Il pontificato interrotto

di:

benedetto xvi

Vogliamo ricordare la figura del papa emerito Benedetto XVI, spentosi oggi all’età di 95 anni, con un profilo teologico di Giuseppe Lorizio che prende le mosse dal gesto clamoroso e inedito con cui scelse di porre fine al suo pontificato, annunciato l’11 febbraio 2013 (G. Lorizio, «Il pontificato interrotto. Spunti per un bilancio teologico», in Studium, 109[2013]3, 407-420).

Il novantenne prete sollevò il capo dalle pagine dell’Osservatore Romano del 12 febbraio ed esclamò: «C’è più sapienza in queste poche righe che in tutti i libri e le encicliche che ha scritto!». Il senso di sgomento che l’annuncio del giorno prima aveva suscitato nella mente e nell’anima di molti credenti, fra cui i preti della comunità, sembrò quasi dis­solversi e lo stupore lasciò lo spazio alla riflessione e al dialogo.

Ma co­s’avevano di così sapienziale quelle poche righe da aprire nuovi oriz­zonti di pensiero e di valutazione di un gesto fino al giorno prima inau­dito?

In primo luogo il riferimento alla «coscienza», la cui voce neppure un Papa può mettere a tacere. E questa voce lo ha messo di fronte all’evidenza dell’ingravescente aetate (espressione quasi onomatopeica), ormai ritenuta inadeguata rispetto ai profondi e rapidi mutamenti del nostro tempo e alle rilevanti problematiche ecclesiali da affrontare con il necessario vigore del corpo e dell’animo.

Un momento kairologico, come pochi, forse paragonabile a quello dell’annuncio dell’ultimo Concilio, quello dell’11 febbraio e che proietta una luce diversa sul pontificato e sul pensiero del Papa teologo, chiedendoci di leggerlo a ritroso e con l’imprescindibile riferimento alle intenzioni che hanno vissuto in quel gesto la loro epifania.

Ci sarà bisogno di molto tempo perché la teologia possa elaborare adeguatamente il senso della scelta di Papa Benedetto, qui vorrei semplicemente offrire qualche spunto per un bilancio del pontificato dal punto di vista della mia disci­plina, ossia la teologia fondamentale, il che la dice lunga sui limiti intrin­seci di queste pagine, nelle quali lascerò spesso la parola a Joseph Ratzinger, onde evitare il dubbio che l’individuazione di aperture e prospet­tive nuove e feconde per la teologia possa essere soltanto il frutto di una mia interpretazione.

Allargare gli spazi della razionalità

Il gesto dell’11 febbraio può essere situato e pensato all’interno di que­sto messaggio, che il Pontefice ha lanciato – e non certo in forma sloganistica – per esempio nel discorso al Convegno della Chiesa italiana, celebratosi a Verona nel 2006.

Sono portato a ritenere che una scelta così decisiva e dirompente non sia soltanto deterministicamente prodotta dalle valutazioni proprie del pensiero calcolante, che pure l’avrebbe reclamata, e forse in maniera ancor più esigente, negli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II. Qui la ragione si coniuga con l’amore affettuoso verso la Chiesa e soprattutto si apre ad una libertà, che distingue, proprio per le loro scelte, i diversi personaggi, ognuno dei quali ha amato e ama la Chiesa a suo modo, nella comune consapevolezza che a guidarla è il Signore e il suo Spirito non la persona cui è affidato di volta in volta il ministero. Tale prospettiva credente si può infatti manifestare nella forza dello Spirito che supera la malattia e la debolezza fisica di un Papa, oppure nella capacità di lasciare spazio a forze più giovani e vigorose dell’altro.

Ciò che mi ha sorpreso e portato a riflettere è che Papa Benedetto non ha riservato questo appello soltanto agli ambienti accademici, ma il fatto che lo abbia richiamato in un’assise di carattere eminentemente pastorale, quale il Convegno ecclesiale veronese, credo venga ad orientarci verso una prospettiva di allargamento non solo sul piano intellettuale della stessa prassi della Chiesa. Come ha mostrato, a mio avviso, l’elezione di un Pontefice non europeo, la crisi di fede è infatti innanzitutto una crisi culturale, la cui drammaticità si mostra soprattutto nel cosiddetto vecchio continente, di cui il Papa tedesco è stato espressione. L’ingravescente aetate allora non è solo della persona, ma di una cultura, mentalità, forma mentis propriamente europee ed occidentali. È il declino dell’Occidente che trova qui un’ulteriore conferma, tanto da apparire ineluttabile e, al tempo stesso, irreversibile.

