
Non vi è dubbio che si possa anche essere disinteressati alla teologia espressa da un papa. E che si voglia restare alla sua simpatia o alla sua apertura. Ma credo che sia giusto non perdere di vista il valore teologico del papato che si è appena compiuto.
In mezzo a tanti discorsi, spesso generici, approssimativi e vuoti, un’analisi che si muove limpidamente in questa direzione mi pare sia quella pubblicata oggi, 22 aprile, sul Messaggero, col titolo (parziale) “La piramide rovesciata dei laici nella Chiesa”, a firma di Luca Diotallevi, dalla quale vorrei iniziare la mia breve riflessione.
La lettura muove da una prima osservazione: il pontificato di Francesco ha avuto due caratteristiche fondamentali: il suo riferimento al Concilio Vaticano II e l’esigenza di “inaugurare processi”.
Potremmo dire: riprendere il grande processo conciliare, per continuare in quella direzione.
Questa premessa permette di identificare, secondo Diotallevi, cinque punti-chiave del pontificato, dove emergono accenti nuovi:
- la liturgia non è in vendita e non è a scelta
- la carità precede, la dottrina segue. C’è carità anche quando non tutto è chiaro
- il Sud del mondo deve contare di più (e occorre elaborare una teoria adeguata di questi diritti)
- alle donne va riconosciuta finalmente una piena dignità
- la piramide della Chiesa va rovesciata
Di fronte a questi obiettivi, lucidamente identificati, e aperti “come processi”, non sempre è corrisposta un’adeguata elaborazione. Dice Diotallevi, a ragione: «Per strano che possa sembrare, sono abbondati sia difetto di decisione che eccesso di accentramento».
Questo indica, conclusivamente, che il compito indicato con autorità da Francesco resta il nostro compito. E che la recezione del Concilio Vaticano II impone alla Chiesa “processi” che non si possono considerare né compiuti né esauriti, che non basta aprire, ma occorre elaborare e strutturare.
Di fronte a questo testo, che reputo di grande valore, al quale sono grato per la chiarezza, mi sono chiesto: in che misura Francesco ha rinnovato la teologia cattolica? In che cosa consiste il valore “teologico”, in senso stretto e tecnico, del suo pontificato?
Provo a dirlo aggiungendo qualche parola di metodo ai 5 punti sacrosanti, ricordati da Diotallevi.
Francesco e la teologia come stile
Sembra persuasivo dedurre dal fatto che Francesco non fosse formalmente un teologo (come quasi tutti i papi prima di lui) la conseguenza che non abbia fatto teologia. In realtà, la sua profezia di pastore e di credente, di gesuita e di americano, gli ha dato un linguaggio teologico originale, che ha strutturato i migliori tra i suoi documenti.
Dai quali, come è evidente, traspare uno stile teologico – di questo si tratta – che costringe la teologia a cambiare stile, a entrare in un nuovo paradigma. Se applichiamo lo schema del papa non teologo, rischiamo di cadere nella trappola di isolare la teologia dai sensi, dai sentimenti, dalle emozioni, dalle forme civili, dall’estetica, dalla politica.
Questo è il gioco in cui alcuni modernisti e molti antimodernisti sono sempre stati alleati. No, Francesco non ha rinunciato alla teologia, ma ha preteso che la teologia si immergesse nei linguaggi della vita, come è la sua vocazione più originaria.
La sua passione per la vita e per la letteratura traspariva nei neologismi, nelle immagini, nei passaggi sorprendenti dei suoi testi più alti. Anche in questo aspetto Francesco è stato un figlio del Concilio Vaticano II: dai grandi testi di quel Concilio ha tratto l’“autorevolezza dello stile”, che è forse una cosa che hanno capito soprattutto i teologi (e i pastori) americani. Ossia, il fatto che il Vaticano II è stato anzitutto un evento di “stile”, di linguaggio, di immagini e di immaginario.
Questo è il cambiamento che avevamo già vissuto in un Concilio, ma non ancora in un papato. Con Francesco, un papa ha iniziato a parlare, in molti casi, con il linguaggio del Vaticano II. Questo è stati ed è un evento teologico, un evento di stile a modo suo irreversibile.
