Balmamion: quando un italiano vinceva il Giro

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Franco Balmamion, piemontese, classe 1940, si è aggiudicato i Giri d’Italia del 1962 e del 1963. È il più anziano vincitore del Giro vivente. Mentre sta partendo l’ultima tappa dell’edizione 2025 della corsa rosa – con transito dalla Città del Vaticano in ricordo di papa Francesco – lo intervistiamo sulla sua storia, sulla sua carriera sportiva, sulla fede.

  • Franco, quali sono le persone importanti della tua vita?

Mi manca mia moglie, Rosanna, dal 30 dicembre del 2018, dopo 56 anni passati insieme, tra fidanzamento e matrimonio.

  • Vi siete conosciuti nell’ambiente ciclistico?

In agosto del 1962 ero in ritiro con la squadra, in vista dei mondiali di Salò, in un paesino piemontese di mezza montagna, Viù. Alla sera si usciva a fare due passi e ci si mischiava con i giovani del posto; ci si fermava in qualche bar, si giocava insieme a calciobalilla e si ascoltava qualche canzone col jukebox.

Portavamo la tuta col marchio dello sponsor. Rosanna mi ha riconosciuto come un corridore, ma nulla sapeva di ciclismo; perciò, mi ha chiesto chi avesse vinto quell’anno il Giro d’Italia: io non gli ho risposto nulla, perché l’avevo vinto io e mi vergognavo a dirlo.

Proprio quel giorno non avremmo dovuto essere lì, bensì a Prato per una gara a cui il direttore sportivo, all’ultimo, ha deciso di rinunciare. La vita è un destino o molto di più: così è avvenuto l’incontro della mia vita.

  • Mamma, papà?

Sono nato nel 1940 in periodo di guerra. Vagamente ricordo il giorno del ’43 in cui hanno riportato a casa le spoglie di mio papà. Papà era stato richiamato nel Corpo dei Vigili del Fuoco ed è morto in seguito ad un bombardamento su Torino. È un ricordo vago ma fisso nella mia testa: una presenza che non mi ha mai abbandonato.

Sono cresciuto con la mamma, mia sorella e la nonna, la madre di mio papà. Poiché mio papà aveva fatto il calderaio e aveva un negozio di articoli per la cucina, ho aiutato la mamma, sin da bambino, a portare avanti l’attività di cui si viveva: oltre a lavorare in casa, si andava nei paesini dei dintorni a stagnare il rame, a fare riparazioni, a vendere qualcosa. Ora ho una figlia, un figlio e i nipoti: tutta la mia famiglia.

  • Scuola e lavoro?

Ho fatto le elementari e 3 anni di scuola di “avviamento commerciale”. Poi ho iniziato a lavorare come dipendente: prima come idraulico e, a 15 anni, in una ditta che produceva tappeti nella quale mi occupavo della manutenzione delle macchine; ci sono rimasto 3 anni circa. Nel mentre ho iniziato a correre in bicicletta. Nel ’59, a 19 anni, sono diventato dipendente della FIAT come “atleta”, con alcune attenzioni che erano allora dedicate ai lavoratori-atleti, che pur erano tenuti a lavorare.

***

  • Come è iniziata la tua storia in bicicletta?

Avevo uno zio, fratello di mio papà, che aveva partecipato al Giro d’Italia come “indipendente”, cioè senza appartenere ad una squadra (allora era possibile) e si era piazzato al 5° posto nella classifica finale. Gestiva una piccola impresa per conto della FIAT a Torino. È stato lui a “mettermi in bicicletta”. Secondo le regole di allora, dai 16 ai 18 anni ho gareggiato come allievo, dai 19 ai 20 come dilettante; dai 21 anni come professionista.

  • La passione era tanta?

La passione mi è stata trasmessa dallo zio. Anche l’altro fratello di mio padre era un grande appassionato di ciclismo. Le corse in bicicletta erano molto sentite nella famiglia di mio papà così come da tanta gente del posto. Ricordo che, quando andavo al seguito dello zio nei vari paesi, la gente ancora lo acclamava per quel 5° posto al Giro d’Italia: gli gridava: «Balma! Balma!». Impossibile, per me ragazzino, non avvertire tutto questo entusiasmo.

  • E la mamma, invece, come la prendeva la bici?

Ah, la mamma non voleva assolutamente saperne! Pensa che mi ha strappato persino il “tesserino del corridore” che ho portato a casa la prima volta. Aveva soprattutto paura delle cadute.

Del resto, mio zio aveva portato per tutta la vita un segno evidente – proprio in faccia – di una brutta caduta in corsa. Mia mamma ci pensava. Forse considerava anche il fatto che, allora, qualcuno vedeva i corridori come giovani che non avevano voglia di lavorare e che preferivano “girare” in bicicletta.

