Raccontare la parrocchia /1

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Ottanta persone (preti, laici, laiche, vescovi) si sono ritrovate sul tema “Parrocchie e ministeri” a Pergine Valsugana (Trento, 23-26 agosto) per concludere un lavoro triennale sul tema della parrocchia. Sostenute dall’ISSR di Verona, dalla Facoltà teologica di Padova e dai vescovi del Triveneto, con la collaborazione di un analogo gruppo pugliese e tosco-emiliano, hanno elaborato un metodo che unisce competenze accademiche e pastorali con il racconto del vissuto credente delle comunità parrocchiali. L’impegno, già affinato in precedenza sul tema del “secondo annuncio”, non ha preteso di proporre un modello parrocchiale sostitutivo a quello tridentino, ma di focalizzare quelle pratiche e quelle scelte che vanno in direzione di un cambiamento di cui tutti avvertono l’urgenza.
Elaborato e letto da M.T. Martinelli, R. Covi, A. Pozzobon, G. Laiti e E. Biemmi, il testo sintetizza quegli elementi che possono avviare o confermare forme generative capaci di futuro. La relazione conclusiva del lavoro triennale sarà pubblicata in tre puntate. Questa è la prima.

Il progetto “Progetto Parrocchia Triveneto” ha accolto un’importante sfida che sta interpellando, oltre a noi, diverse realtà accademiche, centri di formazione, singole diocesi. La domanda che fa da sfondo, provocatoria e sicuramente portatrice di non poche preoccupazioni, può essere così formulata: “quale sarà il futuro della parrocchia dentro contesti tanto mutati”?

Il progetto, della durata di tre anni, accoglie la visione ecclesiologica di papa Francesco. È stato promosso dall’ISSR San Pietro Martire di Verona, sostenuto dalla Facoltà teologica del Triveneto e si è avvalso della collaborazione di tanti amici – una rete di teologi, parroci, laiche e laici. Inoltre, la proposta ha mantenuto uno stretto dialogo con progetti analoghi sia della Regione Puglia sia della Regione Toscana e dell’Emilia-Romagna.

Chi siamo e come ci siamo mossi

L’équipe è formata da persone molto diverse fra loro. Rappresentiamo un buon numero di diocesi del Triveneto, siamo uomini e donne, presbiteri, laici e laiche, religiosi, le nostre competenze spaziano in più ambiti e variano quantitativamente, le nostre visioni non sono perfettamente allineate e nemmeno le nostre attese o le domande.

Eppure, le differenze non sono state gerarchizzate, anzi, abbiamo aperto un confronto prezioso, sono state intessute relazioni importanti e – ci tengo a dirlo soprattutto come donna che ha un vissuto in ambiti ecclesiali talvolta ferito – ho percepito queste relazioni paritarie, prive di quelle stantìe ma, purtroppo, ancora quotidiane asimmetrie fra donne e uomini o, peggio ancora, avvolte di quel problematico paternalismo ecclesiastico.

Rubando le parole a papa Francesco, descriverei così l’esperienza fatta: “La riscoperta di una Chiesa sinfonica, nella quale ognuno è in grado di cantare con la propria voce, accogliendo come dono quelle degli altri, per manifestare l’armonia dell’insieme che lo Spirito Santo compone”.[1]

Dunque, un camminare insieme come modo di procedere ma soprattutto come tratto strutturale di ogni processo ecclesiale, perché si generano contesti nuovi o si riproducono i vecchi modelli “gerarchici-monarchici” a partire da come ci si parla fra noi, da come ci si ascolta, ci si accompagna, da come si tace, da come si sta insieme.

Condizione fondamentale: postura/stile/sguardo

Come équipe, ci siamo dedicati un tempo gratuito, paziente e umile, per conoscerci, per ascoltarci, abbiamo accettato di metterci in discussione, liberi dal bisogno di trovare soluzioni immediate. Tuttavia non sciolti da un metodo.

