L’arte come luce. Addio a Papa Francesco

di:

bellini

C’è un tipo di bellezza che non si misura in centimetri di cornice, in prestigio di gallerie o nei capolavori battuti alle aste internazionali. È una bellezza che commuove in silenzio, che si offre senza chiedere nulla in cambio, che non distingue tra chi può permettersela e chi no. È questa la bellezza che Papa Francesco ha cercato per oltre dieci anni di pontificato: un’estetica dell’anima, inclusiva, disturbante, profetica. Ma anche sorprendentemente concreta. Non da salotto, ma da strada. Non per pochi, ma per tutti. Quella bellezza che, come la fede, non anestetizza, ma sveglia le coscienze. Che non ha bisogno, talvolta, di cornici d’oro per essere potente.

Ed è proprio dalla sua Buenos Aires, dove le chiese sembrano capannoni e dove anche Dio sembra adattarsi al poco, che forse nasce l’intuizione che la bellezza non sia questione di lusso, ma di accesso e di occhi capaci di vederla anche dove non luccica. Quando nel 1986, durante un soggiorno in Germania, incontrò per la prima volta l’immagine di Maria che scioglie i nodi, si innamorò di quell’icona popolare e imperfetta. Non era un capolavoro accademico, ma qualcosa che parlava al cuore. E da lì iniziò a diffonderla in Argentina e nel mondo.

Artisti come profeti

Francesco non era un intellettuale d’arte, e non pretendeva neanche di esserlo. Ma ha sempre saputo riconoscere il potere dell’arte come linguaggio universale, capace di sfidare i miti contemporanei e farsi voce anche di chi quella voce non c’è l’ha.

«Gli artisti sono un po’ profeti», ha detto, «sentinelle che scrutano l’orizzonte e la profondità delle cose». E proprio perché disturbano l’ordine apparente, diventano alleati nella lotta contro l’indifferenza, il consumismo, la superficialità.

Uno dei legami più forti, in questi anni, lo aveva stretto con Alejandro Marmo, artista argentino che lavora con i materiali di scarto e con le persone ai margini. Le sue sculture, fatte con ferri recuperati, sono finite perfino nei Giardini Vaticani. Ma ciò che più contava per Francesco non era tanto la forma dell’opera, quanto il gesto umano e comunitario che aveva generata.

Offrire una speranza

Nel 2023, in occasione del 50° anniversario della Collezione d’Arte Moderna e Contemporanea dei Musei Vaticani, il Papa aveva accolto duecento artisti da tutto il mondo. Ed è stato forse lì che ha espresso il suo pensiero più limpido sull’arte che – come la fede – «non può lasciare le cose come stanno», ma deve (e in parte lo fa già) trasformarle, convertirle. Perché l’arte – ha detto – «non deve mai diventare un anestetico. Anzi, ha il compito di scendere anche negli abissi dell’umano, nelle zone d’ombra, nei deserti della solitudine. Ma sempre per accendere una luce, offrire una speranza».

Così, anche quando ha aperto le porte dei Musei Vaticani a un gruppo di senzatetto, permettendo loro di ammirare la Cappella Sistina in totale tranquillità, Francesco non ha compiuto solo un gesto simbolico, ma ha affermato una radicale verità: la bellezza è per tutti, non per chi può pagare il biglietto, perché l’arte non può essere un salotto esclusivo, un codice per pochi.

E un papa così, venuto «quasi dalla fine del mondo», ha portato nel cuore della Chiesa un’altra idea di arte: non come ornamento, ma come linguaggio per resistere, credere, amare. Un’arte che non tranquillizza, ma consola. Che non celebra il potere, ma accarezza le ferite. E anche se qualcuno la trova ingenua, troppo popolare o poco raffinata, rimane – proprio per questo – una delle eredità più vive del suo pontificato.

francesco

  • Pubblicato sulla rivista Artslife, 21 aprile 2025
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6 Commenti

  1. Angela 23 aprile 2025
    • Pietro 24 aprile 2025
      • Angela 25 aprile 2025
        • Pietro 26 aprile 2025
          • Angela 26 aprile 2025
  2. Angela 23 aprile 2025

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