“Amoris laetitia”, Francesco e il diritto all’eucaristia

di:
figlio prodigo

Rembrandt, Ritorno del figliol prodigo (1669 circa), Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo

A quasi dieci anni di distanza dalla pubblicazione di Amoris laetitia, lo “scandalo” di alcuni gruppi cattolici per la visione misericordiosa di papa Francesco non è stato ancora superato. Lo ha rilevato con la consueta acribia Fabrizio Mastrofini, in un recente articolo per SettimanaNews[1].

Le cose più ovvie sono spesso quelle meno conosciute

Com’è noto, Francesco, nella famosa esortazione apostolica del 2016, si è mostrato, tra le righe, aperturista sulla possibilità di concedere la comunione alle persone che hanno divorziato e si sono poi risposate civilmente. Contro questa eventualità non sono mancate le critiche, talvolta aspre, talvolta anche dirette contro lo stesso pontefice. Ma adesso alcuni ambienti cattolici sembrano aspettarsi che il nuovo papa, Leone XIV, intervenga sulla questione e chiuda le porte alla misericordia auspicata dal predecessore. Leone XIV non si è tuttavia pronunciato sul problema, almeno non apertamente, sino a oggi. E non è detto che sia disposto a farlo.

D’altra parte, in questi anni, altri ambienti cattolici, in America o in Europa, si sono impegnati a difendere la linea di Francesco, invocando classiche distinzioni “di scuola”. Un peccato mortale, è stato ricordato, presuppone materia grave, piena consapevolezza e deliberato consenso; se manca anche una sola di tali ‘condizioni’, allora la colpa grave non sussiste: in casi del genere si potrebbe quindi concedere l’eucarestia anche alle persone risposate civilmente. Basterà questo solo argomento a mettere d’accordo le parti?

Ne dubito e anzi ritengo che dopo tante discussioni sia giunto il momento di rivisitare alla radice il problema che ha trascinato Amoris laetitia in così tante polemiche[2]. Dare la comunione alle persone risposate: in fin dei conti, sulla base di quale criterio si può decidere per un sì o per un no?

Per molti la soluzione è da cercare direttamente nel magistero dei papi prima di Francesco o più in generale nella cosiddetta ‘tradizione della Chiesa’. Ma chi si occupa di storia del cristianesimo sa benissimo che questo terreno va approcciato con molta cautela, dato che la dottrina della Chiesa, per quanto stimata immutabile – o immutabilizzatasi nell’immaginario contemporaneo? –, ha sperimentato nel suo bimillenario divenire parecchi sviluppi e cambiamenti, talvolta persino gravi contraddizioni, anche sul piano della morale e della prassi penitenziale. Nasconderselo sarebbe un grave errore. L’appello esclusivo alla ‘tradizione” non risolve quindi la questione di cui ci occupiamo, ma rischia di prolungarla indefinitamente.

Sic stantibus rebus, a mio avviso non c’è che un’unica via per venire a capo dei dubbi circa la possibilità di concedere l’eucarestia a quanti si trovano in situazioni familiari difficili: il confronto con le Scritture e in particolare lo studio delle testimonianze dei vangeli. Sono le Scritture, e in particolare i vangeli, il riferimento primario della vita della Chiesa ed è su base scritturistica che ogni aspetto della vita dei credenti è da vagliare, specialmente in situazioni complesse.

Che qualsiasi presa di posizione nella Chiesa debba essere presa e giustificata in tal modo è evidente a chiunque, naturalmente anche a quanti hanno assistito Francesco nella elaborazione della Esortazione del 2016. Ciononostante, e soprendentemente, la linea aperturista di Francesco in Amoris laetitia non è stata corredata da un adeguato approfondimento del concetto di misericordia secondo il vangelo.

Spero di non essere frainteso. Le citazioni, i rimandi, le allusioni ai vangeli, come ad altri libri biblici, non mancano nella Esortazione. Ma sono assenti, o sono fugaci laddove era più lecito attendersele e averne una discussione accurata, cioè al cap. 8, dove Francesco lascia trasparire la sua visione.

L’esercizio della misericordia nella vita della Chiesa e i suoi eventuali limiti vanno insomma giustificati spiegando, e se necessario riconsiderando con attenzione, cosa siano a) conversione, b) perdono e c) comunione secondo Gesù di Nazaret (per quanto ne ricaviamo dai vangeli ovviamente). È imperativo farlo. È l’aspetto fondativo di ogni possibile discorso ecclesiale. Se tutto questo avesse ricevuto maggiore attenzione in sede di elaborazione di Amoris laetitia, alcune polemiche non avrebbero forse avuto luogo o sarebbero state superate più facilmente.