Mia mamma è venuta una sola volta a vedermi in gara: alla prima tappa del Giro d’Italia del ’61 – Giro del centenario – partita da Torino con arrivo a Torino. Era il primo Giro d’Italia per me, la prima tappa: sono arrivato secondo dopo essere passato primo sul passo di montagna; poi mia mamma non è venuta più a vedermi.

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  • Brutte cadute ne hai fatte anche tu?

Le più brutte, sono state due: una da dilettante e l’altra al Tour de France del 1963, dopo aver vinto il mio secondo Giro d’Italia. Alla quarta tappa si arrivava a Roubaix, sulle strade in pavé. Su quel percorso era facile scassare la bicicletta. Mi si è rotto il cambio della bici, la catena si è attorcigliata ed è finita tra i raggi della ruota posteriore che si è bloccata d’un colpo: ho fatto un salto su me stesso in volo prima di sbattere a terra. È ancora possibile vedere le immagini di quella caduta: si vedono i compagni che mi circondano e l’ambulanza che mi carica; ma mi ero già rialzato da solo.

Ricordo poi la caduta al Giro del 1971. Era la tappa da Potenza a Benevento. Il gruppo era in vista di un traguardo intermedio in cui si potevano vincere premi in natura, ad esempio roba da mangiare. Un cane ha attraversato la strada e siamo caduti in diversi. Sono giunto lo stesso all’arrivo, ma con una spalla rotta: è stata una delle tante cadute che capitano ai corridori. Ma mia moglie era allora incinta del mio secondo figlio: quando ha saputo, si è spaventata e quella notte ha partorito. È andato tutto bene. Ma è stata quella caduta, a 32 anni, dopo quasi 12 anni di carriera tra i professionisti, che mi ha fatto cominciare a pensare di smettere di correre in bicicletta. Il mio ultimo Giro fu quello del 1972.

  • Hai tifato per Coppi o per Bartali da ragazzino?

Ero un ragazzo dell’Azione Cattolica e tra noi era normale tifare per Bartali, anche se mai nessun prete o nessun altro mi ha mai detto che dovevo farlo. Bartali l’ho poi conosciuto da direttore sportivo della San Pellegrino. Avrei potuto passare professionista con la sua squadra, ma le cose sono andate altrimenti.

  • E come sono andate?

Ho scelto la Bianchi come mia prima squadra da professionista e poi la Carpano al secondo anno, perché ho pensato di avere più libertà di esprimermi piuttosto che in altre in cui c’erano corridori già affermati: certo, nella Carpano, c’era il grande Nino Defilippis, ma era un corridore che aveva caratteristiche diverse dalle mie: era in grado di vincere tante tappe, ma meno adatto per fare la classifica; io invece ero uno “regolare”, adatto proprio per la classifica, tanto è vero che ho vinto 2 Giri d’Italia, ma neanche una tappa.

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  • Raccontaci un poco la tua prima vittoria al Giro del ’62.

Nella seconda tappa, da Salsomaggiore a Santa Margherita, ho perso 10 minuti: tanti! Chissà perché, in ogni Giro che ho fatto, nelle prime tappe avevo sempre una crisi da cui poi mi riprendevo: le crisi iniziali mi davano però motivo di riscattarmi in seguito. È andata così quell’anno.

Bisogna dire che era tutto un altro ciclismo rispetto ad oggi: tutti i giorni partivano dal gruppo fughe che, nella maggior parte dei casi, andavano all’arrivo, con la possibilità, ogni volta, di stravolgere la classifica dei primi in classifica. Le cose hanno iniziato a cambiare in seguito, con l’avvento di Eddy Merckx.

Proprio perché ero dato, in buona misura, per “perso”, il dirigente della Carpano, Vincenzo Giacotto, ha dato a Defilippis il compito di puntare alla classifica, piuttosto che alle vittorie di tappa. Il mio compito era diventato, invece, quello di entrare nelle fughe di giornata. Ricordo la tappa in cui ero davanti sul passo Rolle e la tappa è stata sospesa per la neve. Ho recuperato comunque minuti in classifica, in quella tappa. Poi ricordo la tappa con arrivo a Pian dei Resinelli: anche là ho guadagnato diversi minuti sui rivali.

Alla volta della tappa di Casale ero 7° in classifica mentre il mio compagno Defilippis era 4°: è stato lui ad andare in fuga quel giorno – con la maglia della Carpano anziché quella di Campione Italiano che indossava di diritto, per dare meno nell’occhio –, così ho potuto correre al “contrattacco”: alla fine ho preso 6 minuti di vantaggio, ho recuperato i circa 4 minuti che avevo ancora di svantaggio e ho preso la Maglia Rosa con 2 minuti e passa sul secondo. Ho vestito la Maglia Rosa negli ultimi 6 giorni, badando a non farmi staccare più: ho vinto con 3 minuti e 47 secondi su Imerio Massignan della Legnano; terzo il mio compagno Defilippis.

