Un papa al cinema

di:

leone xiv

L’affettuoso saluto di papa Leone XIV ai rappresentanti del mondo del cinema (“con gioia vi saluto, cari amici e amiche”) ci stimola ad approfondire la teologia del cinema. Il papa, in qualità di sommo pastore dell’ecclésia, invita a pensare ciò che molti teologi non hanno neppure pensato di pensare e che certe accademie religiose snobbano come una sottospecie dell’estetica applicata o come una simpatica tecnica d’illustrazione dottrinale.

Teologia del cinema

“Che il vostro cinema resti una casa per chi cerca senso”. “Fate del cinema un’arte dello Spirito”.

Un papa prende sul serio il cinema come una dimora in cui immaginare Dio con le cifre offerte da un nuovo tipo di narrazione. Questa è teologia del cinema al genitivo soggettivo, è il cinema che fa teologia, che rinvia a Dio attraverso icone inedite, con figure miracolosamente in movimento. Non è la solita teologia sul cinema, in cui vengono forzatamente, unidirezionalmente applicate categorie religiose alle opere d’arte, per qualificare se queste ultime siano affidabili sul piano etico o includano impliciti simboli biblici.

Questo vecchio approccio (genitivo “oggettivo”) dimentica che il mito e la grande letteratura sono fonti di rivelazione per il credente che ne fruisce, cosicchè l’opera artistica modifica, di rimbalzo, i concetti e i criteri teologici applicati ad essa. Neppure si tratta di verificare come un soggetto ecclesiastico sia rappresentato in pellicola. Che so… i cattolici italiani nei film, padre Pio in celluloide, l’eucaristia fotografata dagli artisti. No, si tratta invece di ascoltare ciò che il cinema, religioso o non religioso, dice della storia umana, di storie non umane, della fine della storia, di storie della fine e poi del nascere, del generare, del guarire. L’umano basta a sé? O il film parla anche di un altrove, quando l’umano avverte di essere donato a se stesso? E quale immagini-in-movimento vengono proposte in merito all’invisibile? E di che tipo è questo movimento cui concorrono visioni e suono?

Il cinema riplasma l’identità

Della forma, della Gestalt del cinema si dovrebbe parlare in teologia. Del resto il teologo Urs von Balthasar aveva commentato in Teodrammatica (1973) alcuni drammaturghi contemporanei, fra cui Brecht e Ionesco (vol. 1, pp. 312 ss.). E il cinema? Forse il cinema spaventa, poiché le sue ombre sono dotate di spregiudicata libertà di movimento, si librano tra noi come angeli curiosi, attraversano le pareti e invertono la cronologia delle azioni. Quelle del cinema sono sempre ombre d’inciampo. Ci troviamo di fronte a figure che si incarnano come nella visione di Ezechiele 37, in cui ossa aride stanno prendendo corpo e si gonfiano di tendini, muscoli, carne e si rialzano come un esercito nella grande valle. A proposito, quando vedremo un film su Ezechiele?

Ormai siamo tutti più o meno cinefili, ma un diffuso risultato della rimozione teorica, di cui abbiamo parlato, è che parrocchie, insegnanti di religione, catechisti, gruppi culturali, seminari diocesani, conventi guardano e commentano film cult o d’attualità, dichiarando spavaldamente di far uso religioso-educativo del cinema. In realtà è il cinema che usa di loro silenziosamente, implacabilmente, come ogni narrazione riuscita, dato che noi siamo i racconti in cui crediamo. Dunque è l’autore, è la pellicola che analizza noi, non il contrario, convertendoci a un patto coraggioso: esponiti, credendomi e poi vieni a vedere.

Al cinema la salute non è garantita, né tantomeno la serenità o la salvezza. Quello che accade facendo cinema si vedrà. Letteralmente: si vedrà. Dico tutto ciò costruttivamente. Esistono legittimi nuclei di valutazione morale “ad asterischi” e ci sono riviste patinate e festival altisonanti col regista famoso che, impropriamente (almeno dopo Roland Barthes) viene a dirci qual è il significato del suo film, quando nemmeno lui lo sa, perché (al contrario) è quella storia, quel “soggetto” registico, che l’ha affascinato, convocato e guidato. Non è la sua “libera” intenzione, per quanto buona, che ha creato dal nulla l’opera. L’opera formante (scriveva il filosofo Pareyson) ci guida, se vogliamo crederle, in direzione dell’opera formata, mentre le diamo forma.

E poi, che cosa ci sarà mai da festeggiare nei festival, a parte le star sul red carpet ? Non si capisce. Non si esce da un film horror o catastrofico così tanto festosi. Il cinema vero reclama la sua irriducibilità allo show mediatico e non funziona né come biblia pauperum per analfabeti religiosi, né come strumento di rieducazione. Arancia meccanica (di Kubrick, 1971) o La rabbia giovane (di Malick, il primo grande Malick, 1973) ti esplodono negli occhi e non offrono una facile catarsi dalla violenza che ci circonda e ci assedia dal di dentro. La mostrano, la raccontano, la legano con il fragile filo della trama. Ci vuole un’esperienza corporea di liberazione, individuale o gruppale con supervisione, per venirne fuori. Ma il cinema è fatto per l’arte (quello buono: “ars gratia artis”, arte per l’arte e non per altro) e non per la terapia. Il cinema invita a narrare ancora, questo è tutto, obbliga a immaginare il prequel e il sequel di ciò che si è imprevedibilmente visto.

