Quando si affronta la questione femminile in carcere, come comunità cristiana e come Chiesa istituzione noi ci siamo, a diverso titolo e in diverse forme.
Ci siamo
Ci siamo anzitutto perché come fratelli e sorelle della medesima comunità ecclesiale noi non andiamo in carcere a dare o proporre cose, ma andiamo a ricongiungerci con quella porzione di Chiesa e di umanità che è già là e non può venire da noi. Perché se non c’è comunione non c’è Chiesa. Non è l’attività di carità la motivazione di fondo, ma la comunione con una parte di noi che sta vivendo pubblicamente una dimensione di conversione e revisione della propria vita, ciò che è necessario a tutta la comunità cristiana. «Ero in carcere e siete venuti a visitarmi»: il Cristo è già là, non andiamo a portarlo noi, andiamo a incontrare Colui che si è identificato con il condannato e – almeno nella comunità primitiva – con il perseguitato.
Ci siamo perché la condizione di persona detenuta ci riguarda, è affare nostro. È qualcuno o qualcuna della nostra stessa famiglia che vive quella condizione. Ci riguarda anche se la persona non si riconosce appartenente alla Chiesa, perché comunque ogni figlio e ogni figlia di questa umanità è nostro fratello e sorella. In tutto ciò che è profondamente umano è in gioco il nostro Dio, che continua a prendere corpo in noi.
Cura dello spirito
Ci siamo perché crediamo sia necessario rendere alle persone detenute la cura dello spirito. Ci siamo quando si tratta di aiutare le necessità corporali, anche perché sappiamo che ogni qualvolta si affligge il corpo si affligge anche lo spirito. Ma anche viceversa, e non si può pensare di curare il corpo se non si consola – in senso forte – anche lo spirito. «Non solo mimosa», si chiama una delle iniziative più organiche e significative avviate alla Sezione femminile della Casa circondariale «Rocco D’Amato» di Bologna. Non solo un ricordo di circostanza una volta all’anno – benché ogni gesto abbia il suo valore – ma nemmeno soltanto un intervento simbolico. Qui c’è in gioco carne e spirito e la continuità, la perseveranza sono condizioni che ci diamo per questo incontro.
Il femminile nella Chiesa
La donna in carcere vive spesso il senso di abbandono e a volte vive il dramma dell’abbandono forzato dei propri figli. Non possiamo permettere che il nostro intervento come comunità cristiana si aggiunga nella sporadicità come un ulteriore abbandono. Piuttosto, vogliamo che tutto comunichi il messaggio che noi ci siamo e ci saremo. La donna in carcere ci urge a interrogarci come sia vissuto il “codice” femminile nella vocazione della Chiesa.
Ci siamo perché nella donna in carcere è manifesta la vocazione alla maternità, compromessa a volte sia per la condizione di separazione dai figli che il carcere comporta, sia perché la cesura esistenziale contenuta nel reato (c’è un prima e un dopo l’arresto) può causare o aver causato una sottrazione alla propria responsabilità di madre. In questo, ci lasciamo interpellare come Chiesa, madre, che è tentata sempre di abbandonare i propri figli che hanno mancato o lasciato, anziché moltiplicare nei loro confronti le premure materne (oltre che paterne) per non trovarsi essa stessa colpevole del fallimento della propria vocazione materna.
Ci siamo anche quando presentarsi come Chiesa in un contesto femminile, sia del carcere sia di altre situazioni ove prevalgono le donne, scopre le nostre inconsistenze e ci costringe a metterci in discussione. La “questione femminile” ci interpella anche quando andiamo a incontrare quella porzione di Chiesa che è in carcere: una comunità cristiana abitata prevalentemente da donne e “condotta” prevalentemente da uomini. Andiamo in carcere per dare di noi, e il carcere femminile ci restituisce l’invito a discutere chi sia quel “noi” che si presenta da loro. Che ruolo ha la donna nella comunità cristiana? Come è vissuta la”questione femminile” nella Chiesa? Quali sono i pregiudizi che ancora ci affliggono non solo nei confronti delle persone detenute ma nei confronti della donna in generale? Quanti miti della donna-peccatrice ancora da smascherare, quante diffidenze ancora radicate verso una Chiesa che pratichi il codice femminile e materno verso i propri figli.
Ci siamo nel concreto di attività organizzate, come il Progetto nazionale accoglienza che ha coinvolto 13 diocesi insieme alla Caritas e Migrantes per approntare soluzioni all’inaccettabile condizione di bambini reclusi insieme alle madri in istituti di pena ordinari. Come Chiesa di Bologna non abbiamo partecipato a questo progetto, ma ci siamo con una robusta presenza di volontari e volontarie e non solo per la celebrazione dell’eucaristia domenicale.
