
Nelle ore appena trascorse il percorso politico compiuto da Abdullah Ocalan e faticosamente condiviso negli anni con i vertici del suo partito, il PKK, ha portato a un evento di cui è difficile trovare precedenti così eclatanti: i militanti del suo disciolto partito hanno cominciato a distruggere le loro armi, nel corso di una cerimonia pubblica che ha avuto luogo in una cava di Jasana, a cinquanta chilometri dalla città di Sulaymaniya nel Kurdistan iracheno.
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Leader curdo, nato nel 1948, Abdullah Ocalan è stato il fondatore del PKK, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, e dal 1999 è detenuto nel penitenziario di massima sicurezza di Imrali, dove a lungo è stato l’unico ad esservi detenuto. La sua azione può essere riassunta in poche parole: ortodossia marxista-leninista e lotta armata contro i turchi per conseguire l’indipendenza curda.
Durante gli anni della sua interminabile detenzione, che prosegue, Ocalan ha portato a trasformare il loro paradigma politico: dal separatismo etnico Ocalan è arrivato alla cittadinanza, corredata da una forte impronta femminista e ambientalista.
Per Ocalan non si tratta di prendere atto di una sconfitta, ma di una vittoria: i curdi sono stati riconosciuti, la lotta armata non ha più motivo d’essere. La sua elaborazione, come traspare dai suoi discorsi più recenti, lo ha portato a sostenere che lo Stato non deve essere etnico, comunitario, confessionale, ma plurale (all’inizio si parlò di opzione confederale). I curdi, dunque, sono chiamati a proseguire il loro impegno sul piano politico, con la forza delle idee e dell’impegno civile all’interno dello Stato di cui sono cittadini.
L’idea di «vittoria» evocata da Ocalan è molto diversa da quella usuale, come è diversa però quella a cui ha fatto riferimento il suo «interlocutore-rivale», il presidente Erdogan, il quale ha parlato di «piena vittoria», evocando poi «una Turchia diversa da quella che conosciamo» nella quale – stando alle sue parole – «turchi, curdi e arabi saranno concittadini», fratelli.
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In un mondo dilaniato da conflitti sempre più feroci, impressionanti, la scelta dei curdi può lasciarci sorpresi, increduli. Davvero non è una resa, la presa d’atto di una sconfitta «totale»? Senza impiegare una parola è difficile capirsi.
Se leggiamo una qualsiasi cronaca dei mille conflitti in corso, tremendi, ci rendiamo conto che le parole impiegate per definire le azioni militari abbondano: si parla di azione, reazione, rappresaglia, offensiva; il vocabolo che manca, che raramente viene impiegato è «violenza».
Per il grande antropologo francese Renè Girard la violenza è mimetica. Ovviamente il mimetismo porta un configgente a colpire e l’altro a reagire analogamente, e così via. Ma il mimetismo di Girard non è tutto qui.
Girard indicò il cuore mimetico dell’attentato più terrificante di Bin Laden, quello che distrusse le Torri Gemelle. Girard partiva dal «desiderio mimetico», la sua teoria fondamentale, per la quale noi desideriamo ciò che desiderano gli altri, arrivando quindi alla violenza mimetica, dove si tenta di superare il rivale nel raggiungimento del desiderio imitato.
«L’errore di sempre è di ragionare secondo le categorie della “differenza”, mentre la radice dei conflitti è piuttosto quella della “concorrenza”, la rivalità mimetica tra gli esseri, i Paesi, le culture. La concorrenza, ossia il desiderio di imitare l’altro per ottenere la stessa cosa che ha lui, all’occorrenza anche tramite la violenza. Senza dubbio il terrorismo ha radici in un mondo “differente” dal nostro, ma ciò che suscita il terrorismo non è da ricercare in questa “differenza” che lo allontana sempre più da noi e ce lo rende inconcepibile. È al contrario da ricercare in un desiderio esacerbato di convergenza e rassomiglianza. I rapporti umani sono essenzialmente dei rapporti di imitazione, di concorrenza. Ciò che abbiamo oggi sotto gli occhi è una forma di rivalità mimetica in scala planetaria. Quando ho letto i primi documenti di Bin Laden e ho riscontrato i suoi accenni alle bombe americane cadute in Giappone, ho capito ad un tratto che il livello di riferimento è il pianeta intero, ben al di là dell’Islam. Sotto l’etichetta dell’Islam c’è una volontà di collegare e mobilitare tutto un terzo mondo di frustrati e di vittime nei loro rapporti di rivalità mimetica con l’Occidente. Ma nelle Torri distrutte lavoravano sia stranieri che americani».
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La svolta compiuta e fatta compiere ai suoi da Ocalan non si spiega se non si restituisce centralità alla parola «violenza» e quindi alla non-violenza come vera alternativa. Ocalan nei fatti l’ha portata avanti grazie alla teoria del «riconoscimento». Il punto importante del suo discorso a me sembra questo: noi prima eravamo negati, e per questo eravamo obbligati alla violenza. Ora che siamo riconosciuti la violenza non ha più giustificazioni. Dunque una volta riconosciuti tutto cambia, i curdi non hanno più bisogno di uno Stato solo loro, possono coesistere con altri in uno Stato plurale, democratico, che Ocalan vorrebbe di conseguenza anche femminista e ambientalista.
Nel suo discorso la parità uomo-donna si appaia, o almeno così sembra, al superamento dell’antropocentrismo sottolineando anche la necessità di rispetto della natura, dell’ambiente, si potrebbe dire di «tutto il creato».
Si può dire, per semplificare, che Ocalan dica ai curdi di non offrire più pretesti all’estremismo, all’integralismo, all’identitarismo turco? Forse è una semplificazione che ha un’efficacia. Senza un estremo anche l’estremo opposto perde senso, valore.
Ma può non essere un’esagerazione scorgere l’influenza di Renè Girard dietro le scelte di questo detenuto in totale isolamento dal 1999. Ipotizzarlo può spiegare alcune possibilità insite nella nuova linea di Ocalan andando a rileggere come le teorie di Renè Girard hanno avuto un’influenza molto forte in uno dei principali protagonisti della scena politica libanese, Samir Frangieh, maronita. Il suo Paese è stato tormentato dalla violenza e da una guerra civile durata 15 anni. Dopo la guerra Frangieh ha scritto:
«Queste idee di Renè Girard hanno dato un nuovo indirizzo al mio impegno per il dialogo. Tra musulmani e cristiani, tra libanesi e libanesi, tra libanesi e siriani. Per fermare la violenza infatti cosa dobbiamo fare? La Pace? Ma quale pace? Una pace gloriosa, la pace dei coraggiosi, o una pace banale, meschina? E in questo caso che fine faranno i grandi principi per i quali ci siamo allegramente massacrati per decenni? Mi è servito molto tempo per capire che il contrario di “violenza” non è la “pace” cioè la pace tra comunità, ma il legame, cioè il legame tra individui appartenenti a diverse comunità o gruppi. Così ho capito che pacificato il Paese l’obiettivo del nostro dialogo non doveva essere quello di cercare un compromesso, ma di definire un progetto di vita in comune. Ecco l’idea del vivere insieme, profondamente diversa da coesistenza comunitaria».
Non so dire né immaginare se Ocalan sia giunto qui, ma l’idea del vivere insieme nei suoi discorsi si può, forse, scorgere. Sarebbe l’esito fruttuoso di una stagione tremenda.





