
Sono un anziano ebreo nato a Tel Aviv, cresciuto dai dodici anni in Italia. Non sono credente, ma in papa Francesco ho trovato una sorprendente e profonda affinità di pensiero e sentimento.
Come medico e scrittore, ho sempre cercato vie per alleviare la sofferenza, sia fisica che morale. Nel mio ultimo romanzo, La Metamorfosi dei Papaveri, ambientato in Israele nell’ambito del conflitto israelo-palestinese, immagino una nuova sostanza, chiamata «empatina», capace di risvegliare l’empatia del governo israeliano nei confronti dei Palestinesi, portando così finalmente alla pace tra i due popoli attraverso la creazione dello Stato di Palestina. Un sogno, quello della pace e della compassione, che era anche il cuore della predicazione di Francesco.
Davanti alla sua morte provo un senso di profondo smarrimento, e cerco di comprenderne le ragioni. Credo che il mio disagio sia strettamente legato al tema centrale della mia esistenza: la sofferenza. La sofferenza è qualcosa di terribile, inevitabile forse, ma sempre da combattere. Non ho l’illusione di poter cambiare le leggi della natura, che la impongono a ogni essere vivente, ma proprio per questo ho scelto di sostenere idee e azioni che la riducono, sia nei singoli individui – come ho provato a fare quotidianamente come medico – sia nella società, dove le scelte di chi ha potere possono davvero fare la differenza.
Nel tempo ho perso interesse per le posizioni politiche, ideologiche o filosofiche fini a sé stesse. Mi interessa soltanto capire se queste posizioni riducono o aumentano la sofferenza umana. Ecco perché fin dal primo momento ho sentito una grande vicinanza verso papa Francesco: in lui ho visto sempre un uomo autenticamente impegnato a lenire il dolore del mondo, a curare le ferite degli ultimi e a ricordarci, con umiltà e fermezza, che solo l’empatia e la compassione possono salvarci.





