La sorte di Gaza e la politica del “mondo arabo”

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Una tendopoli per sfollati sulla spiaggia di Gaza City, 10 agosto 2025 (AP Photo/Jehad Alshrafi)

Il disastro-Gaza domina gran parte delle prime pagine arabe, con la dichiarazione dell’ONU che a Gaza è carestia causata dall’uomo, con la netta presa di posizione da parte di 21 Paesi guidati da quelli europei contro il nuovo insediamento in Cisgiordania che renderebbe impossibile ogni continuità territoriale per uno Stato palestinese.

Molto spazio in questi giorni ha avuto anche il sondaggio Reuters-Ipsos che ha indicato (con un margine d’errore presunto del 2%) che il 58% degli americani ritiene che andrebbe riconosciuto lo Stato palestinese e la notizia che il ministro degli Esteri saudita prima ha usato il termine «genocidio» riferendosi a Gaza, poi che il suo Ministero ha affermato che la carestia resterà come una macchia sulla coscienza della comunità internazionale.

Ma c’è qualcosa d’altro oltre a denuncia, rabbia, dolore?

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Ho trovato interessante l’articolo di una grande firma palestinese, Lamis Andoni, un nome molto noto. Giornalista e docente di origini cristiane, palestinese con cittadinanza giordana, ha vissuto a Londra e Boston, ha insegnato alla Graduate School of Journalism all’Università di Berkeley, la sua firma è apparsa sul Christian Science Monitor, The Financial Times e altre testate. Ha svolto ruoli apicali ad al-Jazeera e a The New Arab, entrambe basate in Qatar.

È su quest’ultimo giornale che con la sua cultura, che chiamerei «radical» ma in senso laico, non certo religioso, ha scritto di Gaza. Un lungo articolo, molto duro nella denuncia di quanto accade e delle sue conseguenze, ma rilevante a mio avviso soprattutto per ciò che dice in questo frangente dei Governi arabi. Il titolo è: «La Grande Israele divora la Palestina, i regimi arabi pensano che il futuro giaccia sulla morte di Gaza». Nel testo scrive:

«Mentre centinaia di migliaia marciano nelle strade delle città europee e latino-americane, come anche nel cuore degli Stati Uniti, cantando “viva la Palestina” e “il mio sangue è palestinese”, queste proteste sono proibite nelle capitali arabe. Anche alzare una bandiera palestinese è punibile in alcuni Paesi arabi. La semplice menzione della Palestina è sparita dai festival culturali e musicali arabi, e quegli artisti che dimostrano la loro solidarietà ora ne pagano il prezzo. I Paesi arabi spengono la luce perché temono si accenda la fiamma del cambiamento nelle loro società, sebbene non vi sia alcuna opposizione che cerchi di rovesciarli (o che sia abbastanza forte da farlo)».

Qui si fa emergere un problema antico e decisivo, i «regimi»: leggendolo solo con la cronaca si potrebbe dire che Andoni non dia particolari crediti all’iniziativa franco-saudita, quasi che l’idea di un riconoscimento dello Stato palestinese all’Assemblea generale dell’ONU di settembre ormai alle porte non possa produrre risultati davanti a quanto accade. Forse questa volta Riad meritava qualche credito arabo? Il punto è che stenta a emergere il fatto che l’espressione «mondo arabo» è sempre più vaga, esistono sempre più evidentemente diversi Governi con diverse strategie e diverse agende nazionali, fatte anche di «pragmatismi».

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La paura del fondamentalismo islamista da tempo è diffusa. E questo è parte importante di alcune reticenze sull’iniziativa franco saudita per il riconoscimento dello Stato palestinese. È anche vero però che in Egitto – dove il governo è vicino ai sauditi e che sappiamo aver a lungo speculato sui visti concessi a chi voleva uscire da Gaza, concedendoli a suo tempo soltanto tramite un esponente legato personalmente al presidente e a costi altissimi – è poi accaduto altro: l’Università islamica di al-Azhar aveva pubblicato un suo documento ufficiale nel quale, davanti al dramma degli aiuti umanitari che non riuscivano ad entrare a Gaza (eravamo alla vigilia dell’inizio del lancio di pacchi con generi alimentari su Gaza), chiedeva la riapertura del valico tra Egitto e Gaza, il valico di Rafah.

Ma poteva suonare critico dell’Egitto, forse favorire gli islamisti e così il Governo ha chiesto e ottenuto il ritiro del documento, poco dopo la sua pubblicazione. Questo si può anche capire, il rischio c’è; ma non si può capire anche chi sostiene che così l’islam ufficiale difficilmente recupererà terreno? Tutto è complesso quando dietro l’angolo si vede il rischio incendiario davanti a un pagliaio vecchio un secolo.

Lamis Andoni ha toccato, seguendo la sua visione, un tasto assai complesso, il cui significato è talmente profondo da non poter essere commentato in modo esplicativo in un solo articolo perché richiederebbe di spiegare tutta la drammatica storia del Novecento arabo, che ancora non finisce, con la sua perdurante guerra fredda e con i suoi perduranti totalitarismi.

Si tratterebbe di ricostruire la nascita dello scontro frontale tra panarabismo laico, poi deragliato in diversi totalitarismi golpisti, e panislamismo, che prima ha conquistato ampi spazi nei palazzi reali del Golfo, poi ne è stato espulso dopo l’11 settembre, e oggi resiste nel movimento anti-sistema che inquieta entrambi.

