Don Primo Mazzolari: eredità e memoria condivisa

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Da un pontefice all’altro, il nome di don Primo Mazzolari riecheggia insistentemente: «In tempi recenti – ha affermato papa Leone XIV – abbiamo avuto l’esempio di santi sacerdoti che hanno saputo coniugare la passione per la storia con l’annuncio del Vangelo, come don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani, profeti di pace e di giustizia»[1].

Il nome di don Primo è entrato stabilmente nella memoria collettiva, almeno per una certa generazione, e soprattutto nei dintorni di Bozzolo, dove da sei anni si svolge la Tre Giorni Mazzolariana, non cadrebbero nell’equivoco, inopinatamente rilanciato anche da una certa intellettualità, di scambiare don Mazzolari con don Milani quando si ricorda la frase variamente citata secondo cui “non serve aver le mani pulite se si tengono in tasca”[2].

Gli abiti nostri

Forse perché gli Istituti di Scienze Religiose sfornano ancora tesi in cui gli studenti esplorano l’opera di don Primo partendo da un frammento ascoltato o ritrovato sugli scaffali di casa, pienamente immersi in un sentore che esprime una memoria condivisa, come un abito che dà forma alla tua vita.

Per cui capita che un semplice studente possa presentare alla Tre Giorni Mazzolariana un lettera di don Primo da lui stesso ritrovata in un suo percorso di tesi. La qual cosa sarebbe a nostro avviso piaciuta a don Primo, che non amava né gli esperti né gli specialisti che magari si compiacciono di scrivere libri talmente perfetti da risultare perfettamente inutili.

Don Primo Mazzolari ha questo di particolare, che riesce ad indossare gli abiti di ciascuno di noi. È l’arte del romanzo che lo rende possibile e don Primo era divorato dalla passione per la letteratura, non certamente intesa come un insieme di libri. «In fondo – ha scritto Bruno Bignami – l’amore per la ricerca intellettuale è un modo di esprimere l’amore per l’uomo»[3].

La letteratura custodisce il senso delle parole[4] senza il quale rimangono i programmi, gli intendimenti e anche le esortazioni, ma sparisce l’uomo. «Solo il romanzo – osserva Elmar Salmann – è all’altezza della singolarità, della libertà, della tragicità, della complessità e della concretezza di ogni fenomeno»[5] Allora capiamo l’amore per la letteratura di don Primo, come un modo di riconoscere l’umano che si nasconde in ogni esistenza, anche e soprattutto in quella che appare la più insignificante.

Ospitare vite altrui

Don Primo può così ospitare ciascuno di noi nei suoi racconti: «Conoscere è un fatto personale. In religione, conoscere è ospitare»[6].  Ma per esserne capaci, non dobbiamo «trasformare in idolo il gradino dell’altare»[7]. Nello svuotamento interiore che ospita la vita altrui, sorge la tematica dei “lontani” e appare la grandezza di Mazzolari che ci parla di “nostro fratello Giuda”.

Succede solo se usciamo dagli stereotipi che lo stilizzano costringendolo nelle immagini del contestatore politico ed ecclesiale, per ritrovarlo invece in riva agli argini del suo paese. La sua parola accende le stanze della nostra vita quotidiana, raccogliendosi attorno ad una realtà non ufficiale né autorizzata (come sta diventando questa società militarizzata) che Mazzolari denominava dei “lontani”.

È una parola, scrive, che gli piace perché «sa di nostalgia: di ponti mantenuti almeno da una parte: di desideri taciuti: d’incontri e di ritorni auspicati, cercati, preparati nella preghiera e nella carità del cuore e della intelligenza. Sa di esilio […]»[8].

Mi sembra dunque si debba dare a questo termine una tonalità espressiva che riesca ad immunizzarlo dalle inclusioni sociologiche ed anche politiche. Non si parla di una condizione ma di un atteggiamento, di una  presa di posizione sostenuta da una domanda: come parlare ai lontani? Non si tratta di parlare magari a favore dei lontani, esprimendo “idee […] benpensanti, tollerantissime, innocue” che si trasformano in vuote parole d’ordine. Piuttosto di una conversione del cuore per la quale si riesca a vedere ed a ospitare i reietti e i dimenticati: «Le cose viste dal cuore sono diverse»[9].