Anche l’ascolto ha bisogno di cura e di metodo. Ascoltare bene è il primo passo non solo per un discernimento corretto ma anche per ogni buona relazione. Progetto Parrocchia Triveneto, quindi, come luogo di un’esperienza corale, non di natura strategica ma spirituale.

Ci ha accompagnati uno sguardo contemplativo, che desidera lasciarsi stupire, uno sguardo aperto alla meraviglia. Le sorprese, infatti, non sono mancate perché questo è ciò che provoca la realtà… anche nella sua povertà.

Cosa ci ha mosso

Ci ha mosso la passione per il vangelo e l’amore per la parrocchia, oggi così fragile, così esposta allo smarrimento e alle contraddizioni, ma nella quale continuiamo a nutrire profonda fiducia. Quindi ci ha mosso l’amore e, se si ama, non ci si sottrae, né si può accettare indifferenza o rassegnazione.

L’amore spinge ed è foriero di possibili cambiamenti e conversioni, spazio di nuovi inizi. Quando si ama ci si crede, si investe sulla fiducia. Non nostalgia per ripristinare le forme del passato ma, mantenendo memoria delle nostre radici, un prendere sul serio il tempo che abitiamo nel desiderio di entrare con gentilezza e speranza nel campo dei germogli nuovi.

Come abbiamo lavorato?

Il valore di un percorso, prima ancora che delle conclusioni, è dato dal metodo che si è utilizzato. Il metodo è già un contenuto. Ed è quello che poi concretamente può accompagnare la vita feriale delle nostre comunità parrocchiali. Non manchiamo, infatti, di analisi ben fatte né di voglia per attuarle: ciò che manca spesso è un metodo condiviso, che sappia sostenere un desiderio di cambiamento in forme praticabili.

Il cuore del metodo che abbiamo sviluppato pare, a prima vista, fin troppo scontato: abbiamo ascoltato delle esperienze di Chiesa. Sono state esperienze di parrocchie con queste caratteristiche: non nascono da un laboratorio, ma sono realmente in atto (non si tratta di ideali e di modelli, ma di vita concreta); hanno osato qualche passo oltre il confine del “si è sempre fatto così”; il superamento del confine non è stato pianificato e poi attuato, ma è la risposta ad un bisogno del territorio, ad un bisogno di vita, ascoltato alla luce del Vangelo. Potremmo dire che la domanda che ha accompagnato queste parrocchie è stata questa: «Cosa significa, in questo territorio geografico e umano, rispondere all’invito del Signore “annunciate e guarite”»?

Perché dico: “troppo scontato?”. Perché è bene mettere a parola i timori rispetto a questo modo di procedere, altrimenti costituiscono un freno, talvolta inconscio, che impedisce di agire liberamente: non in noi che siamo qui, ma in tanti con cui lavoriamo nelle nostre parrocchie.

In fondo, sono gli stessi timori verso il processo sinodale in corso. “Non è che puntare troppo sull’ascolto è pericoloso, nel senso che espone la Chiesa agli umori del tempo? E poi, non si rischia di perdere di vista la verità della Tradizione? Inoltre, come si può fare formazione a partire dall’analisi di storie di vita e non solamente da una lezione frontale, che dà confini certi e precisi? Che fine fa il ruolo del ministero ordinato in tutto questo, con il suo compito di custodire il legame con la Chiesa apostolica?”.

La risposta a questi interrogativi – leciti, ma sterili se non provocano un passo di ricerca ulteriore – la troviamo ancora una volta nella Rivelazione, cioè in Dio. Gesù non ha creato una scuola di rabbini – dove si imparava a memoria per poi ripetere a propria volta – ma una comunità itinerante, alla quale ha consegnato la capacità di riconoscere, dentro la vita umana, i segni della presenza di Dio, il Dio che lui ha rivelato con il suo modo umano di vivere.

