Sicurezza: il governo muscolare

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Il 16 novembre 2023, il Consiglio dei ministri ha approvato tre disegni di legge su «sicurezza, difesa e soccorso pubblico» che hanno confermato l’indirizzo, per così dire muscolare, di un Governo pronto a colpire le fasce deboli, prima ancora di intervenire sui problemi sociali. La cosa, purtroppo, non sorprende, se non per il corto circuito ingenerato rispetto al programma, ben diverso, che aveva propugnato il Ministro della Giustizia.

Altrettanto deve allarmare fortemente, laddove ogni singola iniziativa sembra voler approdare all’azzeramento anche delle più recenti, se pur modeste, conquiste di promozione dell’equità sociale. Preoccupa inoltre che si assecondi l’apparire più che l’essere, inseguendo pronte risposte contingenti – magari gradite a un elettorato piuttosto distratto – ma lontane dalla paziente costruzione di un’effettiva comunità.

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Un importante salto di qualità, ad esempio, è stato proposto, molto di recente, dalla riforma Cartabia sulla giustizia riparativa, proiettata a ricucire la ferita sociale e non solo personale, che viene procurata dai delitti. Eppure, nonostante il D.Lgs. 10 ottobre 2022 N. 150 sia in vigore e applicabile, se ne vede negata l’operatività per la pigra, se non riottosa, inadempienza dello Stato.

I Centri operativi di riferimento, ad oggi, esistono solo in tre Regioni (Emilia-Romagna, Lombardia e Puglia). Così quel papà carabiniere, drammaticamente a processo per la morte della figlioletta di un anno scordata in auto tra la caserma di servizio e l’asilo nido di Roma, si è sentito rispondere – immagino con rincrescimento dei giudici – che la sua domanda, condivisa dalla moglie e col parere favorevole del P.M., non poteva essere ammessa per mancanza del Centro di mediazione.

In compenso, il Ministero si era affrettato, nel frattempo, a emettere una circolare per chiarire che, «allo stato, non possono essere intraprese… iniziative a cura dell’Amministrazione», suggerendo di far ricorso a «esperienze di altra natura, fondate su prassi o discipline di settore previgenti», con buona pace della mancanza di effetti processuali dell’esito favorevole conseguibile col percorso di giustizia riparativa.

Insomma: c’è tempo, intanto lo Stato resta lupo con gli agnelli.

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Così per l’emergenza carcere – tanto scandalosa da rischiare di perdersi nell’indifferenza generale – su cui è stata messa a regime una circolare dalla singolare intitolazione – «Direttiva per il rilancio del regime penitenziario e del trattamento penitenziario» – che, in nome della «media sicurezza», realizza l’operazione di chiusura delle celle, denominate «camere di pernottamento»!

In parole povere, si passa dalla situazione attuale di celle aperte nelle ore diurne, che consente e ha positivamente consentito la possibilità di movimento all’interno delle sezioni (dovuta, tra l’altro, alle indicazioni di una risalente sentenza C.E.D.U. del 2013) a quella di celle chiuse, da riaprire solo per le «ore d’aria» (quattro). Dunque, si torna indietro, secondo una prospettiva di peggioramento dell’offerta trattamentale giustificata da ordine e sicurezza.

Peraltro, proprio nelle disposizioni di «sicurezza», si prevedono durissime sanzioni per i nuovi reati di «istigazione a disobbedire alle leggi» e «rivolta in istituto penitenziario», per le cui condanne non si potrebbe accedere ad alcun beneficio penitenziario – i cosiddetti reati ostativi – così seguendo l’intenzione, più volte espressa, di dare esecuzione all’espiazione integrale della pena, ovvero il buttar via la chiave.

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Ancora una volta si fa ricorso all’inasprimento del trattamento sanzionatorio, convinti, non si sa perché, dell’efficacia intimidatoria della pena, con misure straordinariamente punitive. E si mettono pure in campo misure univocamente a favore delle sole forze di polizia, quale il porto d’arma fuori servizio – con massima libertà di accesso alle armi private –, ovvero la facoltà di stabilire convenzioni con esercenti privati di servizi di pubblica utilità, così trasferendo i controlli dalla magistratura ai servizi di intelligence privati.