Visto il deficit argomentativo della Esortazione di Francesco, mi sembra dunque ora opportuno presentare alcune riflessioni su tre punti cruciali appena enunciati: perdono, comunione, conversione secondo il Gesù dei vangeli. Prevedo ora un’obiezione: si dirà che si tratta di cose così scontate che non è necessario rimetterle al centro della discussione. Obiezione fragile, visto che molto spesso le cose ritenute più ovvie sono poi anche quelle meno conosciute.

Eccone una prova eloquente. 

Luca 15,11-32 e l’arte degli equivoci sulla parabola “del figliol prodigo”

Come concepisce Gesù la misericordia del Padre? O come ce la presentano gli evangelisti?

La parabola lucana del “figliol prodigo” (15,11-32), che sarebbe più giusto chiamare “del padre misericordioso”, costituirebbe un ottimo esempio su cui riflettere, se non fosse che il brano, celeberrimo, è anche uno dei più equivocati del N.T.

L’equivoco ha radici secolari, tanto da essere stato ‘consacrato’ all’attenzione del grande pubblico da una celebre tela di Rembrandt (1606-1669): Il ritorno del figliol prodigo (in olandese: Terugkeer van de Verloren Zoon).

Rembrandt presenta il “figliol prodigo” della famosa parabola come un giovane col capo rasato, mesto e umiliato, che non osa levare lo sguardo. Sincero penitente, è in ginocchio di fronte al padre, un anziano che cerca a sua volta di proteggere pietosamente il figlio più giovane dal giudizio feroce degli altri. Sullo sfondo e sul lato destro del dipinto sono rappresentate altre figure, una delle quali rigida e distaccata, ha sguardo spietato: molti moderni, ma non tutti, vi riconoscono il fratello maggiore della parabola lucana.

Gli occhi chiusi del padre e le sue tenere mani, tratteggiate diversamente, quasi a sancire una duplice protezione – materna e paterna – del figlio riavuto, sono tra le cose artisticamente più riuscite del dipinto di Rembrandt e hanno da sempre comprensibilmente suscitato la commozione degli osservatori. Tuttavia, la giusta attenzione per questi particolari ha distolto lo sguardo dei più, anche quello dei critici, da un problema di fondo.

Ben pochi osservatori si sono resi conto che Rembrandt esprime in realtà nella tela la sua personale visione della misericordia divina, non quella del testo lucano. Per Rembrandt (e a dir il vero anche per tanti altri del suo tempo e forse anche di oggi), la misericordia del padre risiede nell’avere riaccolto e perdonato un figlio già pentito.

Pentimento come presupposto del perdono, conversione e solo allora pure comunione: in quest’ordine di idee ragiona Rembrandt intorno alla misericordia del padre, ovvero alla misericordia divina. Ma non è affatto questo il modo di pensare di Gesù secondo la parabola lucana, come a breve vedremo.

La tela del pittore olandese ha contribuito a plasmare in età moderna, e nella Chiesa, un ben preciso immaginario della misericordia divina, ovvero la concezione secondo la quale la pietà di Dio si esercita solo su chi, già pentito, torna ormai sui suoi passi. Nessuno, purtroppo, riesce a togliere dalla mente di tanti credenti di oggi l’immaginario che Rembrandt suo malgrado ha contribuito a radicare. È il potere delle immagini, capaci alle volte di sopraffare anche il significato della fonte ispiratrice[3].

L’amore senza condizioni: il vero significato della parabola lucana (nella sua prima parte)

Il messaggio della parabola è in realtà di senso perfettamente opposto alla rappresentazione del pittore olandese. A questo proposito giova tenere a mente che il Gesù lucano pronuncia la parabola proprio in risposta ad alcuni suoi critici, “scandalizzati” dal fatto che il Nazareno condividesse la mensa con i peccatori. Ricordo che al tempo e nel contesto di Gesù, la condivisione della mensa era un atto di comunione.

Torniamo quindi al racconto, che nella sua prima parte descrive un padre abbandonato e tradito e ciononostante in cerca del figlio perduto. Avendolo rivisto, quando quello era ancora lontano, il padre non esita: sente le sue viscere lacerarsi quasi come quelle di una partoriente – qui Luca usa il verbo della misericordia divina: σπλαχνίζομαι – e preso da un impeto d’amore esce di casa, corre disperatamente incontro al giovane figlio e giunto a lui si getta quasi come un bambino, per baciarlo sul collo.