Ma a questo proposito incrociamo una problematica decisiva, pro­prio in ambito teologico-fondamentale, cara a Papa Benedetto, che a sua volta richiede un adeguato discernimento ed approfondimento: mi riferisco alla tematica del logos, tante volte ricorrente nei discorsi e nei documenti prodotti dal suo pontificato.

Un mese prima dell’incontro veronese il Pontefice era stato in Germania e lì aveva pronunciato il fa­moso discorso di Ratisbona, che tanta eco mediatica ha avuto soprat­tutto per i riferimenti all’Islam. Qui rinveniamo un passaggio decisivo in ordine a quanto appena rilevato circa il tramonto della nostra cultura occidentale:

«L’Occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’am­piezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il pro­gramma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede bi­blica entra nella disputa del tempo presente».

In questo orizzonte si situano alcune espressioni forti e per certi aspetti dirompenti concernenti l’indissolubile legame fra il meglio del logos greco e la fede cristiana e, conseguentemente, il rifiuto di ogni ten­tativo di deellenizzazione del cristianesimo e il ricorso alla figura dell’«autentico illuminismo»:

«Nel profondo, vi si tratta dell’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall’intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire “con il logos” è contrario alla natura di Dio».

E al tema dell’incontro con l’illuminismo e al tempo stesso di una sorta di sua connaturalità con la fede, Ratzinger aveva dedicato un im­portante discorso qualche giorno prima di essere eletto pontefice a Subiaco. Qui, dopo aver sottoposto a disanima critica l’età dei Lumi, ha aggiunto:

«Questo è un semplice rifiuto dell’illuminismo e della modernità? Assolutamente no. Il cristianesimo, fin dal principio, ha compreso se stesso come la religione del logos, come la religione secondo ragione. Non ha individuato i suoi precursori in primo luogo nelle altre religioni, ma in quell’illuminismo filosofico che ha sgombrato la strada dalle tradizioni per volgersi alla ricerca della verità e verso il bene, verso l’unico Dio che sta al di sopra di tutti gli dèi. In quanto religione dei perseguitati, in quanto religione universale, al di là dei diversi Stati e popoli, ha negato allo Stato il diritto di considerare la religione come una parte dell’ordinamento statale, postulando così la libertà della fede. Ha sempre definito gli uomini, tutti gli uomini senza distinzione, creature di Dio e immagine di Dio, proclamandone in termini di prin­cipio, seppure nei limiti imprescindibili degli ordinamenti sociali, la stessa dignità. In questo senso l’illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana. Laddove il cristianesimo, contro la sua natura, era purtroppo diventato tradizione e religione di Stato. Nonostante la filosofia, in quanto ricerca di razionalità – anche della nostra fede – sia sempre stata appannaggio del cristianesimo, la voce della ragione era stata troppo ad­domesticata. È stato ed è merito dell’illuminismo aver riproposto que­sti valori originali del cristianesimo e aver ridato alla ragione la sua pro­pria voce. Il Concilio Vaticano II, nella costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ha nuovamente evidenziato questa profonda corrispondenza tra cristianesimo e illuminismo, cercando di arrivare ad una vera conciliazione tra Chiesa e modernità, che è il grande patri­monio da tutelare da entrambe le parti».

L’affermazione relativa alla strutturale relazione tra la fede cristiana e il meglio del logos greco ha scatenato ovviamente una serie di pole­miche e di reazioni critiche, anche perché l’espressione richiede ade­guato approfondimento certamente sul piano teoretico, ma anche – e direi soprattutto – in prospettiva storica. Il teologo fondamentale non può non interrogarsi circa il senso di questa «parte migliore» del pensiero greco e la sua identificazione, tenendo conto di un dato ermeneutico importante per ogni corretto approccio alla teologia di Ratzinger: il suo orizzonte non è infatti quello neoscolastico, ma piuttosto egli muove sul versante neopatristico, anche se il suo stesso «agostinismo» deve far discutere e non può non suscitare ulteriori interrogativi.