  • E il Giro vinto nel 1963 come è andato?

Ripetersi è difficile, perché si è più controllati. Peraltro, quell’anno c’era Vittorio Adorni – poi secondo in classifica – che andava molto forte. Ho preso, la prima volta, la Maglia Rosa in Svizzera nella tappa di Leukerbad; dopo qualche giorno l’ho persa a Treviso, nella gara a cronometro successiva al giorno di riposo, giorno in cui è arrivata la notizia della morte di papa Giovanni XXIII (3 giugno 1962) con una grande impressione su tutti.

Dopo la cronometro c’erano ai primi posti della classifica 5 corridori compreso me con distacchi minimi di pochi secondi tra l’uno e l’altro. Nella tappa di montagna con arrivo al Nevegal, di qualche giorno dopo, andò davanti in classifica Adorni con 22 secondi su di me. Nella tappa successiva, con arrivo a Moena, sono riuscito a staccare Adorni sul passo Valles e a riprendere la Maglia Rosa e a portarla negli ultimi giorni. Ho vinto con 2 minuti e 24 secondi di vantaggio su Vittorio.

  • E i Giri successivi?

Nei cinque Giri successivi mi sono sempre piazzato tra i primi 5 o tra i primi 10: nel ’64 all’ottavo posto, quando vinse Anquetil; nel ’65 al quinto posto, quando vinse Adorni; sesto nel Giro del ’66 vinto da Motta; secondo nel ’67 alle spalle di Gimondi; sesto nel ’68 quando vinse il suo primo Giro Merckx.

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  • Hai incontrato tanti grandi campioni sulla tua strada: per chi qualche ricordo?

Ho avuto una grande ammirazione per Jaques Anquetil. Era, come si diceva, un gran “signore” in bicicletta e anche giù dalla bicicletta. Ricordo che un giorno, dopo una gara in circuito sulle strade di casa, ho invitato i compagni di corsa a lavarsi e a cambiarsi a casa di mia mamma, che era un po’ la mia casa; è venuto anche Anquetil col suo compagno di squadra Altig: la prima cosa che ha fatto, entrando, è stata andare a salutare e a ringraziare mia mamma che stava appartata in un angolo per non farsi notare. Noi giovani corridori, allora, non avevamo certe finezze. Quel gesto di gentilezza non l’ho mai dimenticato.

  • Di Merckx cosa puoi dire?

L’unica cosa che continuo a dire di Merckx è che non capisco perché, almeno qualche volta, non abbia fatto vincere qualche suo compagno. Ma forse è proprio quella caratteristica che l’ha reso il campione che davvero era: uno che vinceva 30-35 gare ogni anno, una cosa mai vista prima.

  • Altri?

Ho conosciuto e stimato tanti corridori nella mia carriera e anche dopo. Con alcuni mi vedo o mi sento tuttora, come Italo Zilioli o il “Tista” Baronchelli.

  • Come è cambiato il ciclismo dai tuoi tempi?

È cambiato tantissimo, come è cambiato il mondo. Già nel corso della mia carriera le cose stavano cambiando: nei miei primi anni di professionismo lo spirito era ancora quello del dilettante. C’era passione. Ci si divertiva anche. Io potuto fare una vita da giovane come quella di tanti altri. Per gli allenamenti, per l’alimentazione, per la condotta di vita mi davano delle indicazioni, ma ero io a regolarmi e a decidere cosa fare.

Adesso mi pare che tutto sia portato all’esasperazione. Ci sono ragazzi e ragazze che cominciano a fare le corse da bambini, spinti più dai genitori che da loro stessi. Non trovano più il tempo e neppure la voglia di stare insieme e di divertirsi in maniera sana. E, arrivati ad una certa età, sono stanchi dello sport, e spesso non sanno più cosa fare nella vita. Accumulano troppo stress.

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  • Coi tuoi figli come ti sei regolato?

Ho una figlia e un figlio, entrambi laureati e bene. A mio figlio non ho mai comprato la bici da corsa. Dopo che si è laureato ed ha iniziato a lavorare come ingegnere, si è preso da lui la sua bici da corsa. Adesso va anche in montagna in bici, ma per sé stesso. No, non penso che oggi si possa studiare e, nel mentre, fare ciclismo agonistico: per tante ragioni, è meglio che i figli studino.

  • Sei cattolico: come la fede ti ha aiutato nello sport e nella vita?

Sì, ho diversi amici sacerdoti. Mia figlia con la sua famiglia è ancora più “cattolica” di me. Difficile dire come la fede mi abbia aiutato. Non penso alle piccole cose: quando facevo fatica in bicicletta non pensavo ad un aiuto dal cielo. Penso piuttosto a “Qualcuno” che mi ha sempre accompagnato e aiutato in tutta la mia vita. Io ci credo.

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