Chronicon – 19. Lavori in corso

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Stamattina è arrivato per la quinta volta il tecnico dei citofoni. Il lavoro in sé non era complicato, ma una volta mancava un pezzo, l’altra non è stata fatta una verifica, l’altra ancora c’era un contatto difettoso…, fatto sta che da tre settimane i citofoni sono guasti e per chiamarci tra noi fischiamo o urliamo come uomini primitivi.

Più passa il tempo, e meno sopporto i lavori fatti male. Non è soltanto questione di tecnica approssimativa, o di imprevisti che complicano situazioni apparentemente semplici. Mi pare di cogliere, a volte, una vera e propria disaffezione nei confronti del lavoro, una preoccupante mancanza di cura e di affetto. Sembra svanito quel tratto “artigianale” capace di dare valore anche alle professioni più umili e di trasformare in opera d’arte perfino la riparazione di un rubinetto. «Non si vuol più bene al lavoro», diceva il vecchio Gino questionando con Giovanni, intenti entrambi a guardare la posa dei tubi del gas scuotendo il capo (come fanno tutti pensionati che si rispettano).

Forse, una delle cause principali dei lavori fatti male è che vengono fatti in fretta. In realtà, i tempi, anziché accorciarsi, si allungano. Una semplice riparazione si trasforma in una serie infinita di rattoppi, quasi mai con esito positivo. Gli esiti sono nefasti non solo a livello tecnico, ne vanno di mezzo anche le relazione. Un lavoro fatto male guasta i rapporti, genera tensioni, costringe a continui reciproci richiami e apre il fianco a pericolosi malintesi. I toni dei colloqui si irrigidiscono diventano ogni volta più duri. Generano una serie di lamentele e di rimostranze e sfociano in “parole dette alle spalle”, tutti scaricano la responsabilità sugli altri e non si viene a capo di nulla.

Questa stessa pagina è già uno degli effetti negativi di un lavoro malfatto: confesso che è forte la tentazione di pagare in ritardo il citofonista (creando ulteriori strascichi e malumori).

Per onestà, devo dire che non capita sempre così e che devo essere testimone anche di lavori fatti bene. Nei contratti c’è scritto che i lavori devono essere eseguiti «a regola d’arte». Chi ce la fa allora è un “artista”! ed è proprio così. Ho incontrato “artigiani” degni di questo nome. Per loro il lavoro è un’arte.

Ho avuto sotto le mie finestre per mesi un cantiere edile per la ristrutturazione di un condominio. La squadra di operai arrivava la mattina presto dalle valli vicine ed era formata da un’improbabile composto di montanari nostrani e di emigrati nordafricani. Sentivi parlare (e bestemmiare) in dialetto e, qualche volta, con un avvento arabo. Eppure, non di rado mi sono trovato a “contemplare” lo stile del lavoro che vedevo in corso. L’intelligenza e la maestria dei muratori era proporzionale alla fantasia delle bestemmie che uscivano dalla loro bocca (Dio apprezzava la prima e perdonava la seconda). Era percepibile un’intesa tra uomini così diversi che solo un lavoro fatto bene è in grado di cementare. Man mano che l’opera cresceva, coglievi il gusto e la fierezza per un lavoro ben fatto.

Di fronte ai problemi e agli imprevisti – compreso il vicino della casa a fianco che chiamava continuamente i vigili per interrompere i lavori –, veniva fuori ancora di più la voglia di trovare le soluzioni ai problemi e la caparbietà di non arrendersi di fronte agli imprevisti.

Sono tanti i “lavori fatti bene”, che tengono in vita e in salute una parrocchia. C’è da aggiustare l’impianto elettrico e da curare l’anima, e non passa una grande differenza. Io stesso vorrei imparare a fare il mio “mestiere” con uno spirito artigianale e con quel piglio che vedo – a volte – in alcuni “operai”. D’altra parte, anche Gesù parlava della vigna descrivendo il lavoro dei suoi operai con tutti i difetti e i pregi della categoria.

Uno dei compiti più preziosi consiste nell’opera continua di “manutenzione”. Le nostre vecchie lo sapevano bene: «Un punto dato a suo tempo ne vale cento». Non trovi tante persone che siano oggi ancora capaci nell’“arte del rammendo”. Viviamo un tempo che preferisce “l’usa e getta”. Ma le cose preziose della vita non si prestano ad un consumo veloce e immediato.

La manutenzione esprime una relazione con le cose e la vita. È passato di moda, perfino nel linguaggio usuale, il verbo “tenerci”, che forse non è neppure un italiano corretto. Eppure “tenerci alle cose” dice di un affetto capace di cura senza possesso. Alle cose ci tieni per se stesse, perché ne vedi la bellezza e il valore. La manutenzione e l’arte del rammendo non corrispondono ad un “tirare avanti” le cose; in realtà, incrementano il valore delle stesse. Fanno crescere l’affetto perché “uno ci ha messo del suo”, perché hanno una storia.

Per questo, stasera, sento di dover pregare e di ringraziare per i manutentori della mia parrocchia. In ogni sacrestia ci sono le lapidi o i quadri che ricordano i nomi dei parroci. Bisognerebbe pensarne una a fianco per i manutentori. Sono quelli che, prima ancora di mettersi all’opera, hanno “l’occhio” sui lavori e le cose da fare. È l’occhio pratico ma anche l’occhio dell’affetto. Il loro è un compito che non è mai finito; tutte le nostre parrocchia sono un po’ come la fabbrica del duomo, sono come una casa normale e una famiglia normale: ci sono sempre dei lavori in corso. È solo l’umiltà e la pazienza di chi se ne prende ogni volta cura che permette alle nostre chiese di restare in piedi e di rimanere aperte. Il loro lavoro è spesso nascosto ma sono certo non agli occhi di Dio.

Stasera mi viene da pregare con le parole famose di un salmo: «Se il Signore non costruisce la casa, invano faticano i costruttori. Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode».

Nell’opera di manutentori trovo l’eco dell’opera stessa di Dio: la pazienza e l’umiltà con cui si prende cura di questa umanità sgangherata; la capacità di integrare anche gli errori e gli sbreghi perché nulla vada perduto; la precisione di una cura che, anche nelle piccole cose, fa miracoli.

Dio lavora così e noi proviamo ad assecondarne l’opera.

don Giuseppe

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