E in ogni caso: perché sarebbe impossibile disellenizzare la fede cristiana? Chi e cosa impedirebbero una reinculturazione anche filosofica del Vangelo in altre categorie o strutture? E, accanto a questi quesiti teorici, la questione storica mi pare decisiva: non dovremmo forse rasse­gnarci al declino dell’Occidente e, nell’aprire spazi nuovi alla geopoli­tica ecclesiale, ripensare i contenuti della fede in altre modalità concettuali? In altri termini, la fine dell’eurocentrismo (di cui da tempo si discute anche in ambito teologico) è solo politica ed economi­ca o è anche culturale e speculativa? E, nel secondo caso, siamo così sicuri di poter allegramente rinunciare a quei vertici di pensiero cui a partire dalla «Grecia felice, casa di tutti i celesti», è pervenuto il vecchio continente? L’Occidente non può essere chiamato a globalizzare, oltre che l’economia di mercato, i suoi tesori spirituali?

Sul versante propriamente teologico la possibilità di una disellenizzazione della fede esige il riferimento a un puro Vangelo, che si possa estrapolare dalla sua inculturazione originaria ebraica e greca e riacculturare in ulteriori contesti e orizzonti linguistici e filosofici. Per la teologia fondamentale si tratta di prendere sul serio la sacramentalità della rivelazione, così come essa si esprime nell’incarnazione del Verbo, il quale non ha assunto una natura umana indefinita o indeterminata, ma si è fatto carne unendo a sé l’uomo Gesù di Nazareth nella sua concre­tezza storica e culturale, così come il sacramento del Battesimo esprime la rinascita nel segno sacramentale dell’acqua e delle parole che ne accompagnano il rito e l’eucaristia si realizza attraverso le realtà culturali del pane e del vino, che neppure in altri contesti si possono sostituire. Analogicamente con quest’orizzonte sacramentale possiamo pensare il profondo legame fra la verità del Vangelo e il pensiero greco, quando l’istanza veritativa imprescindibile dell’annuncio del regno deve articolarsi e configurarsi necessariamente in una espressione metafisica e speculativa, che se, da un lato, dalla rivelazione si genera, dall’altro, nelle e attraverso le categorie del logos greco si dipana.

Alla prospettiva, emergente già nel dialogo con J. Habermas, dell’allargamento degli spazi della razionalità fa eco quanto, alla stregua di Agostino, Papa Benedetto afferma nella Spe salvi in ordine all’«allargamento del desiderio»:

«In modo molto bello Agostino ha illustrato l’intima relazione tra preghiera e speranza in un’omelia sulla Prima Lettera di Giovanni. Egli definisce la preghiera come un esercizio del desiderio. L’uomo è stato creato per una realtà grande – per Dio stesso, per essere riempito da Lui. Ma il suo cuore è troppo stretto per la gran­de realtà che gli è assegnata. Deve essere allargato. “Rinviando [il suo do­no], Dio allarga il nostro desiderio; mediante il desiderio allarga l’animo e dilatandolo lo rende più capace [di accogliere Lui stesso]”» (Spe salvi, 33).

In questo senso la soteriologia propria della fede cristiana risulta al­ternativa e profondamente differente da quelle proposte religiose che suggeriscono il raggiungimento della salvezza attraverso l’esclusione del desiderio.

Infine il rapporto fede-ragione trova ulteriori spunti, particolar­mente impegnativi proprio per la teologia fondamentale, nella circola­rità della purificazione che riguarda entrambe le sfere. Se, nella prima enciclica, Benedetto XVI aveva indicato a più riprese la necessità di una purificazione della ragione da parte della fede (nn. 28-29), nell’ultima enciclica non mancherà di riservare un compito purificatore nei con­fronti della religione alla ragione stessa:

«Nel laicismo e nel fondamen­talismo si perde la possibilità di un dialogo fecondo e di una proficua collaborazione tra la ragione e la fede religiosa. La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo au­tentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità» (Caritas in veritate, 56).

