spalle quel cammino sinodale a cui la nostra Chiesa ci sta chiamando.

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