Lo Spirito Santo continua quest’opera: gli Atti degli Apostoli lo testimoniano, basti pensare all’incontro di Pietro con Cornelio, come è citato nei documenti preparatori per il cammino sinodale. La verità che lo Spirito continua a far incontrare è una persona e come tale cresce, conosce, impara. La foto di un bambino non è la stessa dopo 50 anni: ci sono molte differenze, pur restando la stessa persona (Castellucci). Questa è la Tradizione della Chiesa. Dio ha disseminato nel mondo la sua Parola, perché la Chiesa possa diventare umile nel dialogare con ogni esperienza umana e perché non si senta proprietaria di questa Parola, finendo per mettersi al posto di Dio (Nardello).

Come si traduce tutto questo in un metodo? Se il protagonista è lo Spirito, allora l’operazione è prima di tutto spirituale. Pastorale e spirituale sono, infatti, due aspetti di uno stesso movimento, pena un’azione disincarnata o solamente sociologica. Si tratta di mettere in atto un discernimento e per questo è necessario uno strumento adeguato.

Entra in gioco, a questo punto, la griglia di analisi delle esperienze che, nei suoi passaggi, risulta un modo di abitare la realtà, a servizio del desiderio di cambiamento che è presente nelle nostre parrocchie. La griglia è composta da domande: troppo spesso una cattiva comunicazione nei nostri ambienti nasce da domande sbagliate. Si è cercato, invece, di aver cura della domanda corretta.

Il primo passo è osservare: la sfida è stare sulla realtà, su ciò che realmente accade, non sulla nostra idea. Ascoltare con pazienza i soggetti, le azioni, i cambiamenti in atto, la ricerca e le resistenze è la prima operazione essenziale. L’ascolto è l’atteggiamento di Dio: allenarci a questo stile, significa vivere il Vangelo.

Il secondo passo è avviare qualche movimento di interpretazione, con l’aiuto di criteri che provengono dalla teologia e dalle scienze umane. Abbiamo ripreso, infatti, la nozione di cambiamento, di territorio e di ministeri alla luce della natura missionaria della Chiesa.

Il terzo passo raccoglie quanto prima ascoltato e interpretato, per ritrovare, dentro l’esperienza stessa, i punti di miglioramento e di crescita.

Quali risultati può portare questa metodologia? Prima di tutto, permette di vedere con sguardo contemplativo la vita della Chiesa e delle persone: è un esito spirituale.

Poi aiuta ad abitare il cambiamento della realtà in cui si è inseriti: è un esito, potremmo dire, antropologico, di vita umana, perché a tutti è chiesto di confrontarsi con il cambiamento, personale e sociale. Inoltre, insegna a stare dentro la Chiesa da protagonisti: è un esito ecclesiale.

Infine, abilita a formare e a formarsi imparando a riflettere dentro l’azione, superando gli estremi di chi vuole applicare delle idee o di chi fa a meno di un riferimento e va avanti per inerzia (sono le due tensioni dentro le nostre comunità). Anche il ministero ordinato, dentro questo processo, trova nuova motivazione, come partecipe di un movimento (del quale non è più il solo attore), segno di unità e di comunione.

Il guadagno, quindi, non è di una soluzione che può andar bene per tutti (semmai esistesse), ma della capacità di tradurre lo stile evangelico in una modalità formativa, che aiuti a diventare maggiormente comunità discepole e, per questo, missionarie.

Per utilizzare un’immagine efficace, questo modo di procedere ci rende registi, non fotografi: il fotografo blocca l’immagine, il regista ne accompagna lo sviluppo. Dio è regista, non fotografo (Castellucci).


[1] Messaggio di papa Francesco per la 56ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali.

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3 Commenti

  1. Gabriella Ammirata 17 settembre 2023
  2. Roberto Piva 13 settembre 2023
  3. E. P. 12 settembre 2023

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