Di particolare interesse per una ricostruzione corretta e critica dell’auten­tico pensiero di Ratzinger sono i discorsi pronunciati senza un testo predisposto, come quello rivolto al clero di Bressanone durante le vacanze estive del 2008, dove cogliamo la possibilità di superare e integrare un certo intellettualismo che potrebbe far capolino dalle prece­denti riflessioni:

«“Siate pronti in ogni momento a rendere conto del senso della speranza che è in voi” – apologia del “logos” della speranza, un trasformare cioè il “logos”, la ragione della speranza, in apologia, in risposta agli uomini. Evidentemente, egli era convinto del fatto che la fede fosse “logos”, che essa fosse una ragione, una luce che proviene dalla Ragione creatrice, e non un bel miscuglio, frutto del nostro pensiero. Ed ecco perché è universale, per questo può essere comunicata a tutti. Ma proprio questo “Logos” creatore non è soltanto un “logos” tecnico. È più ampio, è un “logos” che è amore e quindi tale da esprimersi nella bellezza e nel bene. E, in realtà, per me l’arte e i santi sono la più grande apologia della nostra fede. Gli argomenti portati dalla ragio­ne sono assolutamente importanti e irrinunciabili, ma poi da qualche parte rimane sempre il dissenso. Invece, se guardiamo i santi, questa grande scia luminosa con la quale Iddio ha attraversato la storia, vediamo che lì veramente c’è una forza del bene che resiste ai millenni, lì c’è veramente la luce dalla luce. E nello stesso modo, se contempliamo le bellezze create dalla fede, ecco, sono semplicemente, direi, la prova vivente della fede».

Verso la «metafisica agapica»

Se possiamo leggere la rinuncia come un atto di amore gratuito, allora es­sa si può ricondurre in particolare alla tematica della prima enciclica di Papa Benedetto. Qui la visione erotico-agapica di Dio affonda le sue radici in un’antica tradizione, quella che potremmo denominare della «metafisica agapica» o «metafisica della carità».

Lo stesso Pontefice, acuto interprete di Agostino, rimanda non solo a questo grande maestro del pensiero credente, in alcuni passaggi significativi dell’enciclica, ma svela la fonte della sua visione erotico-agapica del Dio cristiano richiamando il cap. IV del De divinis nominibus dello Pseudo-Dionigi. E questo riferimento precede quelli agostiniani, invertendo così la cronologia dei personaggi.

Siamo in ogni caso anche qui di fronte a un’antica sapienza, non tanto nutrita della metafisica aristotelica, quanto del pensiero platonico, nonché di quel neoplatonismo meritevole dei primi tentativi di conciliazione fra le due grandi figure speculative dell’antica Grecia. Si tratta, per dirla con una certa brutalità determinata dall’impossibilità di fornire in questa sede adeguati approfondimenti, di declinare quella «filosofia dinamica» dell’essere, richiamata anche dalla Fides et ratio (n. 97) e di indicare con chiarezza e determinazione nella vis amativa la dynamis che muove Dio, il mondo e l’uomo (i tre elementi della Stella della Redenzione ) e ne determina il rapporto.

L’autore del corpus dionisiano osa molto (e siamo grati al suo coraggio speculativo, che tante pagine della grande filosofia cristiana ha ispirato) perché, pur nell’orizzonte apofatico, ci suggerisce di nominare Dio, nella maniera meno impropria e idolatrica possibile e indica all’enciclica la prospettiva teologica ispiratrice di tutta la prima parte.

Segnaliamo qui, in quanto a nostro avviso particolarmente istruttivi, tre luoghi o momenti attraverso cui si esprime la trasgressione nell’opera dello Pseudo-Dionigi: a) rispetto a Filone; b) rispetto a Platone; c) rispetto a Gregorio di Nissa e Origene. Né mi sembra troppo lontana dal vero l’ipotesi interpretativa secondo cui è forse proprio a causa di queste trasgressioni (riconducibili ad un unico movimento speculativo) che l’autore non solo resta anonimo, ma chiede al suo lettore-interlo­cutore Timoteo di custodire nel segreto quanto è andato esponendo.

(1) La trasgressione rispetto a Filone riguarda il divieto di nominare Dio. Divieto sostanzialmente accolto dallo Pseudo-Dionigi in linea teo­rica, ma di fatto trasgredito nelle pagine della sua opera sui nomi divi­ni. Potremmo raccogliere intorno al senso di questa trasgressione alcu­ne riflessioni, la prima delle quali concerne la pertinenza della proibi­zione rispetto alle possibilità dell’uomo di nominare Dio. È Lui, al con­trario, che si nomina e, nominandosi, denomina gli uomini e le cose. In questo senso il nome proprio di Dio può essere solo rivelato e non at­tinto razionalmente.