Come irreversibile è stato il Vaticano II, così irreversibile è per il papato aver iniziato a parlare con questo stile. Il presentimento che il Concilio ci aveva dato, dalla sera del 13 marzo del 2013 è diventato capace di riconoscere, anche in Francesco, proprio un papa, nonostante il suo linguaggio fosse così diverso da molti altri papi! La sua audacia era il riflesso dell’audacia conciliare, che quasi avevamo dimenticata.
I processi e le forme istituzionali
Un papa che si lascia ammaestrare non solo dalle parole del Vaticano II, ma dal suo stile, comprende come un compito l’esigenza di “inaugurare processi”, di “uscire”, di superare l’“autoreferenzialità”.
Questo significa, teologicamente, riconoscere che la Chiesa ha un’autorità sulla propria tradizione e che può ancora – come scriveva Giovanni XXIII nell’apertura del Concilio – distinguere tra «sostanza dell’antica dottrina» e «formulazione del suo rivestimento».
Significa ammettere che il passato non è anzitutto uno scudo o una spada con cui vincere il presente. La parola nuova, che Francesco ha ripreso dal Vaticano II, è che su liturgia, dottrina, Sud del mondo, donne e struttura della Chiesa, la tradizione, per essere fedele, deve saper cambiare.
Su questo punto è vero che “iniziare processi” è una cosa, farli davvero avanzare è una cosa diversa. Su molti dei punti bene evidenziati dall’analisi di Diotallevi vi è stato proprio quel pendolo tra indecisione e accentramento che costituisce una questione non soggettiva, ma oggettiva.
O, meglio, che la tradizione ha reso soggettiva (facendola dipendere solo dal papa) non riconoscendone l’identità istituzionale. I processi chiedono cambiamenti istituzionali. Se non li fai, il processo gira a vuoto. Questo è un punto delicatissimo, su cui al processo da iniziare deve corrispondere la forma istituzionale adeguata per continuare.
Questo aspetto ha segnato, trasversalmente, tutto il pontificato di Francesco, dalla liturgia, alla famiglia, dalle donne al Sud del mondo, dalla forma sinodale alla promozione della pace.
Una certa diffidenza verso le forme istituzionali ha segnato tutto il pontificato, nel bene come nel male. La sua audacia riguardava più il cuore che le strutture. I processi però esigono le seconde non meno del primo.
La teologia “rapida” nel senso migliore
Vi è, infine, l’aspetto del dialogo con la cultura contemporanea, talvolta segnato da una lettura integralista delle società aperte. In questi casi era come se, nella teologia di Francesco, apparissero punti ciechi, sui quali si dava semplicemente lo scontro con le forme civili: in pochi casi, ma di rilievo.
Ma il fondo della lettura restava segnato da una simpatia verso le nuove forme di vita comune, che non venivano pregiudicate da un modello di pensiero legato a doppia mandata con una società chiusa.
In questa direzione va la qualità “rapida” della sua teologia. Non tanto per la capacità di trovare subito una risposta a ogni questione. Da questa velocità, un poco burocratica e scostante, Francesco ha saputo prendere le distanze eroicamente, su molti piani: sul piano ecumenico, sul piano sessuale, sul piano dottrinale ha saputo essere “rapido” in un modo nuovo, ossia nel saper assumere, rapidamente, il punto di vista dell’interlocutore, cercando di valutarlo non in contumacia.
Questo tratto della teologia di Francesco, che onora lo stile del Concilio Vaticano II portandolo più avanti, risulta promettente. Anche se la sua teologia è stata “rapida” nel cogliere la ampiezza delle questioni, ma spesso è diventata troppo “veloce” nell’impostare le soluzioni, l’eredità che ne traiamo è teologicamente qualificante.
Indica a noi, come cristiani e come teologi, quel compito elementare, ma arduo, che Francesco ha espresso ai laici dell’Azione Cattolica con una formula, giustamente ricordata da Diotallevi: «Siate audaci. Non siete più fedeli alla Chiesa se aspettate a ogni passo che vi dicano che cosa dovete fare».