Il cinema insegna qualcosa, ma non sempre lo si sta ad ascoltare. I teologi raccontano? I consigli pastorali si raccontano? Ma senza un racconto, come possono capire chi sono e che cosa fanno? Scoprono i loro tabù, come faceva Buñuel? Le associazioni, le sagrestie, le facoltà religiose, i confessori, i predicatori preparano (e si preparano) al lavoro di pensare teologicamente il cinema? Non sono certo d’aiuto influencers in clergy sartoriale, armati di whatsApp, che azzardano giudizi ed interpretazioni sulle pellicole senza adeguata formazione narratologica, senza conoscere le teorie del cinema, senza confidenza con il linguaggio della sceneggiatura, saltando d’un colpo Balthasar, Deleuze, Derrida, Eco, Schrader.

Che cosa ha detto il papa

E’ toccato quindi a lui, al cardinale Robert Francis Prevost, classe 1955, dare la sveglia. Lui, che tra i suoi film preferiti ha indicato Ordinary People Gente comune (di Robert Redford, 1980), storia di una famiglia altoborghese ferita da un lutto e da un tentato suicidio, la quale ricorre a uno psichiatra (l’indimenticabile Judd Hirsch) per curarsi l’anima e lasciar andare finalmente le emozioni. Papa Leone si è meritata la canottiera sportiva professionistica (“Pope Leo” c’è scritto sulla schiena) regalatagli dal regista di colore Spike Lee, che con Fa’ la cosa giusta (Usa 1989), cioè Do the Right Thing, ha scosso i manuali di etica sociale, ricostruendo lo scontro tra italo e afro-americani in una torrida Brooklyn, davanti a una gustosa pizzeria: povertà, ignoranza, follia e avidità sono gli ingredienti del cocktail esplosivo, in merito al quale non si sa chi colpevolizzare perché non si sa appunto quale sia “la cosa giusta” da fare.

E papa Leone dice tre cose, secondo noi. Le riformuliamo con parole nostre. Il testo del discorso in italiano si può leggere online: due pagine e mezzo sul bollettino-stampa vaticano del giorno 15 novembre 2025.

Primo. Il cinema intercetta una domanda diffusa di senso, una speranza inflessibile di giustizia e un desiderio di felicità e convivialità, che non si possono separare dalla ricerca della verità, per quanto dura e spigolosa essa sia. Leone la chiama “nostalgia d’infinito” e passione di “contemplare la vita”. I sensi e gli affetti sollecitano il pensiero, non lo soffocano né lo pervertono. Sembra di sentire il Veni Creator Spiritus: “accende lumen sensibus”. Papa Leone esige che il cinema continui tenacemente a mostrarci “anche un solo frammento del mistero di Dio”. Nientemeno. Come faccia il cinema a regalarci questa specie di “visio beatifica” e quale frammento esponga e in che lingua parli di Dio, questo lo cercherà di dire la teologia del cinema con genitivo soggettivo.

Secondo. La liturgia del cinema significa qualcosa per tutti. Tu entri in sala, c’è buio, silenzio, apparente estraneità, curiosità, e hai voglia di guardarti dentro e addosso, come per la prima volta, grazie alla mediazione di visioni (altro che iconoclastia). Un film di qualità parla dell’anima, del mondo e di un possibile Dio e parla soprattutto agli inquieti, che detestano la sedazione conformista a basso costo. C’è una comunità che riceve il sacramento e c’è una troupe che fa il film. Papa Leone enumera ben 17 figure professionali in azione al “ciak”, e “spera” (così dice) di non averne lasciato fuori nessuna. E’ un coro dalle voci plurime, magari dissonanti ma non cacofoniche. “Clima collaborativo e fraterno” scrive il papa.

Terzo. Il potere intacca avidamente, svuota, svende ed erode (proprio così: “erosione” dice il papa: stanno sottraendo i cinema alle città e ai quartieri). Svuota non solo le chiese, ma anche i teatri e i cinema. Il mercato vuole supermercati funzionanti, non provocatori laboratori del possibile, non testimoni di bellezza, non tollera gli spazi protetti, dove si riescono a piangere le lacrime “che non sapevamo di dover esprimere”. Anche coloro che non capiscono i tradizionali pellegrinaggi, vivono con giustificata eccitazione il cammino e l’esplorazione filmica del vivere quotidiano, dei luoghi a noi prossimi, ma troppo poveri per visitarli, tra i lebbrosi di sempre. “Il grande cinema indaga il dolore”, non sa che farsene della fotografia narcisistica ritoccata, dei guru di plastica, dell’indottrinamento bon ton.

La logica calcolante produce e ripete ciò che, essendo prevedibile, genera efficienza a breve termine. Il grande cinema invece si prende il suo tempo, dà lui le regole di ingaggio al “consumatore”, suggerisce nuove direzioni in cui cercare ciò di cui abbiamo inconfessata nostalgia.

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4 Commenti

  1. Non credente 29 novembre 2025
  2. Maria Cristina 27 novembre 2025
  3. Angela 27 novembre 2025

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