Arrivare a punire anche la condotta di resistenza passiva del detenuto induce, quindi, a chiedersi come potrà mai essere attuata la tutela dei suoi diritti e la garanzia di standard minimi di vivibilità nelle carceri.

Ma l’apoteosi della tragedia viene raggiunta dalla previsione che i bambini possano tornare in carcere a espiare la detenzione della madre: c’è da rimanere a bocca aperta per questo ritorno al passato. E quale passato poi, se la norma relativa alla sospensione dell’esecuzione della pena della donna incinta o della mamma di un bimbo di età inferiore a un anno risale al 1930, ossia al codice penale fascista! Prevedere ora il rinvio dell’esecuzione non più obbligatoriamente ma come facoltà, equivale a prevedere che è possibile portare e far restare in carcere un bambino sin da quando ha meno di un anno e fino a sei anni di vita in caso di custodia cautelare.

Oso qui, provocatoriamente, definire un “bene” questa gravissima espressione di inciviltà, perché, auspicabilmente, non potrà superare indenne il dibattito parlamentare e così portare a consapevole chiarimento, oltre ogni ragionevole dubbio, la filosofia del Governo: non si può spostare il centro del bene giuridico – che si intende proteggere – dalla persona umana ad altri valori minori, in particolare patrimoniali e di sicurezza. Si intendono ignorare i valori universali consacrati nelle Costituzioni degli Stati democratici e nelle Convenzioni internazionali via via condivise dagli stessi?

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I politici della maggioranza hanno affermato pure di voler riformare il testo del «delitto di tortura», faticosamente introdotto nel nostro codice penale solo dall’anno 2017, nonostante l’Italia si fosse vincolata a farlo già una trentina di anni prima, in adempimento di una convenzione stipulata a livello internazionale. Il testo attuale dell’art. 613 bis del codice penale, nel Titolo XII dei «Delitti contro la persona» (!), costituirebbe un rischio eccessivo per l’operato delle Forze dell’ordine, ossia quello di usare violenze o minacce o agire con crudeltà per causare «acute sofferenze fisiche» a persone private della libertà o affidate necessariamente alla custodia e al controllo dello Stato.

Oggi, per sopperire alle inefficienze della prevenzione, si è scelto di rinforzare lo Stato di polizia, di ricorrere al solo strumento della repressione penale, di inciampare sui più deboli tra i cittadini, di alimentare il modello della società dell’odio.

Latita, peraltro – e clamorosamente – la preannunciata riforma della giustizia, che, secondo il modello liberale del Ministro Nordio, non solo si vorrebbe più efficiente, ma pure meno punitiva, come dire meno ingiusta!

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Insomma: i deboli e i poveri chi li difende?

Noi cristiani stiamo nell’Avvento, portandoci dentro le parole dell’evangelista Matteo, risuonate nell’ultima domenica del tempo ordinario, quelle parole che preparano all’incontro col Cristo, nell’atto della definitiva separazione dal male. Lui ci ha detto e ci ripete: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me», Lui che aveva indicato «beati tra i poveri»: affamati e assetati, piangenti, perseguitati. Ora, ancora, ci parla, appunto, del soccorso ai diseredati della terra, dei maltrattati, spogliati, assetati, malati, carcerati…

A ben vedere, tutto questo è già suggerito dal semplice senso di umanità che il Signore ci ha messo dentro, quello di portare a considerare il valore più alto della vita e a farsene carico: è il primo normale passo, con cui gli umani mostrano di essere veramente umani, e perciò anche veramente cristiani.

Chi usa, convintamente, lo slogan Dio, patria, famiglia dovrebbe pensarci bene prima di mostrare il volto bieco del potere, senza interfacciarsi con tutti i suoi cittadini. No, così non va!

  • L’avvocato Sergio Genovesi è stato segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Mantova e Presidente dei Penalisti del distretto della Corte d’Appello di Brescia.
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Un commento

  1. Christian 30 novembre 2023

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