Questa audacia, insieme all’inquietudine, all’incompletezza e all’immaginazione, sono le caratteristiche fondamentali di quella che riconosciamo come la teologia che Francesco ci ha lasciato in eredità.
Non solo una passione o un’emozione per Dio, ma un modo di parlare e di pensare Dio riconosciamo, con gratitudine, nelle parole più alte del magistero di Francesco.
- Pubblicato sul blog dell’autore Come se non.






Non è vero che Francesco si sia attenuto solo all’umanesimo e alla filantropia indi pendentemente dalla propria scelta cristiana e dalla considerazione del valore teologico di questa in relazione alle altre fedi religiose. (Ritenerne l’aspetto teologico una perdita di tempo è tipico solo o del desiderio di non affrontare i problemi, a livello ne teorico né pratico, o peggio che mai dell’intenzione non dichiarata di manipolare le situazioni approfittando dell’ opzione a favore della superficialità). Il rispetto che l’ultimo Concilio ha riservato alla libertà di culto e di coscienza in papa Bergoglio è andato, con l’atteggiamento di ascolto e quindi di dialogo propri del cristiano, insieme alla volontà di avvicinare l’interlocutore venendone alle specifiche categorie e modalità di linguaggio, propria della speciale devozione a Sant’Ignazio di Loyola, che in forma omiletica non ha mai cessato di ricordare quale suo patrimonio personale.
I processi chiedono cambiamenti istituzionali
– Andrea Grillo
Questa affermazione, tanto essenziale quanto esigente, tocca il cuore di una delle sfide più urgenti della Chiesa di oggi. Non esiste processo autentico – tanto meno un processo sinodale – che possa restare confinato a buone intenzioni o a dichiarazioni condivise, senza incidere sulle strutture che reggono e modellano la vita ecclesiale.
Andrea Grillo, nel solco della teologia di Papa Francesco, ci ricorda che la sinodalità non è solo un metodo più partecipativo, ma una conversione ecclesiale. Francesco ci ha insegnato che “il tempo è superiore allo spazio”: significa che il cammino è più importante delle posizioni di potere, e che i processi contano più dei ruoli consolidati. Se il tempo è un alleato della grazia, allora esso deve generare trasformazioni reali – anche istituzionali.
In questo senso, il processo sinodale avviato in Italia – e in particolare il tentativo di riforma delle curie diocesane – rappresenta un passaggio decisivo. Le curie non sono semplici uffici amministrativi, ma luoghi dove si plasma concretamente un certo modo di vivere e pensare la Chiesa. Per questo, sperare che i cambiamenti non si fermino significa credere nella possibilità di una Chiesa più evangelica, più snella, più vicina al popolo di Dio.
Il rischio è che il linguaggio del cambiamento venga assorbito senza che le strutture cambino davvero. Ma se le istituzioni restano impermeabili al cammino sinodale, quel cammino si svuota. La riforma non è un optional, ma la prova della fedeltà al Vangelo. Una Chiesa sinodale non può restare prigioniera di logiche funzionalistiche o autoreferenziali: ha bisogno di strutture che esprimano servizio, ascolto, comunione.
È in questo spazio di tensione – tra il già e il non ancora – che il pensiero di Grillo ci provoca, non per demolire, ma per accompagnare con parresia la nascita di un volto di Chiesa che il Concilio aveva intuito e che oggi, grazie al magistero di Papa Francesco, possiamo finalmente cominciare a incarnare.
Mah, alla fine nei 15 anni che lo leggo (praticamente in tutti i siti che ho avuto la sventura di frequentare) la parresia profetica di Andrea Grillo si riduce a questioni di urgenza piccolo borghese. Separazioni, femminismo, ansia di non essere al corso con i tempi (che mi pare il contrario del profetismo).
Da quel punto di vista Francesco è stato parretico profetico fino ad un certo punto dato che giustamente ha cercato di navigare tra le richieste dei vari schieramenti politici che lo tiravano (o allontanavano) per la tonaca.