L’umano perduto

Scorgiamo così un atteggiamento ricorrente e forse originario nell’opera di don Primo: l’intima partecipazione alle vicende umane attraverso uno sguardo che non si lascia distrarre dalle parole altisonanti che risuonavano in quel periodo di forti ideologie; uno sguardo che sa fermarsi sulla quotidianità marginalizzata per restituirci tutto lo spessore dell’umano perduto.

Bisogna lasciar parlare i lontani, ma perché ciò avvenga dobbiamo saperli ascoltare, coglierli nel loro vivere quotidiano. «Gli uomini non si prestano a facili schemi ideologici»[10]. È necessario che lo sguardo sappia vedere intimamente, “in un incontro di sguardi”, ciò che comunemente non si vede: «Per volerci bene, come ce ne vogliamo noi, bisogna che almeno una volta ci siamo guardati»[11].

Don Primo sembra invocare una poetica dello sguardo che sola si mostra in grado di dare visibilità all’umano[12] e al religioso che definisce l’umano: «Non vogliamo vedere Dio; non vogliamo vedere la morte; non vogliamo vedere il dolore, non vogliamo vedere i poveri»[13].

Mazzolari ci sembra così prima di tutto un poeta, ma la sua poesia non vuole abbellire il reale. È piuttosto il tentativo di trasformare il nostro linguaggio nel linguaggio del mondo, e infine di perdersi nel mondo: “Amo perdutamente le cose che passano”, le amo fino al punto di perdermi nelle cose del mondo. Proprio il movimento kenotico getta una nuova luce sul mondo, come a far vedere le cose per la prima volta, direbbe Guardini[14]. E nella debolezza emerge la parola definitiva dell’amore:

«Le cose viste dal cuore sono diverse. Non è l’abbandono diffuso del cielo senza sole, eppur sereno abbastanza da restituirmi lo sguardo che mi raccoglie affettuosamente su ogni cosa. Piuttosto un’ora di crescita interiore, una nuova dimensione di tenerezza e di pietà che mi fa sentire la dolce fragilità della primavera. Questa sera amo perdutamente le cose che passano. Mi pare di poter pensare che la fraternità si alimenti anche di questo senso misterioso, eppur così vero. E anche buono. Chi si sente troppo forte come può voler bene? La mamma si lega al bambino così: ella vede sempre il bambino e il suo amore è intessuto di tenerezza. La parola più vera e più alta dell’amore è la pietà. Vedere così è conoscere»[15].

Parlare ai lontani

Forse per questo papa Francesco, nel suo pellegrinaggio sulla tomba di don Primo Mazzolari[16], non ha inteso spiegare quanto lanciare uno sguardo sulla nostra condizione parlando per immagini, evocando i luoghi metaforici della pianura, del fiume, della cascina quali momenti di concreta rivelazione della vita spirituale e religiosa.

Le stesse immagini che hanno guidato la Tre Giorni Mazzolariana, nata sulla scia di queste suggestioni, con il proponimento di “parlare ai lontani” che abbiamo visto riferirsi non tanto al “saper parlare”  esprimendo parole “innocue”,  quanto ad un rinnovato esercizio di ascolto che possa estirpare gli idoli della presenza e dell’identità che infestano la modernità: «Chi vede la povertà d’ognuno prima e sopra ogni altro possesso, ha gli occhi del Signore»[17].

Un’esperienza raggiunta solo da chi ama “perdutamente” e chi riesce a guadare solo “dove finisce il vedere”, lì dove la parola umana si interrompe per entrare in una relazione che ci impone di ascoltare una dismisura non dominabile, non nominabile, in una  notte chiara che sa di attesa, come nell’incipit della celebre omelia di Mazzolari Nostro fratello Giuda:

«Miei cari fratelli, è proprio una scena di agonia e di cenacolo. Fuori c’è tanto buio, c’è tanto buio e piove. Nella nostra chiesa, che è diventata il cenacolo, non piove, non c’è buio, ma c’è una solitudine di cuori di cui forse il Signore porta il peso».

Ci riferiamo a quella “breccia” nel linguaggio su cui ha felicemente insistito Roberto Maier[18]  per nominare il poetico e ritrovarlo in Mazzolari come il luogo di una breccia, dell’interruzione della lingua che genera strappi nella logica del logos. Ma da questi strappi, da queste ferite – osserva Maier –, penetra la luce. La poetica di Mazzolari non è altra dalla sua insistenza sui dimenticati che abitano questi resti e vivono queste ferite.