Il padre della parabola sfida in questo modo anche la mentalità del mondo, compromettendo la sua reputazione. Toccare un impuro, e il figlio in quelle condizioni lo era visibilmente, voleva dire, per gli ascoltatori di Gesù, contaminarsi.

E ora il figlio, sorpreso ma in piedi di fronte al padre, prende la parola: «Padre ho peccato contro il cielo e contro di te: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». I Padri della Chiesa, che erano anche retori ed eccellenti filologi, individuano qui un elemento cruciale per la comprensione del racconto, un vero punto di svolta. Si tratta di una mancanza. Dopo l’abbraccio e i baci del padre, che inaspettatamente si è giocato tutto, persino la reputazione pur di amare suo figlio, il giovane non aggiunge, come inizialmente aveva meditato di fare, «trattami come uno dei tuoi servi».

Per quale motivo questa assenza? Perché l’amore del padre lo ha convertito.

Inizialmente, infatti, il ritorno del figlio non era stato provocato né da rimorso né da pentimento, ma da fame e miseria. Il figlio era ancora nel peccato. L’evangelista Luca lo dice a chiare lettere, beninteso per coloro che leggano con attenzione. Il figlio, in apertura della parabola, si reca in un paese «lontano». «Lontano» vuol dire peccato.  Sulla via del peccato egli sperpera quanto ha per vivere e cade nel più acuto bisogno; la fame e il bisogno lo spingono a questo punto a convertire non il suo cuore, ma i suoi interessi (spera di vivere almeno da servo, con pane in abbondanza). E si mette sulla via di casa.

Luca narra il ritorno del giovane così: «Quand’era ancora lontano», cioè quando era ancora in peccato, il padre lo vide, uscì di casa e gli corse incontro con amore oltre ogni attesa e contro la mentalità dell’epoca. Ed è a questo punto che avviene l’inaspettato: di fronte alla misericordia senza condizioni del padre, il figlio perduto entra in crisi. E il suo cuore si converte all’amore del suo genitore.

Nella logica del vangelo il pentimento è la conseguenza dell’incontro con l’amore gratuito di Dio, non la sua condizione preliminare. È l’amore del padre che cambia il cuore del giovane uomo, non l’uomo a cambiare sotto il peso delle circostanze difficili della vita. Gesù, per come Luca (e non solo Luca) ce lo presenta, ha una visione controcorrente della misericordia divina, di senso opposto alla logica del mondo, perché per lui Dio è controcorrente.

Il Padre non aspetta il pentimento degli uomini, ma nel suo Figlio viene a mettersi a tavola con loro, perché il suo amore incondizionato li riporti alla vita. Il perdono è dato, non meritato.

È accettabile questa logica?

Convertirsi, cioè «cambiare mentalità»

La misericordia divina manifestata dal Gesù lucano contraddice in modo paradigmatico la mentalità del mondo, ovvero la mentalità che ha portato Rembrandt a equivocare la parabola sul “figliol prodigo” e a ribaltarne il senso su un aspetto cruciale.

Con ciò non si pensi che Rembrandt abbia colpe particolari. Era la mentalità del suo tempo.

Già, la mentalità. Anche questo è un punto su cui gravano molti equivoci. Perché quello a cui i credenti in Cristo sono chiamati è proprio un cambiamento di mentalità.

A questo proposito è utile forse anche un chiarimento sul significato evangelico del termine «conversione».

Nel vangelo di Marco, «conversione» non indica, almeno non in prima istanza, un cambiamento di comportamento (e meno che mai la sottomissione al tempio), ma un cambiamento di mentalità. Lo si dice in greco mediante il sostantivo metanoia (o col verbo corrispettivo μετανοέω).

Di cambiamento di mentalità si parla già all’inizio del vangelo di Marco (cap. 1, v. 15). Gesù inaugura il suo annuncio del vangelo in questi termini: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi (μετανοεῖτε) e credete nel Vangelo». Per quale motivo, in questo brano programmatico, si associa il cambiamento di mentalità al credere alla buona notizia?

Perché era contro la mentalità dell’epoca l’idea che Dio si facesse avanti per salvare il mondo. Dio, secondo molti di allora, veniva piuttosto per giudicarlo e condannarlo. Bisognava farsi trovare preparati (lo stesso Battista la pensava così). Per Gesù invece il Regno non aspetta che il mondo cambi. Al contrario, è il mondo a cambiare perché incontra il Regno, che viene inaspettatamente a fare comunione.

