
Papa Leone ha dato ai libanesi quel che è dei libanesi, il riconoscimento di una grande resilienza. Ma se provassimo a leggere le sue parole sul grave problema mondiale che ha individuato per tutti con lenti libanesi, diciamo solo libanesi, avendo lui riferito questo parole a tutto il mondo, capiremmo che questa resilienza andrebbe indagata.
“Sembra avere vinto una sorta di pessimismo e sentimento di impotenza: le persone sembrano non riuscire più nemmeno a chiedersi che cosa possono fare per modificare il corso della storia. Le grandi decisioni sembrano essere prese da pochi e, spesso, a scapito del bene comune, e ciò appare a molti come un destino ineluttabile”.
Trovandomi a Beirut nelle settimane trascorse, questa resilienza solo privata, non pubblica, non comunitaria, io l’ho percepita come un problema di sfiducia nella politica. C’è un’aria di disillusione che sfocia in ripiegamento, o adeguamento. E questo allo straniero fa chiedere se abbia senso restare con una ossatura politica che si richiama ancora, almeno in gran parte, ai tempi della guerra civile.
Il Libano per tornare ad essere pienamente il messaggio di cui parlò nel 1997 Giovanni Paolo II avrebbe bisogno a mio avviso di una riconciliazione tra la sfera politica e il sentire comune della popolazione. Leggo così ancor una volta in termini libanesi le parole del papa: “non c’è riconciliazione duratura senza un traguardo comune, senza un’apertura verso un futuro, nel quale il bene prevalga sul male subito o inflitto nel passato o nel presente. Una cultura della riconciliazione, perciò, non nasce solo dal basso, dalla disponibilità e dal coraggio di alcuni, ma ha bisogno di autorità e istituzioni che riconoscano il bene comune superiore a quello di parte. Il bene comune è più della somma di tanti interessi: avvicina il più possibile gli obiettivi di ciascuno e li muove in una direzione in cui tutti avranno di più che andando avanti da soli”.
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Di questa necessaria riconciliazione tra popolo e politica Leone ha parlato anche espressamente, con parole inequivocabili: “Vi incoraggio pertanto a non separarvi mai dalla vostra gente e a porvi al servizio del vostro popolo – così ricco nella sua varietà – con impegno e dedizione”.
Credo sia questo il senso profondo del suo discorso, pronunciato nel palazzo presidenziale; allora possiamo pensare che il suo venire a Beirut non fosse solo per Beirut ma per tutto il grande o nuovo Levante, che vedo nel susseguirsi di territori provati, in modo speso brutale, dal Mediterraneo alla Mesopotamia.
Sono territorio organizzati in Paesi che tutti conoscono e che hanno avuto un doloroso passato, spesso fatto di storie feroci, di negazioni, di protettorati, di assassinii feroci. Ma quale vescovo di Roma, con trascorsi formativi romani, Leone sa bene che alcuni Paesi qui in Europa un bel giorno, dopo la Seconda Guerra Mondiale, dopo essersi combattuti per secoli, si sono scoperti vicini, poi compagni di viaggio, poi amici, contribuendo a fondare l’esperimento dell’Unione Europea. Perché Libano, Siria e Iraq non potrebbero tentare la stessa impresa?
Tutto sommato sono i territori su cui hanno competenza diversi patriarchi d’Antiochia. La storia, se si vuole, può voltare le sue pagine; a volte lo fa, se si vuole.
Certo i problemi sono enormi, come il peso del passato, il dolore delle ferite ancora non curate, i riconoscimenti ancora parziali, le logiche diffidenze. Ma se le Chiese d’Antiochia, molte delle quali hanno sede a Beirut, assumessero questa profondità strategica, questo sguardo, ridurrebbero il peso della nostalgia, di sguardi limitati, di chiusure, diverrebbero quelle Chiese in uscita di cui ha parlato Francesco, o di quella Chiesa missionaria di cui parla Leone.
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I timori di ridimensionamento nascono anche dallo sguardo che si assume. Se si guarda alla propria montagna, o vallata, il ridimensionamento è un destino. Se si allarga l’orizzonte, se passeggiando nel proprio cortile si sanno immaginare distese boschive, praterie, il ridimensionamento è respinto per prima cosa dentro di noi.
Ecco allora che Beirut potrebbe tornare a pensarsi traino di un treno fatto da diversi vagoni, ognuno con la sua storia e identità, ma legato da un gancio comune, quello del bisogno d’incontro con lo spazio mediterraneo, con i commerci non solo di merci, ma anche di idee.
A Beirut si sente che una sostanza cristiana lì esiste, ma anche che ha bisogno di respirare, di uno discorso più ampio, e la città lo rende possibile – e poi soprattutto comprensibile a questo papa che, come Francesco, è legato all’idea di “tensione polare”.
I poli non si elidono, si richiedono, hanno bisogno l’uno dell’altro. I poli di Beirut sono da una parte le montagne così vicine, con il loro deposito di tradizioni da preservare, e dall’altra il mare, con i suoi orizzonti portatori di scambi, di incontri, di novità indispensabile per cambiare e crescere, insieme.