La sua grande intuizione fu esattamente di trovare la luce dell’epoca a partire da questi luoghi di scarto, da questi ultimi, da queste realtà che si nascondono tra i lembi della società. Se la parola di Dio interrompe le parole degli uomini, è anche perché abita spesso questi luoghi di rottura, di margine e marginalità: «Chi conosce il povero, conosce il fratello: chi vede il fratello vede Cristo, chi vede Cristo vede la vita e la sua vera poesia, perché la carità è la poesia del cielo portata sulla terra»[19].

Stiamo certamente parlando di una emarginazione e di una povertà di fatto, ma la fatica e la sofferenza del lavoro, il “rumore dell’accetta”[20] che segna la vita dell’uomo, non ha un valore negativo per Mazzolari. Don Primo sembra piuttosto scorgere la povertà del moderno: il passaggio dalle certezze della società tradizionalista all’avventurismo della modernità. Il lontano è soprattutto colui che vive questo disorientamento ed è tagliato fuori dal sordo rumore distruttivo del progresso: la “legione degli smarriti sempre più vicina” al suo “povero cuore”[21].

Ed ecco apparire l’inesauribile attualità delle parole del profeta, quando don Primo vede in questo disorientamento «una straordinaria situazione di disponibilità»[22]. Ricorre la testimonianza biblica della “terra di nessuno” dove imperversano «troppi mostri e troppe ideologie»[23]. L’analisi di Mazzolari sembra scritta ieri: «La vita sta prendendo sempre più un aspetto sportivo, di piazza, di palcoscenico, di agone, di competizione, ed il coraggio si esaurisce in questo genere di sforzi onde non essere posto in tentazione di esercizi ben più lodevoli e con sapore ben più umano»[24].

Quale tempo di credere ci è dunque dato di vivere? Come possiamo credere in questo tempo vedendo con Mazzolari, al di là di ciò che si può vedere, “i segni d’avvento”? Avvertire ciò che rispunta sotto le rovine  è un primo dovere del cristiano. L’attenuarsi del senso dell’avvento documenta la nostra decadenza spirituale[25].

La sesta edizione della Tre giorni mazzolariana, incontrando ancora una volta le parole di Mazzolari, ha indicato questo percorso, perché le parole di Mazzolari ci restituiscono un senso di attesa che pura attraversa la muta sofferenza esistenziale patita dagli uomini del presente. Occorre saper ascoltare e tradurre il senso di eternità nascosto in questa sofferenza. Alcuni vorrebbero «vedere gente inginocchiata e folle oranti»[26] mentre «importa documentare l’attesa dei lontani»[27], «avere anche un cuore proteso verso le voci più delicate e quasi impercettibili della nostra generazione, che, accanto ai violenti distacchi, conosce gli spasimi ineffabili di un’attesa che, se non ha ancora un nome, dà però tanta speranza a chi può vedere»[28].


[1] Papa Leone XIV, udienza  al clero della diocesi di Roma riunito il 12 giugno 2025 in aula Paolo VI.

[2]  In Tempo di Credere, l’opera che ha fatto da filo conduttore alla sesta edizione della Tre Giorni Mazzolariana, è formulata in modo leggermente diverso: «Nessuno può tenere le mani in tasca per paura di contaminarle» (Primo Mazzolari, Tempo di Credere, EDB, Bologna 1977, 17). La prima edizione (V. Gatti edizioni, Brescia 1941) fu sequestrata il 5 marzo 1941 per ordine del Ministero della Cultura Popolare Fascista.

[3] B. Bignami, Primo Mazzolari: la cultura è spiritualità, Settimananews, 12 aprile 2020.

[4] Cfr., J.-L. Nancy, La custodia del senso. Necessità e resistenza della poesia, a cura di Roberto Maier, EDB, Bologna 2017.

[5] E. Salmann, La teologia è un romanzo, Edizioni Paoline, Milano 2000, 23.

[6] Tempo di credere, 69.

[7] Tempo di credere, 142.