La ragione – diceva già Filone – potrà giungere ad indicarne l’esistenza, ma non a chiamare per nome il Creatore del cielo e della terra. Ma, proprio perché innominabile, a Dio si addicono mol­ti nomi, anzi tutti i nomi:

«Così dunque – scrive l’anonimo – alla Cau­sa di tutte le cose e che è superiore a tutte le cose non si addice nessun nome e si addicono tutti i nomi delle cose che sono, perché sia regina di tutte le cose e tutte le cose gravitino intorno a lei e da lei dipendano come causa, principio e come fine ed ella, secondo il sacro detto, sia tutta in tutti e sia veramente celebrata come […] custodia e domicilio [di tutte le cose]» (DN, I, 7,262-263).

Di qui dunque non l’indicazione di un solo nome, ma di una pluralità di nomi, in analogia col famoso passo della metafisica aristotelica dove si dice che l’essere si dice in molti modi (Metafisica G 2 1003 a 33-34; II, 130-131). E tuttavia la po­lisemia non degenera in anarchia, in quanto si offre in una “gerarchia” (termine caro all’anonimo) dei nomi, che così avranno una struttura pi­ramidale. In questo quadro alla sfera del primo nome, che è il Bene, appartengono i tre nomi di Luce, Bellezza, Amore e, solo successivamente i tre nomi di Essere, Vita, Sapienza, cui seguono tutti gli altri.

(2) La trasgressione rispetto a Platone riguarda l’attribuzione del termine Eros a Dio e quindi l’identificazione Eros-Agape. Il «divino» filosofo non aveva osato tanto. Egli giunge fino al punto di indicare Eros come demone, attribuendogli un ruolo di mediazione, fra il cielo e la terra, i divini e gli umani. E non è certo un caso se tale identificazione venga asserita da una donna, Diotima di Mantinea, il cui nome evoca la mitica figura dell’amante che ha ispirato il grande poeta Holderlin, cantore peraltro della nostalgia degli dei e della Grecia feli­ce, casa di tutti i celesti.

Ma la figura dell’«eterno femminino che ci trae verso l’alto» (W. Goethe) non è solo immanente e pagana, si pensi all’Afrodite terrena e a quella celeste delle Enneadi plotiniane, richiamata proprio a proposito di Eros e della sua dimensione divina. Teilhard de Chardin ed Henri de Lubac ci hanno insegnato a interpretare cri­stianamente l’eterno femminino in riferimento alla Vergine Madre, la quale «ci mostra che cos’è l’amore e da dove esso trae la sua origine, la sua forza sempre rinnovata» (Deus Caritas est, 42).

I commentatori non mancano di rilevare la cautela con la quale lo Pseudo-Dionigi si accinge a parlare di Dio in termini erotici, soprattut­to in considerazione del fatto che le Scritture non indicano mai Dio col nome di eros e solo due volte dicono che gli uomini lo devono amare usando il relativo verbo, mentre comunemente si usa come noto la ter­minologia legata all’agape. Ciò accade, dice l’autore, perché il termine eros è troppo spesso inteso in senso volgare. Abbiamo bisogno quindi di una sorta di «purificazione della ragione» (formula già richiamata e che l’enciclica ripete tre volte, in altri contesti ai nn. 28 e 29) per poter accedere a una prospettiva erotico-agapica, che non sia fuorviante o addirittura irriverente.

Ed è la ragione purificata (o redenta) che riesce a cogliere ed esprimere il senso autentico dell’eros, ossia il suo caratte­re estatico. Ancora una volta la dipendenza dallo Pseudo-Dionigi risul­ta evidente: non è l’eros ebbro e indisciplinato che può esprimere il no­me divino, ma appunto l’eros estatico (DCE, 4), di cui ad esempio in questo passaggio del presunto areopagita: «L’Amore divino è estatico, in quanto non permette che gli amanti appartengano a se stessi, ma a quelli che essi amano» (DN, IV, 134, 310-311), cui fa eco l’enciclica: «Sì, l’eros vuole sollevarci “in estasi” verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni» (DCE, 5); e, più avanti: «amore è “estasi”, ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio» (DCE, 6).

