Sul diaconato alle donne

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donne e teologia

Basta scorrere i titoli su Google per vedere come il documento pubblicato il 4 dicembre “Sintesi della Commissione di Studio sul Diaconato Femminile” abbia suscitato una certa eco mediatica che va al di là degli intenti del documento. Questo, che è la sintesi del lavoro di una commissione di studio (fatta di 10 membri, da quel che si desume dal conteggio dei voti), e che si presenta come un testo incompleto e di sua natura provvisorio, risulta dai titoli ad effetto di certe testate il “No secco” del Vaticano sulla questione.

La questione, infatti, va inevitabilmente al di là del livello accademico e legislativo e tocca (fortunatamente) le viscere del sentire diffuso.

Col rischio, però, che nel sentire diffuso venga trattato senza molta attenzione argomentativa, spesso con la logica semplificata di argomenti sentiti, poco riflettuti, ma fatti propri per supportare acriticamente la propria posizione.

Su alcuni di questi vorrei fare alcune considerazioni.

“Il ministero ordinato non può diventare una questione di rivendicazione femminile”

È un argomento che si sente spesso da chi vuole chiudere in fretta la questione perché tutto resti nello status quo. Un argomento che pretende di sottrarre la terra sotto ai piedi a chi il ministero ritiene vada aperto anche alle donne. Un argomento che ritiene di spostare la questione su un piano “più nobile” rispetto a quello “meramente sociologico” di chi rincorre le mode del tempo.

A ciò si potrebbe obiettare per directum che le questioni sottese alle rivendicazioni femminili del secolo ventesimo il magistero le ha fatte sue nel 1963, quando nella Pacem in terris (§ 22) Giovanni XXIII annoverava “l’ingresso della donna nella vita pubblica” e la presa di coscienza della sua dignità come “segno dei tempi”, ossia come una parola che il Signore dice alla sua chiesa a partire dai fenomeni della storia.

Basterebbe questo a mostrare come le questioni di “rivendicazione femminile” siano questioni eminentemente teologiche, intrinseche alla vita della chiesa. Detto questo, credo però che si debba dare spazio all’argomento addotto: “il ministero ordinato non è una questione di rivendicazione femminile”.

Perché infatti, prima e più di questo, nell’apertura alle donne del ministero ordinato è in questione il bene della chiesa. Non si vuole aprire il ministero alle donne solo (se “solo” si può dire) per dare un riconoscimento alle donne. Ma lo si vuole fare per non privare la vita della chiesa di ciò che molte donne ad essa possono dare nella forma del ministero ordinato.

Stando sul diaconato, basterebbe pensare alla facoltà della predicazione nella liturgia. Quali tesori di vita spirituale dischiuderebbe alle assemblee celebranti il fatto che anche donne competenti in materia potessero spezzare l’alimento della Scrittura per la vita degli altri credenti? Quindi no, non vogliamo combattere sul terreno della rivendicazione, ma su quello del bene di tutta la chiesa.

“Sempre, ovunque, mai”

Di fronte alla possibilità anche solo di pensare al ministero ordinato esercitato da una donna, alcuni sogliono barricarsi dietro a degli avverbi di valore apodittico con i quali lo status quo attuale viene trasformato nella condizione sempiterna della vita della chiesa che avrebbe pertanto un valore normativo. “Non si è mai sentito che…”; “Non è mai successo…”; “Ovunque e sempre si è fatto così …”.

Su questo basterebbe leggere le prime righe del documento in questione (e non solo i titoli dei giornali on-line) che enuncia un principio metodologico molto chiaro: “Sappiamo, tuttavia, che la prospettiva puramente storica non consente di giungere ad alcuna certezza definitiva. In ultima analisi, la questione deve essere decisa sul piano dottrinale”. Si tratta del principio per cui, nella vita della chiesa, il “si è sempre fatto così” non è per forza un dato normativo.

La chiesa è viva, sa bene di aver ricevuto dal suo Signore il potere delle chiavi, e sa di essere chiamata a trasmettere il Vangelo nella storia, non ad evitare che la storia osi affacciarsi sul Vangelo. Ci sono questioni in cui la chiesa può decidere per se stessa qualcosa di nuovo, di inedito, se ritiene che questo la radichi più profondamente nella fedeltà al suo Signore. Il fatto è che, pur in questa coscienza, sulla questione del ministero ordinato, per i gradi dell’episcopato e del presbiterato, il magistero recente ha scelto di vincolare se stesso al “si è sempre fatto così” (cf. A. Grillo, ed., Senza impedimenti: le donne e il ministero ordinato, Brescia 2024).