Quali sono oggi le sfide per la Chiesa? La pace, il disarmo, la giustizia sociale, un mondo che esce dalla tutela americana e si apre verso nuovi protagonismi extraeuropei, la pervasività tecnologica che tutto tende ad uniformare. Va bene Zuppi, va bene Tagle ma andrà bene chiunque lo Spirito ci invierà…
Concordo torniamo a parlare di Gesù Cristo! Non so so che peculiarità abbia Grillo per parlare di francesco. Si ricordi che il fallimento del Sinodo non è stato un bel regalo al papa. E ancora la sfida a superare il suo no al diaconato delle donne. E diciamolo una volta per tutte: Se ha usato la parola frociaggine deve averne avuto le scatole piene
Bene ha fatto Andrea Grillo a mettere in evidenza le peculiarità di papa Francesco, mostrando gli avanzamenti ma anche gli inevitabili limiti, come quello di non essere sempre riuscito ad ancorare i processi che ha avviato ai necessari cambiamenti istituzionali.
Quanto a coloro che vedono in Bergoglio “indebite appropriazioni” o “particolarismi”, direi di stare tranquilli. Già ho sentito commenti di illustri prelati tendenti a “normalizzare” il pontificato di Francesco, inserendolo in continuità scontate e genericiste, ma utili a neutralizzare ogni discontinuità e cambi di rotta rispetto ad un recente passato. Aggiungo solo che queste continuità e quadri generali entro cui si vuole collocare Francesco (ma questo vale anche per altri dibattiti in seno alla Chiesa) sono in realtà anch’esse prese di posizione e visuali particolari ed interessate. La differenza però sta nella loro “efficacia”. Mi spiego meglio: tali operazioni risultano essere ottime strategie per imporre la propria visione (o quella di un gruppo) senza avere l’onestà intellettuale e spirituale di inserirsi in un confronto serio (oltre che fraterno) con altre posizioni, mettendosi così alla pari. Puntare alla retorica dell’universalità, della continuità, della linearità, della sintesi … sono gli escamotage di gruppi che mal sopportano l’essere ritenuti gruppi con proprie opzioni, e che vogliono avere ragione sugli altri, bypassando le argomentazioni e i dibattiti.
E quali sarebbero i particolarismi di Papa Francesco? Di chi e a nome di chi ha parlato? O circostanzia quanto dice o la sua è una calunnia.
Ha parlato a nome di una ideologia politica, pauperismo, ecologismo,.pacifismo , slegato dalla carità: cristiana e dalla fede in Gesu’ Signore del Mondo.
Già nel titolo non ci siamo. La Chiesa di Francesco, la teologia di Francesco ed altre indebite appropriazioni. Speriamo che il prossimo pontefice torni a parlare della Chiesa di Gesù Cristo. Senza particolarismi.
Concordo torniamo a parlare di Cristo, al vangelo, parola di Dio che non conosce tempo, le riforme organizzative sono solo aspetti di contorno e umani.
Mi fanno sorridere questi commenti aciduli e risentiti di chi senza aver intuito che Bergoglio faceva come Gesù piú che parlerne, vorrebbe se ne tornasse semplicemente a parlare. Parlatene pure ma ricordatevi che il giudizio finale non sarà sulle chiacchiere fatte su Gesù ma sui fatti compiuti in nome suo.
Ma quali fatto ha compiuto Francesco IN NOME di Gesu’ Cristo ? Mi pare che abbia detto vanno bene tutti ,Budda,Allah ,Mose’ ,che tutte le strade portano a Dio. Quindi le opere buone nn fatte in nome di Gesu’ ma in nome dell’ amore universale vanno bene lo stesso. E’ proprio questo il problema : Francesco non parlava A NOME di Gesu’ ma a nome di principi astratto di umanitarismo e di filantropia. Quello a cui crede anche la massoneria. E’ vero che bisogna agire invece che parlare di Gesu’ , ma bisogna pur dire che l’ amore per i poveri di San Francesco d’ Assisi e’ diverso ,perche’ in Nome di Gesu’ , da qualsiasi filantropia moderna in nome dei diritti civili ?
Cosa vuole che le dica. Si legga il vangelo con un buon commentario biblico al seguito. Quando capirà i gesti di Gesù capirà anche quelli di Bergoglio.