«Voi stessi date loro da mangiare»
Ci siamo stati e ci saremo anche nella celebrazione del Congresso eucaristico diocesano, dove quella porzione di Chiesa che è in carcere è stata chiamata a dare il proprio contributo insieme alle comunità che compongono la Chiesa di Bologna. Nel CED ci siamo da protagonisti, ben sapendo di essere, come tanti altri soggetti, anche bisognosi delle attenzioni della Chiesa, portatori di necessità e interpellanze. Portiamo domande concrete – non solo elemosine, ma anzitutto la dignità del lavoro – e tante istanze che mirano ad essere riconosciuti come persone, che stanno facendo – come tutti dovrebbero fare – la fatica di “rinascere”.
Bisognosi e affamati come le folle in ascolto di Gesù, che beneficiano della moltiplicazione dei pani, ci siamo e ci vogliamo essere anche come soggetti che partecipano portando la povertà dei propri pochi pani e pesci perché tutti possano mangiare in abbondanza. Il tratto femminile della Chiesa evoca la vocazione a nutrire attingendo da sé: «Voi stessi date loro da mangiare», come ogni madre che allatta. Ci siamo perché ci sentiamo anche noi invitati alla dignità di «dare noi stessi da mangiare», perché crediamo in quello che siamo anche quando in molti non credono in noi.
Misericordia è politica
Ci siamo perché crediamo che nel CED ci si dia appuntamento come Chiesa per un impegno di tenore politico: non ci basta l’elemosina, è necessario riconoscere e intervenire sui meccanismi che generano povertà ed esclusione e questo intervento non sarà mai “giusto” se non coinvolge chi ne è coinvolto al passivo. Papa Francesco – in particolare, ma non solo – ci invita spesso a coniugare insieme giustizia e misericordia, perché la misericordia non è il “di più” opzionale della giustizia, ma perché senza misericordia non c’è giustizia nemmeno politica o amministrativa. Per quanto possa essere discutibile pensare la giustizia in termini di codice maschile e la misericordia codice femminile, fosse anche, resta necessario combinarli entrambi perché i figli di questa Chiesa e di questo mondo possano uscire dall’esclusione causata dalla reclusione.
Nel nostro interesse, anche di Chiesa, noi ci siamo.
Intervento del cappellano della Casa circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna al convegno «Carcere e questione femminile: normativa, criticità e proposte. Un progetto per Bologna» (15 giugno 2017).
In questi giorno sto leggendo “le lettere di Lorenzi Don Milani Priore di Barbiana” e tra molte lettere che ha scritte, ce ne sono alcune riferite al suo amico e combattente per i diritti civili per gli emarginati, padre Bruno Borghi
La curisita e’ stata tanta che mi sono messa a leggere chi era Borghi, un ex sacerdote detto anche prete operaio.
Nel 1968 scese in campo per esprimere la sua solidarietà concreta a don Enzo Mazzi, che l’arcivescovo aveva allontanato dalla Comunità dell’Isolotto .
In seguito Borghi abbandonò il sacerdozio. Negli anni successivi, non venne mai meno il suo impegno nella società civile, a difesa dei settori più emarginati. Si impegnò tra l’altro come volontario, a fianco dei carcerati, nel carcere fiorentino di Sollicciano.
Negli ultimi 20 anni ha continuato a combattere per la questione CARCERE E CARCERATI e il loro maltrattamento.
Tra le tante battaglie che ha portato avanti c’è stata quella DELLE DONNE IN CARCERE COME MADRI.
Un articolo de “il Manifesto” del 6.12.05, dal titolo Non essere complici, meglio d’ogni altro discorso chiarisce il suo pensiero:
«“Un’ultima parola ai violenti e a chi li protegge. In fondo l’art. 27 della Costituzione ci comanda di liberare l’anima di chi ha commesso un reato, cioè di restituirlo alla libertà di cittadino; colpendo e violentando il suo corpo lo rendete ancora più schiavo. Dovevo queste parole a coloro che hanno subito le violenze, a coloro con cui parlo, che ascolto, con cui scambiamo esperienze e affetti, con cui sogniamo un domani diverso. Lo dovevo a loro e a tutti gli altri detenuti. Per non essere complice”.
Non c’è il tempo per ricordare tutte le battaglie che Bruno ha condotto dentro il carcere e per il carcere. Ma non posso tralasciare di ricordarne ancora una: quella per evitare che i lattanti e i bambini venissero ospitati in carcere, al seguito delle mamme che dovevano scontare la pena, “l’ingiusta e vergognosa condizione di bambini innocenti” come l’ha chiamata una volta. E mi chiedeva: possibile che non ci sia un articolo di legge che proibisca questo sconcio? Rispondevo che l’articolo c’era ed è quello che vieta di tenere in carcere qualsiasi persona che non sia stata legalmente condannata. Ma non c’è un articolo che consenta alle mamme condannate di seguire i loro bambini piccoli “fuori” dal carcere. Bruno aveva della maternità e dei suoi compiti un’idea così alta che il legislatore finora non l’ha nemmeno intuita…».
Ormai sono piu’ di 20 anni che è morto Bruno e siamo ancora qui a discutere sul diritto delle donne in carcere!!!. Secondo me Bruno che ci guarda dall’alto starà dicendo “come sono lenti”.