(3) La trasgressione rispetto ai precedenti patristici (il Nisseno e Origene) si situa sulle precedenti considerazioni e riguarda l’annotazione dei commentatori secondo cui l’originalità dell’anonimo sta proprio nell’aver innestato in Dio la prospettiva agapico-erotica, laddove chi lo ha preceduto non ha ritenuto di dover valicare il limite antropologico, inter­pretando i due termini e il loro nesso come atteggiamenti fondamentali dell’uomo verso Dio. La prospettiva squisitamente teologica viene co­munque salvaguardata per il fatto che si tratta appunto di una erotica della grazia, pur sempre antropologicamente declinata e non innestata nella vita divina stessa e nel mistero del Dio unitrino.

È davvero sorprendente il fatto che una figura storica quale quella di Ratzinger-Benedetto, spesso assimilata a quella mitica del grande inquisitore, abbia fatto proprie queste trasgressioni speculative, anche perché si sa bene che il trasgredire del pensiero precede ed eccede quello della prassi, ma forse la disattenzione mediatica e teologica dei più non ha potuto rendersene conto.

Ritornando ad Agostino, per indicare questo percorso propria­mente speculativo e, direi, metafisico, si può evocare la figura della «terza navigazione». La navigazione a gonfie vele secondo le indicazioni della «filosofia naturalista», a dire di Eustazio, aveva condotto Platone nelle secche dell’immanentismo, la seconda navigazione che egli in­traprende coi remi lo conduce a percepire la trascendenza dell’essere, sola capace di spiegare a fondo gli stessi fenomeni fisici. Ma il grande filosofo era giunto a un limite, da lui stesso profondamente avvertito, allorché aveva intravisto la necessità di una rivelazione divina per poter procedere nel cammino. Così afferma nel Fedone 85d:

«Perché su tali questioni a me pare, o Socrate, come forse anche a te, che avere in que­sta nostra vita una idea sicura, sia o impossibile o molto difficile; ma, d’altra parte non tentare ogni modo per mettere alla prova quello che se ne dice, e cessare di insistervi prima di aver esaurita ogni indagine da ogni punto di vista, questo, o Socrate, non mi par degno di uno spirito saldo e sano. Perché insomma, trattandosi di tali argomenti, non c’è che una cosa sola da fare di queste tre: o apprendere da altri dove sia la soluzione; o trovarla da sé; oppure, se questo non è possibile, accoglie­re quello dei ragionamenti umani che sia se non altro il migliore e il me­no confutabile, e, lasciandosi trarre su codesto come sopra una zattera, attraversare così, a proprio rischio, il mare della vita: salvo che uno non sia in grado di fare il tragitto più sicuramente e meno pericolosamente su più solida barca, affidandosi a una divina rivelazione».

Ora questa terza navigazione – come suggerisce un autorevole interprete sia di Pla­tone che di Agostino – si compie col legno-barca della croce, che, come abbiamo avuto già modo di constatare, l’enciclica richiama in maniera decisa e decisiva. La possibilità dunque di «raccogliere», ossia tener insieme l’essere e Dio passa attraverso la logica della incarnazione e della redenzione, sicché il teologo Ratzinger così poteva affermare:

«Il primato del Logos e il primato dell’amore si rivelano identici. Il Logos non apparve più solo come ragione matematica alla base di tutte le cose ma come amore creatore fno a diventare compassione verso la creatura. La dimensione cosmica della religione che venera il Creatore nella potenza dell’essere, e la sua di­mensione esistenziale, la questione della redenzione, si compenetrarono e divennero una cosa sola […]. Il tentativo di ridare, in questa crisi del­l’umanità, un senso comprensibile alla nozione di cristianesimo come religio vera deve, per così dire, puntare ugualmente sull’ortoprassi e sull’ortodossia. Al livello più profondo il suo contenuto dovrà consistere og­gi – come sempre in ultima analisi – nel fatto che l’amore e la ragione coincidono in quanto veri e propri pilastri fondamentali del reale: la ragione vera è l’amore e l’amore è la ragione vera. Nella loro unità essi so­no il vero fondamento e lo scopo di tutto il reale» (J. Ratzinger, La verità cattolica, in Micromega 2/2000, 53).