Gesù scandalizzava, scandalizzava il suo insegnamento, la sua provenienza (era un Galileo), il perdono che dava, come lo dava, la logica in base al quale lo concedeva, la misericordia guaritrice di cui egli parlava, la stessa comunione con i peccatori.

Oggi come ieri, il vangelo continua a essere motivo di scandalo, forse anche tra alcuni degli stessi cristiani, molto attaccati a tradizioni idealizzate e poco alla conoscenza approfondita dei vangeli.

Forse sono ancora in molti a pensare che la misericordia divina sia qualcosa in fin dei conti da meritare. Nella logica del vangelo, si tratta invece di un farmaco ricevuto gratuitamente, capace di guarire. Era quest’ultima la visione di Gesù, la logica da lui vissuta fino in fondo, anche la sera del tradimento. Allora, in segno di comunione col suo corpo e nel perdono dei debiti, egli spezzò il pane. Poi diede loro il calice del vino come farmaco di vita nuova. In quella notte drammatica, tutti ebbero parte al pane spezzato e al calice condiviso, anche Giuda. Questi aveva ancora il boccone in bocca, dice Giovanni (cap. 13,26-30), quando uscì da quella comunione. Gesù stesso gli aveva dato il boccone. Giovanni lo sottolinea.

Conclusioni

Il vangelo ha una visione controcorrente del perdono, della comunione, della conversione e di conseguenza anche della misericordia divina.

Oggi molti rifiutano l’idea di concedere la comunione a persone che vivono in questa o quella situazione considerata di peccato grave, ma il discorso, come rilevato a suo tempo dal card. Carlo Maria Martini, dovrebbe essere impostato in senso praticamente inverso: in che modo la Chiesa attraverso i sacramenti può venire in soccorso di quanti sono in situazioni familiari complesse[4]?

L’eucaristia, “usata” così tante volte nel corso dei secoli come strumento di esclusione, è invece la celebrazione, in Gesù di Nazaret, dell’inclusione[5].

  • Emanuele Castelli è docente di Storia del cristianesimo e Letteratura cristiana antica presso il Dipartimento di civiltà antiche e moderne dell’Università di Messina

[1] Cf. F. Mastrofini, USA: questioni etiche e mondo “tradizionalista” − SettimanaNews, 25 agosto 2025.

[2] Amoris laetitia non era stata pensata specificamente per la questione. È vero, comunque, che Francesco ha toccato il problema, esprimendo la sua visione con cautela e tra le righe, senza enunciare apertamente un sì o un no sulla strada da percorrere. Così il suo documento è stato recepito in modi diversi proprio in merito alla concessione della comunione alle persone risposate. Per alcuni, il contenuto dell’Esortazione non modifica in nulla la precedente prassi penitenziale. Altri, invece, hanno riconosciuto la volontà aperturista di Francesco, approvandola. Altri ancora, pur avvertendo la stessa volontà, si sono opposti. Comunque, lo stesso Francesco è intervenuto successivamente confermando la linea aperturista della sua visione pastorale sul problema di cui discutiamo. Per opportuni approndimenti si veda l’importantissimo volume di Ignace Berten, Les divorcés remariés peuvent-ils communier?, Enjeux ecclésiaux des débats autour du Synode sur la famille et d’Amoris Laetitia, Lessius, Bruxelles 2017, e dello stesso autore: Quand la vie déplace la pensée croyante. Mémoires d’un théologien, Cerf, Paris 2021, in part. pp. 399-405.

[3] Se ci fosse ancora bisogno di un esempio, basterebbe interrogarsi sulla conversione dell’apostolo Paolo. Nell’immaginario odierno è diffusissima l’idea che Paolo sulla via per Damasco cadde da cavallo. Peccato che in Atti non si parli affatto di questo, anzi è certo che lo spostamento avvenne a piedi (e infatti “lo presero per mano”). È Caravaggio ad avere dipinto la conversione di Paolo come un evento illuminante dopo la caduta da cavallo.

[4] Carlo Maria Martini pone questa domanda nella sua famosa intervista sulla Chiesa, indietro di 200 anni: «Chiesa indietro di 200 anni » − Corriere.it.

[5] Quanti desiderano ulteriori approfondimenti sulla natura della Chiesa e sul significato dell’eucaristica potranno leggere con profitto l’agile e lucido volume di  Antonio Meli, Intervista sull’avvenire del cristianesimo, Armando Editore, Roma 2018. Lo stesso autore si è soffermato sul significato dell’eucaristia, con opportuni riferimenti alle fonti, in un precedente lavoro: Il mistero eucaristico, Armando Editore, Roma 2016.

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  1. Giambattista Savoldi 16 settembre 2025
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