Che la crisi si stesse risolvendo in qualche modo, e salvo complicazioni, è stato chiaro quando sulle agenzie ha circolato una dichiarazione di Pierluigi Castagnetti, antico esponente democristiano, che evocava un precedente significativo dei remoti anni ’70 del secolo scorso. Quando si trattò di dar vita al governo che sanciva l’alleanza – quella sì davvero una svolta – tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, il Segretario comunista Berlinguer avrebbe voluto che a Presidente del Consiglio andasse Aldo Moro, che portava la Dc ad allearsi con un partito, il Pci, che essa aveva combattuto dal 1947 ad allora.
Berlinguer voleva che a capo del governo della solidarietà nazionale andasse Moro, ma la Dc chiese che l’incarico venisse offerto ad Andreotti e Berlinguer accettò: questa la dichiarazione di Castagnetti rilasciata mentre erano nel vivo i negoziati per la guida del nuovo governo. Bastava mettere Conte al posto di Andreotti e prendere atto dell’assenza (giustificata) di Moro per avere la chiave della soluzione della crisi che avrebbe portato alla nascita del governo giallorosso, il primo tra avversari dell’attuale stagione politica italiana.
Analogia fondata
Naturalmente, come in tutte le evocazioni di precedenti storici, molti elementi non quadrano. Le figure di Conte e di Andreotti non sono sovrapponibili e non è in circolazione nessuna figura che abbia il carisma di Moro come garante di un’impresa che lo avrebbe esposto, come si vide il giorno della nascita del nuovo governo, al rischio di perdere la vita. Ma l’analogia mostrava un suo fondamento e, nella contingenza specifica, la si è potuta utilizzare come il segnale di una conclusione più vicina: un segnale, niente di più. Che forse solo alcuni addetti all’avvistamento hanno potuto leggere nel senso giusto.
Per il resto, la crisi ha avuto uno sviluppo proprio e originale, a partire dalla sua strampalata origine extraparlamentare e poi in un doveroso riscatto parlamentare, passando dalla dirompente richiesta iniziale (i “pieni poteri” secondo Salvini), al suo drammatico svolgimento in Senato, con la requisitoria del premier Conte nei confronti del promotore Salvini e il relativo dibattito che ha messo in luce convergenze e divergenze utili per i successivi approfondimenti. In particolare, ha messo a fuoco le differenze di sostanza tra le forme della democrazia parlamentare e la sommarietà di certe impostazioni sovraniste tornate in voga negli ultimi tempi.
Tensioni e ripescaggi
Si sono sviluppati poi i contatti formali e informali tra le forze politiche interessate alla costruzione del governo, il M5s e il Pd, con una convergenza ostacolata, sulla destra, dall’offerta di Berlusconi per una riedizione di una coalizione “classica” di centrodestra, e insidiata sul fianco destro dei grillini dalla tardiva ma non meno aggressiva suggestione della Lega per un governo fotocopia di quello caduto. Con una progressiva descalation delle pretese leghiste dai pieni poteri per Salvini, ad una riedizione della stessa maggioranza del governo sfiduciato ma con la figura del presidente depotenziata: dal già aborrito Conte al ripescato Di Maio.
Erano sintomi di una condizione di progressivo indebolimento della prospettiva leghista malgrado l’euforia indotta dal risultato leghista alle elezioni europee e il successivo innalzamento dei livelli dei sondaggi. Tanto da lasciar intendere che l’insistenza dei leghisti per le elezioni immediate non era un segno di forza ma un indice di timore percepito.
Il rifiuto delle elezioni anticipate è stato il denominatore comune della piattaforma politica su cui nasce il nuovo governo. Non sono mancate scosse di assestamento nei vari gruppi politici ma alla fine si sono stabilizzate due grandi aggregazioni: una attorno alla Lega, che reclamava il voto immediato, e una attorno al duo Pd e M5S per la nascita di un governo che non avesse come fine primario il ricorso alle urne.
Su questa piattaforma ha potuto lavorare il Presidente della Repubblica, facilitato anche, a differenza della situazione post-elezioni del 2018, dalla minore disomogeneità programmatica constatabile tra le due forze politiche che convergevano sull’esigenza di non troncare la legislatura.
Punti chiariti e punti ingarbugliati
Sul punto, strada facendo, si era acquisito anche il parere del Presidente della Camera, Roberto Fico, il quale, officiato non si sa con quanto entusiasmo per fare il Presidente del Consiglio, aveva risposto che preferiva continuare a lavorare nell’incarico ricoperto attualmente, quello, appunto, di Presidente della Camera, ossia della Camera attuale, non di un’altra tutta da eleggere.
Fin qui la narrazione dei fatti con qualche interpolazione retrospettiva. L’apparenza, rispetto a precedenti più tumultuosi, è quella di uno svolgimento tutto sommato lineare. Ma ciò non deve trarre in inganno perché, superato lo scoglio dell’intesa sull’eliminazione delle elezioni anticipate, non sono mancati scontri che hanno concorso a chiarire questioni di rilevante portata mentre, forse, ne hanno ingarbugliate altre.