Il fondamento agapico-erotico che Benedetto XVI ci mostra nell’enciclica rinviando implicitamente a quela che amiamo denominare una «metafisica della carità», induce ovviamente ad escludere ogni contrapposizione dialettica fra questa prospettiva teoretica e quella derivante dalla metafisica dell’essere o dell’esodo co­me l’abbiamo sopra descritta. E a questo proposito ci sia consentito ri­chiamare un altro grande maestro del pensiero credente, studiato dal teologo Ratzinger, san Bonaventura e l’icona dei due cherubini:

«Il primo fissa lo sguardo, innanzi tutto e principalmente sull’Essere stesso, affer­mando che il primo nome di Dio è “Colui che è”. Il secondo fissa lo sguardo sul Bene stesso, affermando che questo è il primo nome di Dio. Il primo modo riguarda in particolare il Vecchio Testamento, il quale proclama soprattutto l’unità dell’essenza divina, per cui fu detto a Mosè: “Io sono Colui che sono”. Il secondo riguarda il Nuovo Testamento, il quale determina la pluralità delle Persone divine, battezzando “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”» (Itinerarium, V, 2).

Siamo al cospetto di una concezione estremamente dinamica del­l’essere, che ritornerà nell’enciclica successiva, dove si rileva che la fe­de rivoluziona il concetto di «sostanza»:

«Il concetto di “sostanza” è quindi modificato nel senso che per la fede, in modo iniziale, potrem­mo dire “in germe” – quindi secondo la “sostanza” – sono già presenti in noi le cose che si sperano: il tutto, la vita vera. E proprio perché la cosa stessa è già presente, questa presenza di ciò che verrà crea anche certezza: questa “cosa” che deve venire non è ancora visibile nel mon­do esterno (non “appare”), ma a causa del fatto che, come realtà inizia­le e dinamica, la portiamo dentro di noi, nasce già ora una qualche per­cezione di essa» (Spe salvi, 7).

Il Concilio ritrovato

L’incontro di Ratzinger-Benedetto con il Concilio Ecumenico Vaticano II risulta, oggi in particolare, ricco di fascino e al tempo stesso problematico, a causa del diffondersi di letture di stampo ideologico, tendenti ad operare una sorta di riduzionismo dell’evento e del dettato conciliare a posizioni ecclesiali e teologiche preconcette e strumentali, che ri­schiano di fraintendere il suo rapporto coll’evento conciliare.

Come Papa Benedetto ha rilevato, il problema di fondo riguarda la necessità di affrontare l’argomento raccontando un evento o presentando una dottrina. Si tratta – come spesso accade – di un falso dilemma. Il Concilio è stato senz’altro un evento ecclesiale e socio-culturale di immen­sa portata, che si è cristallizzato e ci viene consegnato in un insieme di scritti dottrinali (che peraltro si pongono su diversi piani di autorevolezza), i quali chiedono di essere letti e interpretati correttamente e nella maniera più esauriente possibile sia da parte dei credenti cattolici, che da quella di altri eventuali destinatari dei testi stessi.

Senza il riferi­mento all’evento conciliare gli elementi di dottrina che il Vaticano II ci offre sarebbero privi del loro humus e del loro contesto e rischierebbero di presentare una serie di teorie avulse e peraltro fra loro difficil­mente componibili in un quadro concettuale coerente. Senza la com­ponente dottrinale il Concilio rischia di essere storicisticamente inter­pretato e depauperato del messaggio che pure ha inteso rivolgere ai fedeli cattolici e a tutti gli uomini di buona volontà.

Sembra quindi com­pito di chi lo accosta avere costantemente presente questa bipolarità fra evento e dottrina e su questi binari proporre ai giovani, che non hanno vissuto la stagione conciliare, e quindi possono apprenderla solo attraverso lo studio delle testimonianze e dei documenti, questo fondamentale momento della storia del Novecento.

Quanto all’interpretazione corretta del magistero conciliare credo sia fondamentale sottolineare come non si tratti di contrapporre una ermeneutica della continuità a una della discontinuità, bensì, come autorevolmente ha detto Benedetto XVI una ermeneutica della discontinuità a una ermeneutica della «riforma».

