I ruoli nella comunità /6

di:

nardello1

Il famoso scrittore G.K. Chesterton nella sua opera La nonna del drago e altre serissime storie scrive: «L’orgoglio è un veleno così mortale che non solo avvelena le virtù: avvelena anche gli altri vizi».

Questa frase identifica in modo lapidario una delle situazioni più pericolose per la vita spirituale, quella nella quale si vive una fedeltà rigorosa a tutti gli aspetti della vita cristiana, ma non come frutto di una sincera e autentica conversione, bensì come espressione della propria perfezione personale.

Vigilare sulle proprie radici

Esiste una versione pseudo-cristiana dell’orgoglio che spinge ad innalzare sé stessi attraverso uno stile di vita formalmente ma rigorosamente fedele allo stile evangelico, ma in realtà motivato dal bisogno di costruire un’immagine grandiosa di sé. In questo senso – come scrive Chesterton –, l’orgoglio finisce per fare scomparire anche gli altri vizi, simulando così una vita molto virtuosa che, in realtà, non è affatto tale.

Questa situazione è molto complessa sul piano spirituale, perché la persona che vi si trova invischiata difficilmente si rende conto delle radici profonde del suo comportamento virtuoso, ma resta profondamente convinta di condurre una vita esemplare e di non doversi rimproverare nulla. Ovviamente continuerà a professarsi peccatrice, non però perché creda davvero di esserlo, ma semplicemente per risplendere davanti agli altri anche per la sua umiltà, e alimentare così il suo senso di grandezza.

Questa malattia interiore può toccare anche i pastori della Chiesa, a maggior ragione se sono stati formati a ritenere l’ordine sacro come una perfezione personale, cioè qualcosa che li pone in una condizione di maggiore dignità. È possibile, insomma, che l’ordinazione finisca per alimentare ulteriormente una radice di orgoglio, o che addirittura ne sia un’espressione particolarmente forte. In effetti, si può scegliere un ruolo di responsabilità nella Chiesa apparentemente per spirito di servizio, ma in realtà mossi dal senso della propria grandiosità.

A quel punto, si faranno tante cose buone, ma per motivazioni sbagliate e con stili che non edificheranno realmente nessuno. Si diventerà come un sole che risplende glorioso, magari impedendo di vedere tante altre luci meno appariscenti, ma che non ha la capacità di scaldare.

L’ammonimento di Gregorio Magno

Gregorio Magno identifica questa situazione di difficoltà spirituale in modo molto acuto quando consiglia ai pastori come ammonire le persone presuntuose. A questo riguardo, scrive: «[I presuntuosi], infatti, sono molto sicuri di sé e rimproverano sdegnosamente gli altri. […] Hanno una straordinaria altissima stima di tutto ciò che compiono. […] Per questo, chi deve riprendere le azioni dei presuntuosi, deve discuterle con grande sottigliezza per dimostrare loro che ciò in cui essi piacciono a sé stessi, dispiacciono a Dio. È allora infatti che li correggiamo meglio, cioè quando dimostriamo loro che quel che credono di aver fatto bene è fatto male, così che proprio di dove si crede di aver raggiunto la gloria provenga un utile turbamento» (Regola pastorale, III, 8).

In modo estremamente lucido, Gregorio coglie che per aiutare le persone che sono radicate nell’orgoglio occorre far capire loro che quello che credono di avere fatto di bene dispiace a Dio, dal momento che è stato mosso dal bisogno di esprimere la propria grandezza e non dall’amore.

La cosa è difficile, perché sul piano oggettivo le loro azioni saranno presumibilmente buone, se l’orgoglio avrà già avvelenato gli altri loro vizi. Occorre quindi che queste persone comprendano le motivazioni che stanno dietro alle loro azioni, cioè lo stile con cui le hanno fatte.

A quel punto, se coglieranno che tali azioni sono state frutto di una mentalità peccaminosa, quella dell’orgoglio, proveranno quell’utile turbamento di cui parla Gregorio, perché cominceranno a realizzare di essere realmente peccatori.

Un impegnativo esame di coscienza

Come si fa a rendersi conto di soffrire di questa difficoltà spirituale? Evidentemente non basta cercare di identificare dei comportamenti sbagliati, perché per orgoglio si saranno evitati accuratamente. Non è neppure sufficiente interrogarsi sulle motivazioni profonde del proprio agire, perché spesso non sono del tutto consapevoli, e riportarle alla luce richiede un percorso molto lungo e doloroso.

Un segnale molto importante che Gregorio ci suggerisce e che rivela uno stile di vita fondato sull’orgoglio è l’avere una grandissima stima per tutto ciò che si fa e un senso di tendenziale svalutazione per tutte le altre persone e il loro operato. Si deve fare eccezione per poche figure molto famose a cui in qualche modo si è legati (maestri spirituali, teologi, figure ecclesiali di rilievo ecc.), in quanto, esaltando queste figure, si esalta indirettamente sé stessi, compiacendo così il proprio orgoglio.

Dunque, secondo Gregorio, quando si ha la percezione di vivere in modo molto, molto virtuoso – per la propria ortodossia, il rigore morale, la capacità pastorale, l’amore per gli ultimi, l’attenzione alla legalità e alla giustizia ecc. – e si ha parimenti l’impressione di vivere in un mondo di sciocchi e di peccatori, forse il proprio mondo di perfezione personale è fondato sulla superbia.

Evitare di cadere o di restare invischiati in questa malattia dell’anima è particolarmente importante per i pastori, soprattutto in un contesto come il nostro nel quale le comunità cristiane devono riscoprire quanto prima la loro capacità di evangelizzare.

Quando la propria vita è mossa dall’orgoglio, si riesce benissimo a presiedere le azioni liturgiche – anzi, possono diventare un modo per celebrare sé stessi e non Dio –, ma non si riesce certo ad annunciare il Vangelo in modo efficace e ad evangelizzare le persone che non sono cristiane.

L’orgoglio consente di salvare l’apparenza, ma non la sostanza, anche della propria identità cristiana. E, in una Chiesa che non può più limitarsi ad offrire i sacramenti ma che deve praticare un annuncio fecondo della Parola, tornare a questa sostanza è decisivo.

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