Tra i vari motivi per cui non si ammettono le donne al presbiterato e all’episcopato, l’unico che pare avere qualche forza è quello per cui “non ci risulta sia mai successo” e su questo ci si è arroccati. Di fronte a tale argomento il magistero ha ritenuto addirittura che il potere delle chiavi non abbia alcun valore. La discussione sul diaconato inevitabilmente risente di tale impostazione che, sebbene ad esso non si applichi, su di esso ricade quasi in automatico.

A chi allora con tanta sicumera estende tale argomento anche al diaconato, credo sia utile non soltanto mostrare che il magistero evita di compiere tale operazione, ma anche cercare di relativizzare un poco l’apoditticità conclusiva degli avverbi “sempre, mai, ovunque”.

Si potrebbe per esempio indicare che san Paolo, colui che a tanta misoginia cristiana ha dato origine con certi suoi passaggi (cf 1 Cor 11,3-16; 14,34-35), lui stesso indica una donna, Febe, con il titolo maschile “diacono” (cf Rom 16,1, ovviamente ben nascosto dalla traduzione CEI!). Basterebbe questo a suggerire che l’idea per cui “non ci sono mai state donne diacono” sia un semplice falso ideologico.

Allora possiamo metterci a disquisire più finemente sul fatto che queste donne non sarebbero diaconi come lo erano gli uomini. Questi sarebbero stati “ordinati”, loro invece semplicemente “istituite”. Anche questo argomento cade mostrando testi di indiscusso valore che lo possono confutare: cf. il canone 15 del Concilio di Calcedonia (451). Si può scegliere di non dare peso a questi testi, come (forse un poco arbitrariamente?) fa il documento della commissione, ma certo non li si può negare sul piano della storia.

Basta questo a spezzare ogni “mai” e ogni “sempre”. Si può anche andare oltre e sul tema dell’ordinazione – ciò però richiede che l’interlocutore sia disponibile a spendere un po’ di tempo a leggere – si potrebbe anche mostrare come l’idea stessa di “ordinazione” sia qualcosa che ha conosciuto significativi mutamenti nella storia della chiesa (cf. G. Macy, The Hidden History of Women’s Ordination, Oxford 2008) e che nemmeno essa resiste adamantina in un “sempre” metafisico!

Basterebbe dunque riuscire ad incrinare solo un poco la potenza ideologica di quegli avverbi dietro ai quali siamo soliti trincerarci per avere, nella questione, reali interlocutori e non muri di gomma.

Tuziorismo o incoscienza

Infine, un argomento che si sente accampare è quello temporale: “la questione non è matura, meglio rimandarla a tempi futuri”. Un argomento che pare dettato dalla saggezza, dalla prudenza che connota la vita della chiesa. Siccome non tutti gli aspetti della questione sono ben chiari, siccome non abbiamo la certezza di tutte le possibili conseguenze, siccome anche il diaconato maschile ha ancora bisogno di tempo… allora rimandiamo, procastiniamo. (Un modo di ragionare molto affine a quello dei giovani del nostro tempo di fronte alle scelte impegnative della vita… contro il quale un bravo parroco spesso si scaglia con affetto esortando a fidarsi del Signore e a non voler aver tutto chiaro prima di fare passi nella vita… esortazione che però non ci viene spontaneo trasferire alla vita della chiesa!).

Un argomento, soprattutto, che implicitamente vive della certezza che “ora va tutto bene” e di fronte alla quale sembra imprudente fare scelte che potrebbero compromettere il buon equilibrio dello status quo. Ma siamo proprio così sicuri che la vita della chiesa, almeno nel nostro antico occidente, sia così in buona salute?

Uno degli aspetti più significativi della nostra situazione ecclesiale contemporanea non sta tanto nel fatto che “molti se ne vanno”, ma nel fatto che “pochi trovano motivi per restare”. Sono molti e complessi gli aspetti per cui uno non trova motivi per restare, certo.

Ma non credo che l’accesso delle donne al ministero sia tra gli ultimi. E qui sì che entrano a pieno diritto le suddette questioni della cosiddetta “rivendicazione femminile”: un’istituzione in cui la potestà (non valgono quelle mistificazioni per cui il “ministero è servizio, non potere”: no! il ministero è per definizione anche esercizio di potere, munus regendi!), in cui la potestà – dicevamo – è esercitata nelle forme di un mondo che (fortunatamente) non c’è più, può proporsi ancora come “casa vivibile” per uomini e donne del nostro tempo?

La prudenza e la saggezza stanno dunque nello stare fermi, arroccati in un deserto sempre più disabitato, o nel fare scelte – prendere decisioni in virtù del potere delle chiavi che si è ricevuto da Cristo – che ci facciano camminare al passo delle vite del nostro tempo?

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