Nel famoso discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005, il Papa si è espresso in toni drammatici, richiamando nell’esordio la metafora della battaglia navale nel buio della tempesta, che Basilio Magno aveva evocato a proposito del Con­cilio di Nicea e riportando un suggestivo brano di questo padre della Chiesa: «Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei cla­mori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede […]» (Basilio Magno, De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32,213 A; SCh 17bis, 524).

E, a propo­sito del Vaticano II, ricordare da una parte o dall’altra, ossia dal versante «tradizionalista» o da quello «progressista», che non si sia trattato di un concilio dottrinale, ma semplicemente pastorale può servire soltanto ad ulteriormente intorbidare le acque e a confonderle. L’aggettivo, infatti, non va sbandierato per operare una sorta di diminutio del magistero dell’ultimo concilio, piuttosto andrebbe doverosamente notato che la denominazione e la connotazione pastorale, lungi dall’intendersi in senso diminutivo, va piuttosto interpretata nella prospettiva contraria dell’inclusione della dottrina in un orizzonte pastorale (peraltro pro­prio di tutti i concili, anche di quello di Nicea) e pertanto consente di ulteriormente valorizzarne gli insegnamenti. Si tratta, infatti, di una dottrina (come mostreremo proprio a proposito del tema della libertà di coscienza) che ha una profonda valenza pastorale e di indicazioni pastorali che hanno un altrettanto radicamento dottrinale.

Ma una lettura attenta e non pregiudiziale del discorso di Papa Be­nedetto esige che si sottolinei il fatto che egli non ha contrapposto all’ermeneutica della discontinuità quella della continuità, bensì ha usato la parola «riforma», tanto suggestiva quanto problematica e al tempo stesso feconda. Il Papa, a tal proposito si è così espresso:

«All’ermeneutica della discontinuità si oppone l’ermeneutica della riforma, come l’hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d’apertura del Concilio l’11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel di­scorso di conclusione del 7 dicembre 1965. Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice che il Concilio “vuole tra­smettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti”, e continua: “Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo te­soro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la nostra età esige […]. È necessario che questa dottrina certa ed immuta­bile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presenta­ta in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra vene­randa dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata” (S. Oec. Conc. Vat. II − Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, 863-865)».

Il termine «riforma», pronunziato da un Pontefice tedesco, evocherebbe le vicende di uno scisma lacerante [si veda a questo riguardo il  ponderoso volume di D. MacCulloch, RiformaLa divisione della casa comune europea (1490-1700), Carocci, Roma 2010], se non potesse essere assunto e interpretato nella prospettiva indicata da Yves Congar in un testo che ormai possiamo considerare classico nella storia della teologia europea e dalle cui pagine traiamo le condizioni di possibilità di una «riforma senza scisma», che si possono così schematizzare e riassumere: a) primato della carità e della dimensione pastorale; b) restare nella comunione del tutto; c) pazienza e rispetto dell’attesa e d) rinnovamento mediante un ritorno al principio della tradizione, senza l’introduzione di elementi di novità, mediante un adattamento meccanico (Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Jaca Book, Mi­lano 1992).

E d’altra parte il gesto stesso della rinuncia sarebbe risultato se non impensabile almeno meno praticabile senza il riferimento all’orizzonte ecclesiologico del Vaticano II e alla prassi postconciliare delle dimis­sioni dei vescovi dal loro mandato con l’avanzare dell’età.

Abbiamo colto e vissuto lo spirito del Concilio in maniera sorprendente e dirompente proprio negli ultimi mesi della storia della Chiesa e a questo spi­rito ha reso testimonianza l’ormai dimissionario Benedetto nell’ultimo discorso, anche questo pronunciato a braccio, al clero della sua dioce­si. Oltre il Concilio virtuale – ha detto il Papa avviandosi alla fine del suo discorso – «la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa».

Se è nell’impotenza dell’uomo, di Gesù di Nazareth, della Chiesa, ossia nella croce, che si rivela l’onnipotenza di Dio, allora forse davvero il gesto della rinuncia (nono­stante i maldestri tentativi di conservare al vescovo emerito di Roma una parvenza di sacrale egemonia da parte del suo entourage) può con­tribuire a esorcizzare quel «potere che frena» (2Ts 2,6-7; M. Cacciari e G. Agamben) e ad avvicinare il regno di Dio certamente nella parousia, ma soprattutto nell’oggi della storia.

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