[8] P. Mazzolari, I lontani. Motivi di un apostolato avventuroso, EDB, Bologna 1981, 31. Nell’Introduzione alla nuova edizione (P. Mazzolari, I lontani, a cura di B. Bignami, EDB, Bologna 2020), Bruno Bignami sembra insistere su questo punto. Un brano riportato di don Primo è particolarmente significativo, quand’egli afferma: «Purtroppo, oggi, ha preso piede un concetto di “pratica” non spirituale, con danno immenso dell’iniziativa e spontaneità personale. Lo schema, la traccia, lo svolgimento, la strada già tracciata: ecco dove arriva la scuola, la rivista, il manuale. Tutte cose belle, perfette e scritte da grossi calibri della nostra coltura: ma sono appunto i grossi calibri che raramente raggiungono il bersaglio» (in B. Bignami, Introduzione a P. Mazzolari, I lontani, 10). Commenta a un certo punto Bruno Bignami: «Il cristianesimo non può presentarsi come esperienza di élite né come un club per pochi intimi né come gruppo di gente per bene dalle belle idee» (ivi, 34).

[9] P. Mazzolari, Il diario di una primavera, 71.

[10] P. Mazzolari, Ivi, 19.

[11] P. Mazzolari, Ivi, 28.

[12] Vengono in mente le parole di Calvino che, definendo la letteratura, sembrano adeguarsi perfettamente alla poetica di Mazzolari: «Quello cui io tendo, l’unica cosa che vorrei poter insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro» (Lettera a François Wahl, 1960).

[13] «Non vogliamo vedere Dio; non vogliamo vedere la morte; non vogliamo vedere il dolore, non vogliamo vedere i poveri… Chiudo gli occhi un giorno; chiudo il cuore un giorno; chiudo la ragione un giorno, un anno, molti anni; poi, non ne posso più, e vedo Dio, la morte, il dolore, i poveri: proprio chi non vorrei vedere. Su ogni strada c’è una svolta: all’improvviso, ecco che dal mio intimo stesso risale la certezza che Dio c’è, e il dolore m’attanaglia, e la morte mi viene vicina, e il povero mi appare (P. Mazzolari, Ci sono davvero i poveri?, in «Adesso», 31 gennaio 1949).

[14] «Io vorrei aprire, diciamo così, nuovi occhi per vedere le cose in modo nuovo: rendere tutti coscienti della forza creativa presente nel loro intimo, represso finora dal “discredito dell’ubbidienza”. Dunque, non dimostrare, ma aiutare a vedere in modo nuovo. Immaginiamo un quadro in una stanza dall’aria opaca. È possibile dimostrare con analisi chimiche l’eccellenza dei suoi colori, o con documenti storici che esso è opera di un grandissimo maestro. Ma è possibile anche aprire una finestra sulla parte che gli sta di fronte: ed ecco che la stanza è inondata di luce, e i colori appaiono nella loro luminosità. A quel punto non c’è più bisogno di dimostrare nulla. Si vede». (R. Guardini, Vom Sinne des Gehorchens,  20).

[15] P. Mazzolari, Diario di una primavera, 71.

[16] Cf., Papa Francesco, Discorso commemorativo del Santo Padre in occasione del pellegrinaggio a Bozzolo. Chiesa Parrocchiale di San Pietro Apostolo – Bozzolo (Cremona), 20 giugno 2017.

[17] Tempo di credere, 84.

[18] R. Maier, A che cosa serve avere le mani pulite, se si tengono in tasca? La lezione di don Primo Mazzolari per il nostro tempo, Intervento durante la giornata di studi “In dialogo con Primo Mazzolari” (Gazzada, 10/11/2019).

[19] P. Mazzolari, La Via crucis del povero, EDB, Bologna 2012, 33.

[20] Dal Diario di una primavera.

[21] È la dedica che introduce Tempo di credere: Alla legione degli smarriti, sempre più vicina al mio povero cuore, sempre più cara al cuore dei cuori.

[22] «L’anima moderna è in una straordinaria situazione di disponibilità. Non vi sono ingombri, non v’è certezza alcuna: una landa. La landa spaventa perché è desolazione; ma, nel contempo, quel vuoto può servire per le apparizioni ideali. Solo il deserto può fiorire in una notte» (Tempo di credere, 111). Mazzolari lo scrive annotando esplicitamente che sta «ascoltando i  lontani» (ibidem) in un paragrafo titolato esplicitamente Cuori vuoti.

[23] Tempo di credere, 112.

[24] Tempo di credere, 72-73.

[25] Tempo di credere, 106.

[26] Tempo di credere, 110.

[27] Tempo di credere, 100, corsivo dell’autore.

[28] Tempo di credere, 111, corsivo mio.

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Un commento

  1. Fabio Cittadini 24 luglio 2025

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