Tra le prime si deve constatare che forse (il dubbio è obbligato) è stata un po’ attenuata la pressione dei 5stelle per il taglio numerico di parlamentari, proposta all’inizio come pregiudiziale e successivamente integrata da elementi di riflessione utili per trovare una soluzione costituzionalmente fondata. Tra le altre, solo per fare un esempio, le scontata diatriba sulla scelta dei nomi e degli incarichi (se, ad esempio, Di Maio potesse fare il vicepresidente in un governo in cui non c’erano più ragioni per giustificare l’esistenza di due funzioni vicarie).
Il Presidente rinforzato
Una segnalazione da fare riguarda il mutamento di figura del Presidente del Consiglio, trasformato, nel giro di un anno, da re travicello in balìa dei soffi dei venti dei due azionisti che componevano la maggioranza ad elemento di equilibrio confortato anche da validi accreditamenti internazionali, incluso un estemporaneo endorsement del presidente Trump.
Altro è il discorso da fare sulla qualità delle soluzioni che si prospettano e con esse la qualità della classe dirigente che si conferma o si ripropone alla ribalta.
Prendo la parola su questi argomenti con l’esperienza di un veterano che, come suol dirsi, ne ha viste tante e ha tanti ricordi da mettere sul tavolo. E non può nascondere una certa nostalgia di piattaforme programmatiche come quelle su cui nacque il centrosinistra negli anni ’60, per tacere dell’ammirazione che conserva per gli uomini che ebbero la responsabilità di guidare il paese alle origini della Repubblica. Ma non è con i sentimenti che si cambiano le cose.
Ignoranza democratica
Per questo il metro di valutazione del nuovo governo non potrà essere apprezzato se non in ragione della solidità degli impegni che assumerà per la formazione civica delle nuove generazioni, da realizzare con intensità, continuità e verificabilità. Il dibattito pubblico di questa crisi di governo ha messo in luce l’esistenza di una larga ignoranza popolare sulla struttura delle istituzioni nelle quali si esercita la sovranità popolare, così come è scritto nella Costituzione. Da Berlusconi in giù, passando per Salvini e Meloni, c’è una vasta pedagogia politica che parla di «governi eletti dal popolo», una posizione che fa strame della Costituzione e del suo messaggio culturale.
Correzione necessaria
Rendersi conto di questa situazione e porre mano alla sua correzione è il minimo che possa essere richiesto a quanti hanno a cuore la salvaguardia e lo sviluppo della forma parlamentare della democrazia, l’unica che abbia bisogno di un “popolo educato” per vivere in un clima di libertà.
E qui c’è uno spazio d’impegno particolare per i movimenti della società civile nella costruzione di un intreccio positivo con le forme e le istituzioni della politica. Un tema più volte esplorato in passato e ora da riesaminare anche alla luce delle vicende che hanno coinvolto il più radicale dei movimenti espressi dal populismo italiano, il quale riconosce di essersi trasformato ma non spiega il senso della trasformazione e non rivede il senso del proprio impegno istituzionale.
Gesu’, i poteri religiosi, la politica
Agosto 30, 2019 / gpcentofanti
Interessante meditare su come Gesù viveva i rapporti con i vari orientamenti, con i poteri, religiosi, con la politica.
Dialogo, comprensione, accompagnamento verso una crescita. Così anche gradualità di un percorso, passaggi personalissimi, ben oltre schemi astratti. Pensiamo a Nicodemo. Cristo era vicino a ciascuno, orientava verso le chiavi profonde di sblocco della maturazione di ciascuno. Non era in guerra con alcuni né ingenuamente associato e alfine manipolato da altri. Mostrava un profondo, equilibrato, discernimento sui tempi, sui modi, sulle piste, anche del rapportarsi ai poteri. Dialogare, condividere, pazientare, stimolare… Certo essendo Dio poteva avere un sintonico polso della situazione non facile ad una mera creatura umana. Ma anche era capace di ascoltare, di imparare da ognuno. Come vediamo in tanti episodi della sua vita: con i dottori del tempio, con Giovanni Battista…
Rileviamo come la sua autentica sequela poteva aprire ad un rinnovamento non solo personale ma anche comunitario. Liberando tra l’altro nell’intimo dalle logiche di apparato, dalle parole d’ordine, che distingueva dalle persone e dal loro realistico percorso: “date a Cesare…”. Mentre tante meschinità gli hanno impedito di poter rinnovare ancor più la vita di tutto un popolo. Al tempo stesso non è stato un perfezionismo da energumeni a collaborare con lui ma la semplice piccolezza in fondo desiderosa di lasciarsi aiutare. E conforta il constatare che in mezzo a certa possibile cattiva miseria la storia della salvezza tesseva paziente la sua meravigliosa tela: http://gpcentofanti.altervista.org/dove-viene-il-regno-di-dio/