Bisognerebbe seguire troppi fili, troppi bivi, ma forse val la pena ricordare che alla fine dell’esperienza coloniale – che ai suoi albori determinò l’emergere del primo islam politico dopo un promettente Ottocento – la speranza stava nella capacità dei governi laici di redistribuire con i poveri i dividendi della decolonizzazione. Non andò così e si rafforzò il discorso radicalizzante l’islam politico, che si può riassumere così: «La giustizia sociale verrà con la sharia» (legge religiosa). Un avvitamento gravido di conseguenze.

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Se l’11 settembre è stato un punto di arrivo e di svolta inversa – col tempo il discorso nel Golfo è cambiato molto, un’ inversione di marcia che però non ha dato vita a un nuovo discorso politico pluralista – il 2011 è stato l’anno che con la Primavera ha tentato di creare un nuovo discorso pubblico, diciamo «cittadino», e nonostante gli odi arabi tra gli opposti regimi è stato congiuntamente respinto, con sorprendente inadeguatezza occidentale a capire la posta in gioco e come il terrorismo venisse usato, nell’oscura cloaca che lo circonda, da regimi in urto frontale ma convergenti contro il nemico comune: la Primavera, portatrice del «rischio pluralista». Lì si poteva vedere un’idea di cittadinanza e di una democrazia colorata di islam, come da noi è colorata di radici cristiane.

La primavera araba, mandata con islamo-scetticismo nel cassetto dei sogni impossibili da molti in Occidente, avrebbe potuto curare l’ascesso dispotico e avviare una dialettica politica, quindi sana, anche quella tra radicali e riformisti. Non è andata così. E oggi appare logico farsi la domanda: i lettori arabi si soffermeranno sulle parole di critica a Israele scritte da Lamis Andoni, anche sotto la potente onda emotiva del momento, o daranno peso a quelle che li allontanano dai regimi? E c’è in qualcuno di loro l’idea che anche i popoli potrebbero far sentire la loro voce per una pace reciprocamente rispettosa?

Riad, ferma a un dirigismo tecnocratico e solo dall’alto, come altre corone teme ogni iniziativa dal basso, soprattutto per paura dell’islam politico, o anche – almeno in prospettiva – della «società civile» e dei suoi possibili prodotti. La differenza con altre corone c’è, ed è evidente per l’iniziativa assunta con Parigi, ma non sul considerare l’islamismo come un pericolo prioritario. Così tutto resta nel dirigismo (in queste ore è stata eseguita la condanna a morte di un saudita che quando commise ciò di cui è imputato era minorenne. Lui, Jalal Labbad, era accusato di terrorismo e originava nella minoranza sciita).

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Forse un indizio di richieste diverse della popolazione di Gaza si può cogliere in quanto scrive, sempre su The New Arab, il direttore di Tasamuh (vocabolo arabo il cui senso oscilla tra tolleranza e generosità) e residente a Gaza, Tahal Abu Rukba. Il suo articolo viene presentato come richiesta ai movimenti di solidarietà di isolare economicamente Israele; questo c’è ovviamente, ma l’autore scrive anche altro:

«Dopotutto, molti a Gaza, specialmente le giovani generazioni, desiderano raccontare la storia dei palestinesi e si aggrappano al loro diritto di essere i narratori della loro dura realtà. Nel corso del genocidio, il mondo ha assistito alla passione e alla creatività di questi giovani attraverso i loro scritti, che hanno fatto da contrappeso alla passività e al senso di impotenza che Israele cerca di imporre ai palestinesi. I messaggi scritti al mondo da sotto le macerie e da sopra i detriti, che hanno collegato i palestinesi a persone provenienti da ogni angolo della terra, hanno anche forgiato una solidarietà culturale».

Solidarietà culturale forse vuol dire anche raccontare un’altra Gaza, quella che è stata la porta d’accesso al Levante. Per chi cerca di garantirsi un futuro, a dir poco in dubbio, sentirsi riconoscere un passato parlerebbe di futuro? Raccontare la storia di Gaza, antica porta d’accesso al Levante contesa da Faraoni, Persiani, Greci, Bizantini e Ottomani, acquisterebbe un sapore non solo culturale, ma anche esistenziale?

Tra le tante iniziative sportive promosse dalle corone del Golfo, Lamis Andoni ci fa comunque pensare che se il radicalismo taglia con nettezza nodi complessi, qualche festival su Gaza, sulla sua storia, sul ruolo che ha avuto nel mondo, darebbe un volto a quella terra, a chi la abita, e forse rafforzerebbe, partendo dal passato, la speranza di un futuro, che i giacimenti di recente scoperti al largo di Gaza dicono essere possibile nella connessione, nello scambio, nell’incontro, nel reciproco riconoscimento. Questo il discorso che è difficile far emergere tra le paure prevalenti. Eppure gli appelli di personalità delle tre fedi ne indica l’importanza.

Chi forse ha detto quel che potrebbe servire è Jean Pierre Filiu, che dopo un mese trascorso con Medici Senza Frontiere a Gaza ha dichiarato a Le Monde: «È imperativo per Gaza di tornare al mondo e per il mondo di tornare a Gaza. Poi tutto sarà possibile, nella cornice di Israele che coesiste con un pacifico, smilitarizzato Stato palestinese».

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